Studi Cassinati, anno 2006, n. 2
di Giovanni Petrucci
Agli inizi del mese di febbraio 1944 i Francesi, stanziati in vari punti del territorio di S. Elia Fiumerapido, avevano ben compreso che la battaglia si sarebbe protratta lungamente; per questo motivo cominciarono a far capire ai civili che essi avrebbero dovuto lasciare le loro case e la loro terra.
L’invito si trasformò in ordine perentorio dopo la distruzione dell’Abbazia del 15 febbraio ed i Santeliani dovevano eseguirlo.
Dalle varie plaghe del paese erano costretti a riunirsi in un centro di smistamento ubicato nel Palazzo Lanni. A volte arrivavano anche abitanti di altri paesi, desiderosi anche essi di mettersi in salvo nell’Italia meridionale. Quelli del territorio di Portella si radunavano nel Vallone e i camion carichi si accodavano all’autocolonna pronta in Via Vallerotonda, dalla salita di Enrico Risi fino alla curva della Tascitara.
Quando scendevano le tenebre, erano costretti a salire su dodge americani dai cassoni molto alti, guidati da Tunisini o Algerini.
Formatosi un lungo treno, a notte fonda, avveniva la partenza: i civili spaventati dai cannoneggiamenti e dai bombardamenti, avviliti, confusi ed a volte piangenti erano costretti a fuggire, non avendo nemmeno la calma necessaria per rivedere le abitazioni e salutare eventualmente qualche parente o amico.
Partivano stravolti dalla fame, dalla pediculosi, dalle malattie, dal dolore per avere già perso qualche congiunto e senza conoscere la destinazione cui erano diretti; venivano spinti con brutalità a salire sui camion privi di scale idonee, sui quali le donne ed i vecchi potevano issarsi con fatica, perché i pianali erano molto alti. Alla brutalità dei loro modi i salvatori aggiungevano lo scherno tagliente con parole che suonavano come tante rasoiate: «Italiani mangiamaccheronì, gridate adesso evviva Mussolinì!».
I Tedeschi, lungo la strada per Vallerotonda, nel ritirarsi, avevano distrutto il muro di contenimento della strada e, proprio sul Vallone dell’Inferno, di fronte a Portella, avevano fatto saltare un ponticello, o meglio una sorta di canaletto, costruito trasversalmente alla strada, nel quale defluivano i rigagnoli che si raccoglievano ai piedi della collina durante la pioggia e si scaricavano nel precipizio opposto.
Alcuni riferivano che proprio in quei giorni la località in questione era stata oggetto di un ripetuto cannoneggiamento da parte dei Tedeschi, che aveva causato una grande frana.
Fatto sta che proprio dopo la curva, la strada si avvallava notevolmente, con una grande pendenza verso l’esterno. In questo modo era stata danneggiata e resa difficile, se non impossibile, per il transito.
La notte del 17 febbraio del 19441 era particolarmente buia; l’autocolonna procedeva a fari spenti per evitare l’avvistamento dei Tedeschi dalle postazioni di monte Cairo; al primo camion faceva da battistrada Antonio Tomolillo2 con un fazzoletto bianco nella mano destra per indicare il limite del precipizio; questi si era fatto conoscere e si era reso disponibile a dare aiuto ai Francesi; oltre tutto conosceva bene la lingua, essendo stato in Francia quale emigrante per molti anni; nei pressi della loggia di Portella, il secondo camion, rimasto alquanto distanziato e perduto il contatto con quello che lo precedeva, si accostò di molto alla destra e rovinò nello strapiombo a circa centocinquanta metri in fondo al vallone3. Questo reale andamento delle cose spiega perché alcuni parlavano e continuano a parlare ancora oggi di due camion precipitati4; ma, secondo le testimonianze, il primo camion si era ormai allontanato ed era fuori dal pericolo5.
Si levarono urla di dolore che laceravano il cuore nel silenzio della notte. Gli occupanti dei camion che seguivano si resero conto dell’immane tragedia, e alcuni, non potendo prestare soccorso, restarono impalati, impietriti, in quanto avevano intuito che cosa era accaduto; altri, più animosi, accorsero, scesero nel burrone facendo un lungo giro, accesero fasci di fiori di ampelodesma, gli strugli di stramma, e si accinsero a trovare le persone precipitate nel vuoto, che forse ritrovarono subito sentendo le grida.
