Studi Cassinati, anno 2005, n. 3
di Sergio Saragosa
Nel lontano mese di agosto del 1943, mentre l’Europa si apprestava a vivere il periodo più tremendo del secondo conflitto mondiale, il giovane Rosato d’Alessandro, classe 1924, lasciava la natia contrada Imperatore a Caira, alle pendici dell’omonimo monte, per assolvere al suo dovere di soldato verso la patria, essendo stato chiamato alle armi. Fino ad allora il viaggio più lungo del neo soldato era stato quello compiuto per scendere a Cassino dove si svolgeva l’addestramento pre-militare.
Arruolato nella Sassari, seconda compagnia, terzo battaglione, fu mandato a Trieste per completare l’addestramento. I nuvoloni dell’imminente tempesta già minacciavano la penisola risalendo lo stivale dalla Sicilia. L’otto settembre, insieme a un gruppo di suoi commilitoni, come lui diciannovenni, apprese la notizia dell’armistizio e contemporaneamente si ritrovò senza più la guida dei superiori che, in gran parte, si erano dileguati.
Il mattino del nove la sua caserma, a Montebello, venne presa da un reparto tedesco e tutti coloro che in essa erano rimasti furono tradotti a Postumia, dove rimasero prigionieri per quattro giorni. Il 13 settembre tutti i prigionieri italiani furono caricati su un carro bestiame e portati in un campo di raccolta presso la città di Torun in Polonia, dopo aver attraversato la Jugoslavia, l’Austria e la Germania con un viaggio durato 2 giorni e mezzo, senza cibo e senza acqua, facendo una sola sosta, scortati da soldati olandesi inquadrati nell’esercito tedesco. Nel campo vicino a Torun, che raccoglieva già circa trentamila prigionieri italiani, d’Alessandro incontrò il primo paesano, Genoveffo Saragosa. Svolse vari lavori ma, dopo poche settimane, insieme ad altri duecento prigionieri circa, venne utilizzato nella vicina città di Danzica per ammucchiare e per caricare carbone; lavoro duro e massacrante con cibo scarso a base di zuppe di carote, poche patate, rape e barbabietole. La domenica veniva dato ai prigionieri un piatto di spinaci. Dopo alcuni giorni, sotto la sorveglianza di un reparto della Wehrmacht, venne portato quotidianamente a lavorare in una vicina fabbrica dove rimase fino al 5 aprile del 1945, giorno in cui venne liberato dalle avanguardie dell’esercito russo. Il nuovo campo di lavoro, il 336, sorgeva alla periferia di Danzica e il gruppo di cui Rosato faceva parte iniziò a smontare, riparare e rimontare pezzi rotti di locomotive di treni. Per fortuna, durante quei due anni circa di prigionia, Rosato potè contare sull’amico e paesano Genoveffo, che gli aveva almeno evitato la solitudine e col quale aveva sempre potuto parlare dei parenti, degli amici e del paese lontano. Anche se la vita in fabbrica non era durissima, ricorda Rosato, gli italiani dovevano stare molto attenti a quello che dicevano, a chi frequentavano e a come si comportavano, perché erano tenuti sotto stretto controllo e guardati con sospetto dai sorveglianti tedeschi che li tacciavano di tradimento. La domenica e gli altri giorni in cui la fabbrica rimaneva chiusa i prigionieri dovevano andare a lavorare fuori ad approntare trincee e camminamenti. Durante quei lunghi mesi Rosato fu a stretto contatto con prigionieri di diverse nazionalità e si rese necessario imparare le espressioni più comuni delle diverse lingue per aiutarsi reciprocamente, per barattare cibo e oggetti vari e per avere rapporti con la popolazione civile. Mentre racconta le sue vicissitudini Rosato ripete con padronanza e chiarezza frasi in russo, tedesco, polacco, rumeno, nonostante i suoi 81 anni, veramente ben portati. Giovanile di aspetto e di mente si dedica alle attività agricole ancora oggi per diverse ore, non disdegnando lavori pesanti. Rosato non risparmia giudizi e riflessioni su fatti e persone, come quando ricorda un particolare episodio successo a lui e ad un ebreo presente nel suo campo. Costui, come lui, aveva barattato 5 aringhe con una famiglia polacca in cambio di una gallina. Era uno scambio di prodotti diventato quasi quotidiano per variare un po’ la dieta. I prigionieri erano stanchi di mangiare aringhe e i polacchi di cucinare polli. Lui, come era solito fare, prima ammazzò la gallina e poi incominciò a spennarla, mentre il suo vicino ebreo iniziò a spennare la gallina da viva. Il povero animale si dimenava e strillava a più non posso e Rosato si rivolse allora all’ebreo dicendogli : “Che ne diresti se ti trattassi allo stesso modo?”. Costui non capì e Rosato gli ripetè la stessa cosa. Intervenne un terzo prigioniero che tradusse quello che lui aveva detto, ma l’ebreo alzò le spalle e continuò a pelare imperterrito la povera gallina. Lascio immaginare al lettore il commento di Rosato a questo comportamento. In fabbrica un giorno arrivò un soldato polacco aggregato all’esercito tedesco per salutare un suo amico che lavorava a fianco di Rosato d’Alessandro. Costui saputo che Rosato era italiano gli chiese di quale città era originario e, appreso che veniva da Cassino, gli raccontò che lui nell’inverno del ’44 aveva combattuto sul monte Castellone e che conosceva bene Villa S. Lucia, Piedimonte e tutta la zona intorno all’Abbazia di Montecassino. Era addirittura passato vicino alla masseria in cui viveva la famiglia di Rosato.
