La ‘ruota degli esposti’: il passato che ritorna

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Studi Cassinati, anno 2007, n. 4

di Fernando Riccardi

Qualche tempo fa, a Roma, nel ‘baby box’ del Policlinico Casilino, i medici hanno trovato un bimbo di tre mesi, sei chili di peso, in ottime condizioni di salute, pulito, lavato, con cappottino, tutina nuova e un cappello di lana blu in testa. Al fagottino che una mamma snaturata ha lasciato in quel contenitore riscaldato e collegato con un video alla vicina struttura ospedaliera, è stato dato il nome di Stefano. Il piccolo, poi, è stato trasferito nel reparto pediatrico del nosocomio e lì è iniziata, tra mille premure e attenzioni, la sua difficile vita di trovatello. Davvero una bella idea quella del ‘baby box’ soprattutto se si pensa che l’abitudine era (ed è ancora) quella di lasciare i neonati davanti al portone delle case oppure nei cassonetti della spazzatura, al freddo, alle intemperie e nella sporcizia, con gravi rischi per la salute e per la vita stessa del bimbo.
Una idea così brillante da incontrare l’approvazione dell’assessore regionale alla sanità Augusto Battaglia il quale ha annunciato che la ‘culla salva bimbi’ sarà istituita in tutti gli ospedali del Lazio dotati di reparto di maternità. Chissà come sarebbe stato stato contento Lotario dei Conti di Segni, divenuto poi papa con il nome di Innocenzo III (1198-1216), il quale otto secoli fa aveva pensato di istituire nell’ospedale di Santo Spirito, in Roma, la ‘ruota degli esposti’: era stato molto turbato, infatti, dai numerosi cadaveri di neonati che restavano impigliati nelle reti gettate dai pescatori nel Tevere.
La ‘ruota’ era una struttura lignea ruotante: il bambino, adagiato nella parte esterna, veniva portato all’interno attraverso una semplice rotazione della tavola. In linea di massima essa veniva allestita negli ospedali, nei conventi, nei monasteri e, a volte, nelle chiese. Erano le suore che si prendevano cura dei neonati abbandonati, anche se spesso i piccoli morivano dopo pochi giorni: la ‘ruota’, infatti, non era dotata di tutti i confort odierni. Sempre le suore provvedevano ad imporre le generalità ai piccoli trovatelli: per il nome si faceva riferimento al Santo del giorno in cui era avvenuto il ritrovamento. Per il cognome, invece, si aveva un’ampia possibilità di scelta: i più ‘gettonati’ erano Salvato, Dioguardi, Dioatellevi, Fortuna, Rotile e così via di seguito. A Napoli molto frequente era il cognome Esposito mentre a Roma si diffuse grandemente quello di Proietti: la ‘ruota degli esposti’, infatti, era chiamata anche ‘ruota dei proietti’ (dal latino ‘proiectus’ = abbandonato). Nell’Ottocento, in Italia, le ‘ruote’ erano all’incirca 1.200 e ogni capoluogo di provincia ne aveva una. Anche i comuni nostrani, dove l’abbandono dei neonati aveva raggiunto dimensioni ragguardevoli (sarà sufficiente, a tal riguardo, sfogliare un qualsiasi registro parrocchiale dei battesimi), avevano i contenitori ‘salva bimbi’. Limitando la nostra analisi ad alcuni centri della media valle del Liri che fino al 1860 è stata parte integrante del Regno di Napoli, sappiamo con certezza che le ‘ruote’ erano presenti a Santopadre, a Roccasecca e ad Arce. Per quel che concerne Roccasecca, fin dal 1807, si ha notizia di una tale Maria Lonzi ‘nutrice dei Proietti e conservatrice della Rota’, abitante nel quartiere della Valle, che cercava di portare avanti, nel migliore dei modi, il suo non facile compito. Da una ‘mappa de’ projetti’ dello stesso anno risulta che la signora Maria doveva badare a ben sette orfanelli, tutti in tenerissima età. Il che comportava delle spese non indifferenti; non essendo l’amministrazione comunale tempestiva nell’erogare i fondi necessari, la situazione, spesso, diventava improba. Per questo la nutrice, non sapendo più come far fronte all’emergenza, indirizzò una ‘supplica’ all’Intendente di Terra di Lavoro affinché sollecitasse il sindaco di Roccasecca a metterle al più presto a disposizione la somma di ducati 33 e carlini 6, per pagare i debiti contratti presso alcuni commercianti del paese. Il rischio era che, con l’arrivo della stagione invernale, non potendo più provvedere alla attività di cura e di sostentamento, i piccoli potessero passare a miglior vita1.
Ad Arce, invece, la ‘ruota degli esposti’, in ossequio ad una ‘superiore disposizione’ del sotto Intendente del distretto di Sora, venne introdotta nel 1829. “Tale ruota doveva essere istituita presso una casa in cui aveva stabile dimora una ‘pia ricevitrice’. Costei, come fa capire chiaramente il nome, aveva il compito di fornire una prima assistenza ai neonati abbandonati”2.
La ‘ruota’ era un cilindro di legno del diametro di poco più di mezzo metro che veniva inserito nel muro dell’abitazione in posizione verticale. Tale cilindro ruotava attorno a due perni di ferro infissi nello stesso muro: ciò, ovviamente, per consentire di portare il neonato dall’esterno all’interno dell’edificio. La ‘ruota’ aveva dimensioni così ridotte per un motivo ben preciso: in essa, infatti, dovevano essere posti soltanto i neonati e non i bambini più grandicelli. “Ciò all’evidente fine di ridurre al massimo i fruitori dei detti benefici pubblici e di impedire che qualche ‘furbo’ profittasse della situazione”3. Ogni cosa, insomma, era stata adeguatamente studiata. Per la sua preziosa opera la ‘nutrice dei projetti’ riceveva uno stipendio dall’amministrazione comunale: nel bilancio della municipalità arcese relativo al quinquennio 1843-1847, tale somma ammontava a 12 ducati.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Il ‘baby box’ dell’ospedale capitolino e l’iniziativa dell’assessore Battaglia mirante ad istituire negli ospedali laziali la ‘culla salva bimbi’, affondano le loro radici nella storia. Si deve parlare, quindi, ancora una volta, di un chiaro ritorno alle origini. Ciò a dimostrazione che non tutto quel che ci ha preceduto è proprio da buttare via.

1 Dario Ascolano: “Storia di Roccasecca”, a cura dell’Amministrazione Comunale, II edizione, Tipolitografia Pontone, Cassino 1997, p. 191
2 Ferdinando Corradini: “… di Arce in Terra di Lavoro…”, volume II, parte speciale, sezione I, Litotipografia Francesco Ciolfi, Cassino 2004, p. 221
3 Ferdinando Corradini, op. cit., p. 222

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