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Studi Cassinati, anno 2007, n. 2
Nel 1943 prestavo servizio nelle Ferrovie dello Stato a Roma. Dopo l’otto settembre tornai a S. Elia per far visita a mio padre Michelangelo La Marra e mi trattenni più del previsto, poiché eravamo militarizzati.
Dopo una settimana vennero a cercarmi i Tedeschi per riportarmi a fare il ferroviere. Io mi feci negare. Dopo di che me ne andai fuori paese e precisamente nella zona chiamata Posto.
Un giorno io e mio fratello Elia andiamo a casa per mangiare qualcosa. Il pomeriggio usciamo da casa per tornare in campagna. Arrivati in mezzo alla strada, mi videro due Tedeschi e mi puntarono il mitra. Mio fratello Elia si trovava qualche metro più indietro e fece in tempo a buttarsi nel fosso che passa tra casa e la strada. A me mi portarono fuori La Porta, dove trovai tre camionette delle S.S. piene di compaesani. Tra questi c’era anche Benedetto Genovese e il barbiere Antonio Arciero, detto Boschitto. Poi seppi che nel tentativo di fuggire ammazzarono Tonino l’elettricista della Cartiera di S. Elia.
La sera ci portarono nella Chiesa di S. Antonio a Cassino. Dopo qualche giorno ci portarono nel carcere di Cassino, ora sede dell’ENEL. Dal recinto di questo carcere alcuni prigionieri notarono un buco nella rete e fuggirono. Tra questi anche Benedetto Genovese, che mi invitò a fuggire, io però mi trovavo più vicino alla sentinella e non ebbi il coraggio di fuggire.
Durante la prigionia ci portavano nelle campagne del Cassinate a tagliare alberi, a fare le postazioni lungo il Garigliano, a minare i ponti verso Mignano.
Durante il lavoro ogni sentinella aveva dieci prigionieri da sorvegliare con il fucile e baionetta inastata; con la mia squadra c’era anche Antonio Arciero, un ragazzo piuttosto esile e non reggeva a quel lavoro pesante e spesso veniva maltrattato dalla sentinella.
Sul posto di lavoro ci portavano a piedi. La mattina all’uscita dal carcere spesso trovavo mia sorella Michela e mia cognata Angela Maria che mi portavano qualcosa da mangiare.
Un giorno stavamo lungo l’argine del Garigliano a fare delle postazioni; a un certo momento sentiamo rumore di aeroplani americani a bassa quota. La sentinella ci fece buttare tutti per terra. Io presi coraggio e mi buttai nel fiume; e visto che la sentinella non si era accorto niente, raggiunsi la sponda opposta e mi buttai in una buca scavata da noi alcuni giorni prima e ci rimasi finché non andassero via i prigionieri tedeschi. Dopo di che attraverso le campagne raggiunsi la zona di S. Antonino. Passando vicino ad una fattoria c’erano due persone anziane; stanco ed affamato raccontai ogni cosa. Questi signori mi diedero qualcosa da mangiare e mi fecero riposare in una stalla. La mattina all’alba attraverso le campagne raggiunsi S. Elia. Dopo di che con i famigliari ci rifugiammo in montagna fino all’arrivo degli alleati che ci sfollarono in Calabria.
Testimonianza di Emilio De Vivo: 10 anni all’epoca dei fatti narrati.
