La ‘guerra cafona’ e la questione meridionale

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Studi Cassinati, anno 2008, n. 1

di Fernando Riccardi

Il brigantaggio post-unitario, fenomeno molto complesso determinato da un coacervo inestricabile di cause sociali, economiche, ambientali, politiche, ideologiche e culturali, non puó essere ridotto, sic et simpliciter, all’esplosione incontrollata e inarrestabile dei più bassi istinti delinquenziali. Non tutti i briganti furono assassini, ladri e grassatori. Qualcuno, anzi, più di qualcuno, in quel drammatico decennio che seguì l’unificazione della Penisola, decise di ribellarsi per un motivo ben più nobile: difendere la terra ma, soprattutto, la dignità oppressa e calpestata dagli invasori provenienti dal nord. Certo, non tutti furono eroi, così come non tutti furono briganti.
Non mancò chi, profittando della situazione di grande confusione e di incertezza, badò solo ai suoi interessi, spesso torbidi, senza provare pulsioni ideologiche o palpiti patriottici.
Ridurre, però, quel nutrito stuolo di legittimisti che giunsero da ogni parte d’Europa per sostenere la lotta contadina che infuriava nel sud d’Italia alla stregua “di ignobile plebaglia”, di loschi figuri da inviare al capestro, come spesso fu fatto, non sarebbe giusto né storicamente corretto. La ricostruzione di Vito Mancini, figlia legittima di quella storiografia imperante che per tanto, troppo tempo, l’ha fatta da padrona, mi è sembrata eccessivamente convenzionale. E se ciò vale, a mio avviso, per i cosiddetti briganti, ancora di più lo è per le ‘brigantesse’, un mondo assolutamente inesplorato e in gran parte sconosciuto. Non furono tutte ‘drude’, tutte volgari prostitute, quelle che si unirono alle bande per dispensare le loro grazie ai rivoltosi.
Non tutte furono femmine da bordello degne della più feroce esecrazione e da additare al pubblico ludibrio. Molte furono costrette a salire la montagna per non morire di fame e di stenti, per sfuggire alla disperazione, per allontanarsi da quel paese dove il giudizio della gente era più tagliente della lama di un coltello e dove insopportabili e oltraggiose erano le angherie dei piemontesi e dei loro aficionados locali. A quel tempo non era facile la vita per mogli, madri, sorelle o amanti dei briganti. Per loro non c’era scelta: o ci si dava alla macchia o si collaborava, in tutti i sensi, talamo compreso, con gli sbirri venuti da lassù a dettar legge.
Non esisteva via d’uscita. E se molte si piegarono, in tante decisero di resistere impugnando lo schioppo e il pugnale. Bisognerebbe, poi, distinguere le donne dei briganti, quelle che per amore vollero stare vicine al loro uomo, dalle brigantesse vere e proprie che abbracciarono la causa spinte da motivazioni ideologiche e politiche. Forse non furono tante. Di certo si confusero in quella massa indistinta di donne, di madri e di mogli. Ciò malgrado sarebbe ingeneroso fare di tutta l’erba un fascio. Così come fuorviante è imputare quel fuoco inarrestabile che infiammò il meridione d’Italia dal 1860 al 1870 unicamente alla voglia di rivalsa dello straccione, del poveraccio che da sempre coltivava “nell’animo suo spontaneo l’istinto della ribellione e della vendetta”.
Se fosse stato veramente così, quella rivolta sanguinosa ed estenuante non sarebbe durata tanto a lungo né il governo sabaudo avrebbe impiegato nella repressione le sue migliori energie. Sarebbe stata spazzata via al primo impercettibile soffio di vento.
E invece così non fu perché alla base della ‘guerra cafona’ vi erano motivazioni ben più profonde. Quelle stesse che, ancora oggi, impongono di parlare della ‘questione meridionale’.
Argomento antico, datato, ma, ahimé, drammaticamente irrisolto.

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