Studi Cassinati, anno 2006, n. 3
Quid est Ciociaria?
Caro Emilio,
è inutile nascondersi dietro un dito: dopo l’editoriale che hai pubblicato sull’ultimo numero di Studi Cassinati (anno VI, n. 2, aprile-giugno 2006) sei diventato il portabandiera degli storici locali. È in questa tua veste che ti scrivo. Nel medesimo numero della rivista innanzi citato, fra le Segnalazioni bibliografiche è riportato il testo curato da Gioacchino Giammaria e Giampiero Raspa dal titolo Guida alle ricerche storiche per la provincia di Frosinone. In tale testo sono raccolti numerosi scritti di vari autori. In quello che chiude la serie vengono rivolte agli storici locali le solite accuse di eruditismo, carenza di contestualizzazione, visione municipalistica e da humbelicus mundi, ecc. ecc. Nel medesimo volume, inoltre, figura uno scritto di un illustre cattedratico romano sul quale ritengo opportuno fare delle considerazioni. Lo scritto ha il titolo de La Ciociaria nella storia dei secoli XII e XIII. Il titolo, di per sé, mi lascia perplesso: nel medioevo, infatti, la Ciociaria non si sapeva neanche che cosa fosse. Ma non è questo il punto. Trattando di Sora e di Arpino, l’illustre cattedratico ci informa come nel 1215 queste due città, a seguito della donazione fattane da Federico II al Papato, entrarono a far parte dello Stato della Chiesa e come successivamente i re di Napoli tentarono invano di riconquistarle. Per nostra fortuna viene in nostro soccorso lo storico locale Arduino Carbone, il quale alle pagg. 137-140 della sua monografia La Città di Sora edita nel 1970, evidenzia come Federico II, sei anni dopo aver donato al Papato Sora e Arpino, provvide a riprendere tali città, che, successivamente e salve brevi parentesi, hanno fatto parte del regno di Sicilia, di Napoli, o delle Due Sicilie che dir si voglia fino al 1860 e, dopo, sono state ricomprese nella provincia di Terra di Lavoro, che aveva il suo capoluogo in Caserta, fino al 1926. Sia ben chiaro: l’mprecisione in cui è caduto nulla toglie alla “grandezza” dell’illustre cattedratico romano, che è e resta uno dei maggiori conoscitori del medioevo a livello planetario. La storia locale, però, è meglio lasciarla scrivere agli storici locali così come la storia planetaria, europea e nazionale devono scriverla gli storici mondiali, europei e nazionali. Tornando a noi non posso non evidenziare come la nostra storiografia stia diventando sempre più “frusinatecentrica”. Di ciò troviamo conferma nello scritto che chiude la serie del volume che sto prendendo in esame. In tale scritto vengono fornite indicazioni sulle istituzioni e i “luoghi” da frequentare per attingere notizie di storia locale: in tale elenco non si rinviene né l’Archivio di Stato di Caserta né la Biblioteca del Museo provinciale campano di Capua. Chi ha condotto delle ricerche su quella parte dell’attuale provincia di Frosinone che fino al 1926 è stata ricompresa nella provincia di Terra di Lavoro, sa perfettamente quali e quanti tesori siano conservati in questi luoghi.
Molti cordiali saluti – Ferdinando Corradini
Per favore non mi attribuire ruoli che non mi competono: non sono portabandiera degli storici locali, tanto meno paladino di nessuno: scrivo soltanto quello che penso, semplicemente. e. p.
Ancora sui rapporti tra l’Università di Cassino e gli storici locali
Egregio Direttore,
ho letto con molto interesse il suo editoriale che apriva il numero 2/2006 di “Studi Cassinati”. L’argomento che viene preso in considerazione, ossia la dura presa di posizione dell’Università degli Studi di Cassino nei confronti dei cosiddetti “storici locali”, non costituisce, ad onor del vero, qualcosa di nuovo né di inedito. Seguendo un andamento ciclico, di tanto in tanto, la “diatriba” riprende vigore e viene riproposta andando a configurare uno scenario che, a mio avviso, non ha ragione alcuna di essere. Da un lato, infatti, ci sarebbero i docenti universitari, ossia gli “storici di professione”; dall’altro gli “studiosi di storia locale” i quali, a quanto pare di capire, farebbero meglio a dedicarsi a tutt’altro mestiere. Sembra quasi che due squadroni di cavalieri, brandendo vessilli di diverso colore, siano lì lì per scendere nella pugna e darsele di santa ragione. A che scopo poi? Ma è elementare: per poter essere i soli, gli uni o gli altri, a fregiarsi, a buon diritto, del titolo di “storici ufficiali”. Ma, alla fin fine, è proprio così? Esiste davvero questa accanita e feroce contrapposizione? A me, onestamente, non pare. Anche perché le argomentazioni di carattere storico e culturale in genere, almeno alle nostre derelitte latitudini, non sembrano attrarre folle oceaniche. Spesso le conferenze e i convegni si svolgono davanti a poche decine di intervenuti, quasi sempre gli stessi che, come truppe cammellate, si spostano di appuntamento in appuntamento. In questo quadro già abbastanza desolante non si avverte proprio l’esigenza di porre in essere polemiche e distinguo. Se esse poi non hanno ragion d’essere, la cosa diventa persino fastidiosa e controproducente. Personalmente mi diletto a ricostruire e a far conoscere, anche attraverso la sua ottima rivista, alcune vicende passate che hanno caratterizzato la