Il primo bombardamento di Cassino il 10 settembre 1943
Era una bella giornata di sole nella prima metà di settembre. Da poco eravamo tornati a Cassino da Valvori, un paese sulle colline vicine, dove avevamo deciso di trascorrere la villeggiatura, anche per sentirci più tranquilli, dopo che nel mese di luglio avevamo passato gran parte delle notti svegli per gli allarmi che si ripeterono per più giorni e che culminarono con il bombardamento notturno dell’aeroporto militare di Aquino, situato a qualche decina di chilometri di distanza. La guerra durava da circa tre anni e fino ad allora ne avvertivamo la presenza attraverso la radio ed i giornali. Da qualche tempo andava male per la nostra parte, gli eserciti alleati dopo aver invaso la Sicilia si avviavano alla conquista dell’Italia risalendo dal sud, c’era stato lo sbarco di Salerno, Napoli era stata semidistrutta e nonostante la mia giovane età avevo capito dai discorsi dei grandi che si stavano preparando per noi giorni difficili. Poi proprio due giorni prima c’era stato l’annuncio dell’armistizio e tutti s’erano sentiti più sollevati dalla speranza che ogni pericolo fosse passato e che presto sarebbe arrivata la pace. Non si dava gran che importanza al continuo passaggio di colonne di autocarri e mezzi corazzati tedeschi che transitavano lungo la strada principale diretti a sud e degli aerei che solcavano il cielo fatti segno a colpi della contraerea. Dovevano essere circa le 11 del mattino. Ero a casa affacciato alla finestra sul lato posteriore che dava su un vicolo1 dove stavano giocando alcuni ragazzi. Sentii il rumore di numerosi aerei che passavano alti nel cielo; mi sporsi dal davanzale senza vederli e pensai che fossero diretti come altre volte all’aereporto. Nella casa di fronte una donna sul balcone guardò anch’essa in su, facendosi velo con la mano dal sole ed esclamando forte “eccoli, eccoli”. Per qualche minuto si allontanarono, poi di nuovo il rumore dei motori si fece più vicino, irruppe in un crescendo fragoroso; i ragazzi giù nella strada furono richiamati con alte grida nelle case, per un attimo non riuscii a rendermi conto di cosa stava succedendo, quando al rumore dei motori si sovrapposero improvvisi i primi scoppi. Attraversai di corsa le stanze fino a quella dei miei genitori situata a sud-est con la vista di un grande spazio aperto davanti; vidi mio padre, che non era uscito perché influenzato, ritto vicino al balcone, mentre indicava delle colonne di fumo che si alzavano verso il cielo. Mia madre, accorsa anche lei dalla cucina, chiese se si trattasse di colpi della contraerea; al che mio padre rispose con voce concitata “sono bombe, ci stanno bombardando” e subito ci esortò a scendere immediatamente in cantina. In pochi secondi che sembravano interminabili, mentre gli scoppi continuavano, ci precipitammo giù per le scale andandoci a riparare in un angolo della cantina che mio padre ritenne essere il più sicuro da eventuali crolli. Rimanemmo immobili in quell’angolo, io con le orecchie turate, abbracciato ai miei genitori per un tempo che in quegli istanti sembrava non finisse mai pregando Dio, la Madonna e vari santi del cielo. Quando finalmente tutto cessò, cautamente mio padre aprì il portone, un gran polverone s’era levato e la prima cosa che notai fu un uomo bianco di polvere che veniva dalla nostra parte tenendo in mano una bicicletta e gridando ci disse che diverse case erano crollate, che c’era gente che scappava e che qualcuno forse era rimasto sotto le macerie. Fortuna volle che il centro della città era stato risparmiato, le bombe erano cadute nella maggior parte in periferia lungo la via Marconi a poche centinaia di metri da noi e soprattutto verso la stazione ferroviaria. Noi eravamo usciti illesi da un bombardamento aereo; non così purtroppo, come apprendemmo di lì a poco, dolorosamente, il mio padrino Domenico Baccari la cui villa era stata centrata in pieno da una bomba. In gran fretta nel pomeriggio raccogliemmo alcune cose più importanti e ci rifuggiammo in una nostra casa di campagna in località Ponte Murato. Nei giorni seguenti approntammo i bagagli con gli oggetti che ritenemmo più necessari, caricammo tutto su due carri trainati da buoi e tutta la famiglia, comprese le mie zie, una vecchia prozia e una giovane che viveva con noi; partimmo per rifugiarci di nuovo a Valvori, quel vicino paese di montagna dove eravamo già stati durante l’estate.
Lasciavamo quasi tutto alle nostre spalle senza sapere quando saremmo ritomati. Nessuno in quei momenti poteva immaginare a quale tragedia saremmo andati incontro e quali sofferenze avremmo dovuto patire nei mesi e negli anni seguenti, lontano dal nostro paese che fu raso al suolo durante una delle più grandi battaglie della seconda guerra mondiale. Io guardavo i volti tristi ed angosciati dei miei parenti e mi colpì la faccia stravolta di mio padre mentre chiudeva in un inutile gesto di protezione il portone di casa.
Testimonianza di Antonio Vano nato nel 1916
Ricordando il 1943 in provincia di Frosinone
A mezzo secolo di distanza, riprendendo in mano il mio “Diario” dell’internamento in Germania1, mi si affollano alla mente i ricordi, seppure quasi svaniti, degli storici avvenimenti vissuti nel “calvario” di Cassino nel periodo luglio-novembre 1943.