Dagli atti che abbiamo avuto modo di consultare risulta che morirono Angelosanto Filomena, Pomella Angelo, Verrecchia Clemente di 32 anni, Verrecchia Felice di 40 anni, il figlio Verrecchia Fernando6, e di sicuro Savelli Maria Palma, 29 anni, da Terelle.
Pasquale Tomolillo ricorda ancora che nel mese di luglio, al rientro dallo sfollamento, in fondo al precipizio era ancora la carcassa del camion maledetto e che nei pressi giacevano insepolti molti cadaveri dai quali si sprigionava un puzzo nauseabondo. Anime pietose di Portella pregarono Alessandro Coletta, soprannominato in dialetto Busciardo, di seppellirli provvisoriamente. Questi poté solo circondare con pietre i cadaveri e coprirli con la poca terra che riusciva a impalare nel terreno sassoso.
Successivamente furono traslati nel cimitero di Sant’Elia Fiumerapido probabilmente dai parenti di Felice e di Clemente Verrecchia, che risultano scritti nel Liber Defunctorum ai nn. 45 e 46 del mese di gennaio 1945, della Chiesa di S. Maria La Nova.
Vi furono dei feriti, che vennero trasportati negli ospedali civili e militari di Venafro e di Maddaloni.
Pasquale Marra, un ragazzetto di poco più di tre anni, si salvò per miracolo, perché gli rimasero impigliate per attimi in un ciuffo di ampelodesma le corregge delle ciocie e perché se lo teneva stretto al petto la madre: questa morì e, grazie al suo sacrificio, il figlio Pasqualino sopravvisse.
“Se ti racconto la tragedia di quella notte, mi dice Pasquale7, ti faccio accapponare la pelle: ricordo come se fosse accaduto ieri quando rotolavo giù per il burrone, anzi quando volavo nel fondo della valle e mi sembrava di non arrivare mai. Mi è rimasto impresso nella mente tutto, anche se avevo poco meno di quattro anni, anche se andavo in braccio a mia madre: ero nato a Terelle il 10 maggio 1940.
Una volta divenuto grandicello dai sopravvissuti, tra i quali zia Luigia, fui informato di ogni particolare: mi raccontarono che alcune famiglie avevano stabilito di abbandonare la prima linea di combattimento di Terelle per rifugiarsi tra gli Americani e poi in Italia meridionale. Esse si riunirono e concordarono come scappare: passarono lungo tratturi nascosti che conoscevano solo loro per sfuggire ai Tedeschi nascosti in ogni dove e arrivarono a Ottaduna; di lì scesero ad Olivella e proseguirono per S. Elia.
E lungo la strada della salvezza avvenne la sciagura: mi ruppi la gamba destra in più punti e mi portarono all’Ospedale di Venafro.
Mio padre fu ferito pure lui e fu ricoverato all’Ospedale Militare di Maddaloni.
Io non sono mai stato riconosciuto come orfano di guerra, perché mio padre era vivo. Non so se mia madre morì quella notte. Sono andato a Terelle, a Vallerotonda, a Venafro, ma nessuno mi ha mai saputo dire nulla. Certo è che io non sono mai riuscito ad avere un documento!
Avevo tre anni e nove mesi! Di mia madre non ricordo come era, non ho una fotografia, un fazzoletto, uno scialle, niente! Eppure io la vedo nella mia mente di settantaduenne come una bella donna, ridente, viva e bella! Certe volte la sogno e sento che mi accarezza come se fossi un bambino!
Di quella notte maledetta so solamente che si strillava … che mi prendevano per mettermi in salvo. In quel momento non capivo nulla, provavo solo un immenso dolore quando mi afferrarono per portarmi su alla strada; vedevo il fuoco, mi sembrava di scorgere il mio camion che bruciava nel baratro: ero proprio nel Vallone dell’Inferno!