Quasi dirimpetto al loro, venne intanto allestito un altro campo di raccolta per deportati civili russi e il loro trattamento era ancora peggiore del loro. In esso vi erano diversi gruppi familiari e gli uomini, ricorda Rosato, dicevano che i loro soldati, quando sarebbero arrivati, l’avrebbero fatta pagare cara ai tedeschi.
Dopo la liberazione per mano dei soldati russi, tutti furono accuratamente visitati e ad ognuno fu detto di far ritorno nel proprio paese con mezzi di fortuna. “Da doma!” (andate a casa ), fu loro ordinato dai soldati russi che li accompagnarono alla periferia di Danzica, ricorda Rosato. Erano finalmente liberi, ma non sapevano come fare per ritornare in patria. Rosato e Genoveffo con mezzi di fortuna iniziarono a spostarsi da un paese all’altro finchè a Koscierzina, a sud di Danzica, riuscirono a salire su un treno che portava soldati russi al fronte, verso Berlino. Su quel treno fecero amicizia con due russi e con un polacco ferito, che militava nell’esercito russo, carichi di refurtiva (posate d’argento e oggetti d’oro), che consigliarono loro di scendere in una città dove c’era l’ambasciata italiana (?). Da parte di alcuni rappresentanti italiani, infatti, furono avviati verso un campo di raccolta e subito dopo trasferiti a Lublino, verso i confini con l’Ucraina. In quel campo i due incontrarono Raffaele Nardone, un altro paesano che svolgeva le mansioni di infermiere e che li informò su tante cose per sopravvivere in quel campo. Dopo circa due mesi furono fatti salire su un treno merci e fu loro detto che li portavano ad Odessa sul Mar Nero per riportarli in Italia con una nave in quanto le ferrovie erano impraticabili. Ad un certo punto del viaggio notarono che il treno dopo una sosta invertiva il senso di marcia e dopo alcune ore degli ufficiali si accorsero che le stazioni dove esso si fermava mon erano quelle della linea per Odessa, in Ucraina. Il treno, infatti, fece tappa nella stazione di Sluk, in Bielorussia, poco lontano dalla città di Minsk. Nel nuovo campo di raccolta i tre prigionieri di Caira, Rosato, Genoveffo e Raffaele, rimasero fino alla fine di settembre, lavorando alle riparazioni stradali. In quel campo, dopo qualche giorno, incontrarono Saverio Leva, un altro paesano che, purtroppo, venne subito trasferito in un nuovo campo di raccolta. Nel campo il vestiario e l’alimentazione erano di provenienza americana e inglese e, questo fatto, ricorda Rosato, decise la loro sorte. Correva voce, infatti, nel campo, che essi erano stati di nuovo presi dai russi dopo la liberazione per andare a sgombrare le rovine di Stalingrado ma i nuovi rapporti dei Russi con gli alleati inglesi e americani, decisero favorevolmente la loro sorte, evitando il nuovo trasferimento con conseguenze imprevedibili. Rosato ricorda di aver notato in quel campo un medico italiano, anche lui prigioniero di guerra, che si adoperava a medicare i feriti, ma non ebbe mai modo di parlargli e di fare amicizia. A gruppi iniziò finalmente il rimpatrio e il primo a rimettere piede a Caira fu Raffaele Nardone che portò ai familiari dei due amici notizie rassicuranti sulla loro sorte. Durante tutto il periodo della prigionia Rosato d’Alessandro spedì diverse lettere ai familiari che ne ricevettero ben poche, ma lui ne ricevette una sola che, tra le altre notizie, gli comunicava che suo fratello Clementino, anche lui prigioniero, aveva già fatto ritorno a casa. Dopo due settimane di viaggio con una sosta inspiegabile di 6 giorni in Ungheria, procurandosi il cibo per le campagne circostanti, finalmente anche Rosato e Genoveffo rientrarono in Italia, a Pescantina, nei pressi di Verona. Venne loro consegnato un lasciapassare e il 20 ottobre del 1945, il treno arrivò finalmente alla stazione distrutta di Cassino, ma non si fermò. Rosato e Genoveffo dovettero scendere alla stazione di Mignano, aspettarono un treno che arrivava da Napoli e finalmente Rosato, attraversando una Cassino ancora segnata dalle ferite della guerra, poté risalire alla casa paterna, su alla contrada Imperatore, e riabbracciare i familiari che da pochi mesi erano rientrati da Casabona, in Calabria, dove erano stati sfollati.
Passati alcuni anni, Rosato ebbe bisogno del medico e si recò a Caira nell’ambulatorio del medico condotto del tempo. Grande fu il suo stupore nel rivedere in quello studio il medico del campo di raccolta di Sluk: il dottore Dante Capaldi Gagliardi che, da Acquafondata, era venuto ad esercitare la sua professione proprio a Caira.
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