In quel tempo, ma già dal 1940, ero impiegato alla B.P.D. (Bomprini-Parodi-Delfino), stabilimento sito nel bosco “Faito” in Ceccano. In detto stabilimento, tra l’altro, si producevano proiettili calibro 20 per l’antiaerea e calibro 17/34 per la Marina.
Facevo il pendolare partendo da Cassino alle ore 5 circa del mattino con un treno che nasceva a Cassino, affollato di operai particolarmente diretti a Ceccano, Anagni, Colleferro per le industrie belliche, e a Roma per i lavori in corso alla “Cecchignola”.
A sera ritornavo con un trenino di sole due vetture, la “littorina”, proveniente da Roma e diretto a Campobasso: per questo lo chiamavano, come ora, “la Campobasso”. Allora abitavo a Cassino in via Silvio Spaventa, 13, al piano 2° del fabbricato Vertechy, in coabitazione con i miei suoceri.
La sera del 19 luglio 1943, terminata la cena mi stavo attardando a realizzare un “accruocco”, come si dice qui, disegnatomi dall’amico Lorenzo Bove, disegnatore tecnico alla B.P.D., che mi serviva per mettere in funzione un campanello al momento dell’interruzione della corrente elettrica per lo stato di preallarme aereo.
Mancava poco alle 23, senza segnale di preallarme e senza interruzione di corrente elettrica, dai vetri del balcone che dava su via Spaventa si vide il cielo illuminato a giorno. Allarmai i miei familiari e, affacciatici al balcone, vedemmo vagare nell’aria decine e decine , o centinaia, di razzi luminosi lanciati dagli aerei ad alta quota. La luce intensa ed il rombo terrificante dei motori ci facevano raggelare dal terrore. Senza indugi, così spaventati, ci precipitammo in strada. Il vicolo del “Laguozzo” era già pieno di gente spaventata che fuggiva in direzione del carcere, anche noi fra loro – il carcere allora era ubicato sul sito attualmente occupato dall’ENEL – n.d.r. –. Alcuni poi si diressero verso la via per Caira in direzione del “Concentramento”. Altri presero la via Sferracavalli verso S. Elia; noi e tanti altri prendemmo la via S. Pasquale.
A mia moglie, nella fretta, avevano messo addosso uno spolverino bianco: la gente, convinta che il bianco potesse essere veduto dagli aerei, glie lo fece togliere.
In prossimità del fiumiciattolo Pescarola ci addentrammo in un campo di granone. Alle 23, minuto più minuto meno, verso sud il cielo cominciò a solcarsi di scie luminose prodotte dall’attrito delle bombe che cadevano seguite da enormi vampate e terrificanti esplosioni.
Pensammo subito che si trattasse del campo d’aviazione di Aquino.
A quel tempo detto campo era intensamente utilizzato sia dalla nostra aviazione che da quella tedesca: da lì partivano gli aerei per le missioni di guerra nel meridione d’Italia ed altre destinazioni.
Il bombardamento, ad ondate continue, andò avanti per circa tre ore.
Rientrammo a casa verso le tre e mezza; ci stendemmo sui letti senza svestirci. Io alle cinque dovevo essere sul treno per recarmi al lavoro a Ceccano. Il treno , con pochi pendolari, partì in perfetto orario, ma in prossimità del campo d’aviazione, e per tutto il tratto che lo fiancheggiava, transitò molto lentamente, quasi a passo d’uomo. Con la poca luce albeggiante del mattino, ma alla luce del bagliore dei vasti incendi ancora attivi sul campo, si poté osservare il disastroso sconvolgimento degli impianti, degli edifici colpiti e in fiamme; le piste e il terreno erano sconvolti e numerosi erano i falò degli aerei in fiamme. Alla stazione di Piedimonte-Villa S. Lucia e Aquino non salì nessuno dei tanti abituali lavoratori. Anche alla stazione di Roccasecca furono pochi i pendolari che salirono sul treno.
In treno e poi in fabbrica non si parlò d’altro che del bombardamento di Aquino e dell’andamento preoccupante della guerra. Altro bombardamento con tre formazioni di quadrimotori (circa 36), preceduti e seguiti da numerosi “caccia”, venne effettuato di nuovo sul campo d’aviazione di Aquino il giorno 21 luglio verso le ore 12.
Con il campo d’aviazione anche il centro abitato di Aquino subì seri danni.
Non passava giorno senza che dalla radio si dessero notizie di bombardamenti su località e città italiane da parte degli alleati.
Alla B.P.D. continuava la produzione di munizioni e l’accumulo di migliaia di proiettili di scarto. Errori o sabotaggi?!