Non c’era speranza di sopravvivere in un tale volo; alcuni poi mi hanno riferito che un camion andava avanti e un altro lo seguiva a rimorchio, e il primo ha mandato nel vuoto il secondo come un panaro pieno di frutta, no, di profughi; alcuni parlavano anche di una cannonata improvvisa che colpì il nostro camion e lo fece precipitare giù nel burrone; ma nulla è sicuro! non sarà vero!
Mi ricordo le grandi fiamme e un dolore lancinante quando mi presero e mi portarono sulla strada, le caramelle col buco, gli stick di vario colore che le crocerossine americane mi davano in abbondanza e la gamba rotta in più punti che mi faceva gridare come un ossesso.
Zia Giustina, la sorella di mio padre, quando seppe dove ero ricoverato, venne subito a trovarmi. E io saltai sul letto e mi feci male, perché alla sua vista mi sembrò di essere guarito e perciò volevo andarle incontro. La vista di una persona cara che conoscevo mi fece sobbalzare dalla gioia. Non ti dico quando vidi mio padre! A ricordare queste cose, mi viene un nodo alla gola e non posso più parlare. Zia Giustina mi curò amorevolmente, non facendomi mancare nulla, soprattutto l’affetto, di cui avevo bisogno.
Gli strilli delle donne, delle persone che precipitavano! Le grida mi perforano la testa ancora adesso; avete mai sentito in televisione gridare prima piano, poi forte, poi più forte ancora. Furono attimi terribili. Benedette quelle mani che si protesero verso di me e mi afferrarono riportandomi su. Chi cadde per primo subì il rovinio di chi gli andò sopra. Io non so in quale camion mi trovavo! né certamente gli occupanti avevamo le cinture di sicurezza! Fummo perciò disseminati nel precipizio. Eravamo una ottantina complessivamente, quaranta per camion; e mi hanno anche riferito che ne morirono la metà. Immaginate la scena di queste persone sbalzate, come fuscelli, di notte nel vallone dell’Inferno: dovette essere una sventura apocalittica!
Non si puó sapere di questa carta bianca che era data ai soldati marocchini. Dicono che nessun generale abbia dato ordini. Hanno commesso tante nefandezze e nessuno sapeva nulla? È mai possibile ciò! I comandanti non sapevano proprio niente?
Anche i nostri soldati si sono male comportati in altre parti dell’Europa.
Il fatto é che le guerre non si dovrebbero mai fare!”
“Nel camion di Antonio Marra, la moglie Maria Palma Savelli e Pasquale – racconta il prof. Pietro Grossi8 –, erano Antonio Savelli e la moglie Maria Luigia Elia; gli altri componenti della numerosa famiglia, Marcella, Anna Maria, Vincenza, Maria e Orlando erano in un altro camion. Maria Luigia riferì di avere accompagnato ed assistito, come poteva, il piccolo Pasqualino; che Antonio Marra andò girando, ferito come era, per tutto il giorno fra le tende dell’accampamento dell’Ospedale Militare di Maddaloni, chiamando a gran voce la moglie Maria Palma; poi, stremato dal dolore e stanco, tornò nel suo lettino: si dovette convincere così che la moglie era rimasta in fondo al burrone a Sant’Elia. Assunta Savelli ancora oggi ricorda che quando la mamma Maria Luigia la conduceva al cimitero a visitare i defunti e le dava da accendere un lumino per ogni congiunto trapassato, ma non gliene dava mai uno per la zia Maria Palma, che non era sepolta a Terelle”.
La signora Giustina aggiunge altri particolari: “La mamma Maria Palma salvò Pasquale nella caduta: lo tenne stretto ad un ciuffo di stramma nel quale erano rimaste impigliate le corregge delle cioce, fino a quando lei non cadde nel baratro e si sfracellò su un masso.
Mio nipote non lo vuole capire che la madre è morta … che morì per salvare lui!
Se voi lo conoscete, usatemi questa cortesia, per carità, fateglielo capire che la madre è morta! ormai è passata una vita e deve una buona volta rendersi conto!
Io per diciotto anni alla sera mi affacciavo lì di fronte, al balcone di casa mia, e restavo ad aspettare che mia madre e mio padre tornassero con il treno delle venti; mi ero convinta, non so come, che i miei genitori se li erano portati in Germania i Nazisti!