storia del Lazio meridionale. Nel corso della mia più che ventennale attività di ricerca ho avuto modo di confrontarmi più volte e di collaborare proficuamente con illustri accademici ossia con i cosiddetti “storici” di professione. Debbo candidamente confessare di non aver avuto mai problemi; né, tanto meno, ho avvertito, nei miei riguardi, alcun tipo di supponenza o di spocchia che dir si voglia. Anzi tutt’altro. Dal lavoro comune sono scaturiti ottimi risultati e così, alla fine, nessuno è stato lì a disquisire su eventuali primati o supremazie. Così come nessuno ha travalicato andando ad occupare posizioni che non gli competono. Quel che conta, alla fine, è il risultato. Tutto il resto è noia, come cantava qualcuno. I ruoli tra gli “storici di professione” e gli “storici locali”, insomma, sono sicuramente distinti e forse anche distanti. Ciò non toglie, però, che miscelando armonicamente le diverse professionalità (e mi creda, caro Direttore, ce ne sono tante anche fra gli studiosi di storia locale) si potrebbe ottenere la famosa quadratura del cerchio. Risultato che è già stato conseguito in più oc-casioni, con grande soddisfazione di tutti. Quanti di noi, molto ben volentieri e con sincera disponibilità, hanno dato una grossa mano a studenti che si sono poi laureati nell’ateneo della Città Martire discutendo tesi su argomenti di storia locale? Io l’ho fatto più volte e sono pronto a ripetere l’operazione senza pretendere nulla in cambio, nel pieno rispetto dei ruoli e delle professionalità. Del resto ognuno di noi svolge un altro mestiere e non ha bisogno di invadere il campo degli altri. Non servono, quindi, le “scomuniche” né, tanto meno, le “guerre di religione”. Occorre, invece, collaborare sempre di più e i risultati sicuramente non tarderanno a giungere. Anche perché le forze in campo sono già così esigue che dividerle ulteriormente sarebbe, a dir poco, delittuoso.
Cordiali saluti Fernando Riccardi
Va preliminarmente chiarito che non c’è alcuna guerra di religione in atto, almeno da parte nostra. Tutt’al più si potrebbe parlare di “scomunica” (solo per usare un tuo termine – diamoci del “tu” come al di fuori di queste pagine, vista la lunga amicizia che ci lega) da parte degli autori della nota in questione (vd. Studi Cassinati, 2/2006, “Editoriale”). Va anche precisato che noi di Studi Cassinati non ci siamo sentiti chiamati in causa da quell’intervento, ma abbiamo voluto dar voce, come già precisato, alle reazioni, molto risentite, di numerosi studiosi locali che ci hanno contattato in quanto “autorevoli interlocutori”, così qualcuno ci ha definito. Il mio intervento, inoltre, è stato solo una risposta ad un genere di discorso sempre latente ma reso pubblico nel libro “Annale” dell’Università di Cassino: come tale meritava una risposta altrettanto pubblica. Dunque non una polemica – almeno da parte nostra –, ma un dibattito, un qualcosa di cui discutere; ecco, il titolo potrebbe essere: “i rapporti tra università e studiosi locali”. Sì perché, al di là delle questioni, rapporti, come tu stesso ci confermi, ce ne sono sempre stati, e molto spesso di collaborazione. Forse tutto nasce da certe definizioni dei ruoli: personalmente ho sempre usato la formula “cosiddetti storici locali”, ma non in senso riduttivo, solo perché sono del parere che quello dello storico è un ruolo molto particolare ed impegnativo, per cui o si è storici o non lo si è, sia che ci si occupi dei massimi sistemi sia che si studi il quaderno della spesa della massaia che acquista broccoletti: si puó essere docenti universitari di storia ma non necessariamente storici; così pure il non accademico puó assurgere al ruolo di storico grazie a particolari doti culturali ed intellettuali: solo per fare qualche esempio in ambito locale, Tommaso Leccisotti, monaco, fu storico (e che storico!), Luigi Fabiani, Prefetto, ha scritto di storia vera, così pure Angelo Pantoni, monaco ingegnere. La differenza sta nel livello di specializzazione e di competenza nel campo del proprio interesse. Non esiste lo storico in grado di occuparsi di tutto: quella sarebbe solo una colossale presunzione; tanto meno esiste lo storico locale.
Se, anziché usare l’espressione “storico locale”, si usasse quella, secondo me più appropriata, di “studioso locale”, forse ci sarebbe minore “preoccupazione” da parte degli storici accademici e meno equivoci. Infatti non c’è alcuna volontà da parte dei “locali”, per quanto mi risulta, di prevaricazione e di appropriazione indebita di ruolo. La cosa migliore da fare, credo, sarebbe quella di usare maggiore rispetto reciproco e, se possibile, maggiore collaborazione, lasciando all’Università – questo sì – il compito di guida e, dove necessario, di rettifica e indirizzo nei confronti di chi vuole occuparsi di storia.
Un lettore – mi prega di conservare l’anonimato – mi scrive che “la differenza tra storici locali e quelli universitari sta nel fatto che i locali guardano alla propria terra e a coloro che la calpestano, mentre gli storici universitari guardano in alto, all’Olimpo della storiografia, dove si puó fare carriera”. L’analisi è un po’ cattivella e la riporto solo per ridere un po’.
e. p.
(74 Visualizzazioni)