La mattina del 25 luglio, durante la riunione della Direzione amministrativa e tecnica della B.P.D., la radio diede la notizia della caduta del fascismo e della cattura di Mussolini. Confusi per lo stupore, chi sgomento, chi euforico, uscimmo dagli uffici e ci riversammo nel piazzale antistante a commentare, con lo stato d’animo del momento, l’avvenimento. Poco dopo uscì pure il dirigente dello stabilimento, ing. Carrassi, il quale, agitando le braccia in alto e giubilante di gioia, scese la scalea di 6 o 7 gradini, si inginocchiò esclamando: “finalmente!” e baciò a terra. In quel giorno negli uffici, nelle officine e nei laboratori non si combinò nulla perché tutti impegnati in commenti, spesso insensati, e spaventati anche dalla prospettiva di probabili reazione da parte dei fascisti.
Tra le incertezze e i timori di disordini, tra bombardamenti disastrosi che si verificavano in tutta la penisola e l’andamento del conflitto dopo il facile sbarco degli alleati in Sicilia e l’incubo di subire eventuali bombardamenti, trascorrevano monotone, si fa per dire, le giornate.
Un giorno dai Carabinieri di Cassino mi venne notificata la cartolina di richiamo alle armi. Addio esonero ottenuto perché impiegato alla B.P.D.! La mattina successiva mi premurai di avvisare la Direzione dello stabilimento. Il direttore amministrativo, Dott. Dall’Oglio, mi rinfrancò dicendomi che si sarebbe interessato per non farmi allontanare molto.
Il giorno 8 agosto, alle ore dieci, mi presentai, cartolina alla mano, al distretto Militare di Frosinone, 81° Reggimento di Fanteria. Dopo tutti i preliminari, compresa la vestizione, fui chiamato e condotto nell’ufficio del Comandante, Col. Giaglietti, il quale, con molta riservatezza, mi informò che sarei rimasto al Distretto, ma sempre a disposizione di eventuali chiamate dalla Direzione della B.P.D. di Ceccano.
Molto rinfrancato dall’aver evitato eventuali ignote destinazioni, sull’attenti ringraziai.
In quella sede si svolgevano solo mansioni amministrative e non avevano in dotazione armi di alcun genere.
Il 15 agosto (venerdì), dalle informazioni locali in Distretto, sapemmo di altro bombardamento al campo d’aviazione di Aquino. I timori cominciarono a darci la convinzione che anche Frosinone ed il suo aeroporto corressero lo stesso pericolo, oltretutto perché in esso si accumulavano truppe, armamenti e carri armati da inviare sul fronte di guerra in atto nel meridione d’Italia.
Da voci sapemmo del bombardamento di alcuni paesi del basso Lazio. Da Cassino non riuscivo ad avere notizie di nulla e nemmeno dei miei familiari.
Quando mi era possibile, la sera, scendevo alla stazione di Frosinone con la speranza di incontrare qualche paesano che mi potesse dare notizie dei miei familiari e di Cassino.
Il transito di treni in quel periodo era molto limitato; verso le ore 20 passava un convoglio diretto a Campobasso, la littorina.
La sera dell’8 settembre 1943, erano le ore 19,45, dal giornale radio ascoltato nel bar della stazione, si apprese, con un freddo comunicato, che il governo italiano, con a capo il maresciallo Pietro Badoglio, aveva firmato l’armistizio con le Nazioni alleate, sino a quel momento in guerra con l’Italia e la Germania.
Al comunicato seguirono esultanze per la fine delle ostilità e la sopraggiunta pace. Alcuni tedeschi presenti, convinti che la cessazione delle ostilità interessasse anche loro, si unirono a noi per festeggiare.
Dopo poco, appena ripartito il treno, mi affrettai a rientrare al distretto. Lì si era tutti in cortile, compresi il comandante ed altri ufficiali, in attesa di più dettagliate notizie. Nulla in merito all’armistizio: tra molte incertezze passò la notte.
Al mattino del giorno 9, dalla Prefettura, si apprese che Cassino era stata materialmente invasa dai tedeschi. Erano state occupate tutte le zone strategiche della città: la Direzione e il deposito di artiglieria (il Concentramento), la caserma dei carabinieri, il deposito U.N.P.A. [Unione Nazionale per la Protezione Antiaerea2, n.d.r.], le arterie principali e gli incroci per disciplinare e convogliare i numerosi automezzi carichi di truppe e materiali bellici diretti verso Napoli.
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