Ma erano morti a Cassino con il bombardamento del 10 settembre del 1943.
Ormai anche io l’ho capito! ma solo adesso!”
Dopo molte ore di ricerche al lume dei fasci di ampelodesma accesi dai parenti che si avvicinavano premurosi a sentire ogni flebile lamento e dei soldati francesi, che in verità si prodigarono, mentre i barellieri aspettavano pronti per portare i feriti su alla strada, finalmente l’autocolonna poté riprendere il lento cammino.
Aggiustarono alla meglio la strada perché non si corressero di nuovo rischi; spensero del tutto i fari che non proiettavano più luce dalle piccole feritoie di qualche centimetro e un soldato si avvolse in un ampio lenzuolo bianco per indicare, con maggiore evidenza, il limite esterno del precipizio. Così, a passo d’uomo, o meglio a passo di soldato, si procedeva verso la salvezza9.
Questa sventura ne chiamò altre, più gravi! Dopo quell’incidente, i soldati dell’esercito francese impararono ad imitare con diabolica malizia analoghe sciagure; per lo più alle Serre di Acquafondata, deviavano leggermente i camion, facevano scendere tutti a terra, creavano il panico e approfittavano della confusione: separavano qualche donna dalla famiglia in modo da avere giuoco facile; si comportavano come certi animali quando isolano la preda e poi l’afferrano; erano peggiori di certe belve!
Ricordo che … ; ma è meglio non parlare più di certe nefandezze!
Purtroppo sia nei Registri del cimitero sia in quelli dell’Ufficio Anagrafe di Maddaloni, di Venafro e di S. Elia Fiumerapido non risulta il nome di Maria Palma Savelli: di sicuro venne traslata insieme con Felice e Clemente Verrecchia e inumata in una fossa comune perché non identificata nel mese di gennaio 1945.
Da questa rivista ti rivolgiamo un caro pensiero, mamma Maria!
1 La data ormai accertata pare sia questa del 17 febbraio 1944; l’arciprete d. Gennaro Iucci per Clemente Verrecchia e Felice Verrecchia attesta quella del 10 febbraio; sulla lapide del cimitero di S. Elia è incisa la data del 20 febbraio 1944; la distruzione del Monastero di Montecassino avvenne il 15 febbraio 1944.
2 Testimonianza del nipote, Pasquale Tomolillo, che viaggiava appunto sul primo camion.
3 Jacques Robichon in un passo della sua pubblicazione, Le Corp Expéditionnaire Français en Italie, a p. 294, parla di un incidente accaduto per cause diverse lungo la strada Sant’Elia-Acquafondata: che forse si riferisca a quello occorso la notte del 17 febbraio? Certo è che l’autore definisce i “conducteurs… peu familiarisés encore avec l’effrayant engin”.
4 Testimonianza dell’insegnante Giuseppe Arpino, che viaggiava sul terzo camion.
5 L’episodio è con fedeltà descritto in Costantino Jadecola, Linea Gustav, Sora, 1994, p. 214: “… vuoi per la strada dissestata vuoi per il massiccio fuoco dei tedeschi che, nonostante tutto, controllano ancora il territorio, uno dei camion carico di sfollati che con gli altri si avvia verso Vallerotonda, giunto all’altezza della loggia di Portella, precipita nella sottostante valle dell’Inferno …”. Cogliamo l’occasione per ringraziare di cuore lo studioso che ci fornì copia del Piano di Ricostruzione di Cassino del 25 maggio 1945, inesistente nell’Archivio del Comune e in quello del Genio Civile di Cassino, che ci permise di scrivere l’articolo su Giuseppe Poggi, comparso su Studi Cassinati n. 1 del 2006.
6 Dal Registro dei Morti dell’Archivio Parrocchiale della Chiesa di Santa Maria la Nuova.
7 Da una intervista del 10 giugno 2005 a Pasquale Marra.
8 Intervista del prof. Pietro Grossi ad Assunta Savelli, figlia di Antonio Savelli e di Maria Luigia Elia, fatta il 10 marzo 2006.
9 Da informazioni gentilmente fornite dall’ins. Giuseppe Arpino.
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