Studi Cassinati, anno 2005, n. 3
Proponiamo la rilettura di una importante testimonianza dell’ing. Angelo Pantoni O.S.B. dei ritrovamenti di epoca preromana emersi durante lo sgombero delle macerie dell’abbazia di Montecassino, distrutta, come è noto, dai bombardamenti angloamericani nel 1944. L’Autore ha contribuito in maniera determinante alla ricostruzione del monastero, grazie alla propria perizia e ai disegni in scala di tutto il complesso monastico che aveva provvidenzialmente elaborato subito prima della guerra1.
Da: “Ecclesia” Rivista Illustrata, tipografia Poliglotta Vaticana, Anno IX, n. 12, dicembre 1949 – pagg. 629-631.
Recentissime da Montecassino di Angelo Pantoni
Prima di dare un cenno sulle ultime scoperte emerse dai lavori intrapresi per la ricostruzione di Montecassino, è opportuno premettere qualche notizia, sia pure schematica, sul sistema fortificato dell’arce cassinese, complesso molto vasto, recingente la cima del monte e l’area a questo contigua dalla parte sud-occidentale (detta oggi piano di S. Agata), la cui zona puó paragonarsi a due parallelepipedi uniti da un tratto piuttosto angusto estendentesi lungo l’asse del viale d’accesso al monastero. Due muraglioni di tipo più rozzo, detto comunemente ciclopico, scendevano dall’acropoli spingendosi fin quasi al piano e comprendendo nel loro àmbito l’area di “Casinum”; ma se siano anteriori o no alla cinta superiore, è questione ancora “sub iudice”, poiché la tecnica d’esecuzione non è sufficiente a stabilire una più remota antichità.
A pochi metri dalla distrutta cappella di S. Agata si entrava nell’acropoli per una porta, demolita nel corso del secolo xviii, che nei processionali monastici del Medioevo era chiamata “vetus” o “vetere”. Il monastero, denominato “in arce” giusta l’espressione di antichi documenti, non occupò mai tutta l’area delimitata dalla cinta poligonale, ma solo la parte superiore, più prossima alla cima, dove in precedenza eran sorti gli edifici del culto pagano. L’arce probabilmente non fu mai un centro abitato vero e proprio, mantenendo piuttosto il carattere di fortezza-santuario. Sappiamo dai Dialogi di s. Gregorio Magno che all’epoca dell’arrivo di s. Benedetto a Montecassino, circa l’anno 529, esisteva un tempio di Apollo nel quale fu stabilito l’”oratorium” del nascente monastero, dedicato a s. Martino e reso venerando dal transito del Patriarca (sulla dedica originaria di questo tempio si puó discutere: una nota iscrizione locale parla di un tempio a Giove, ricordato pure nel secolo VI dal poeta Marco); e sulla cima del monte, a breve distanza dal tempio, un’ara, anch’essa dedicata ad Apollo, ove il Santo stabilì l’oratorio del Battista, che divenne il luogo della sua sepoltura e in sèguito la celeberrima basilica. Tra questi due edifici, nel raggio di appena cento metri, si svolsero tutte le agitate vicende della storia di Montecassino: guerre, invasioni, saccheggi, distruzioni, con intervalli di tranquillità operosa, durante i quali i monaci riedificavano e reintegravano pazientemente quanto il turbine aveva sconvolto.
I recentissimi lavori di ricostruzione del quartiere detto della Torretta, ove aleggiano i ricordi del primitivo monastero, nell’area compresa tra l’ingresso e il chiostro della Foresteria, hanno rimesso in luce estesi tratti di un muraglione noto in misura molto limitata per i lavori eseguiti nel secolo scorso, ma rimasto quasi del tutto immerso nel terreno, dominato o intersecato da altri muri. Con l’isolamento di questa muraglia, che i bombardamenti neppure hanno scaffito, si è aggiunto un dato nuovo alla topografia locale, in un settore ove per mancanza di precisi riferimenti, potevano formularsi le ipotesi più diverse. Siamo infatti di fronte ad un bastione più interno, stabilito nell’immediata prossimità della cima del monte, quasi a suprema difesa. Il muraglione, nel tratto finora messo in luce, ha uno sviluppo di una settantina di metri, il più esteso essendo quello est-ovest lungo circa quaranta metri, e con i due lati minori contigui accenna a delimitare una vasta area quasi quadrata, dove era forse il tempio e la successiva chiesa di S. Martino, della quale dopo il terremoto del 1349 si è perduta la precisa ubicazione.
Questo muraglione si differenzia, quanto a tecnica, dagli altri tratti finora noti: mentre infatti la muraglia che scende fin presso al piano è del tipo “ciclopico”, costituita cioè da macigni privi o quasi di lavorazione, sebbene disposti in un certo ordine; e quella della cinta superiore, su cui si affaccia ora il monastero provvisorio di S. Giuseppe, è di una bellissima tecnica poligonale a facce piane, il muraglione – pur esso poligonale – presenta sulla fronte esterna un bugnato pronunziatissimo. I grandi macigni sono uniti l’uno all’altro dal sapiente taglio delle facce, senza alcuna cementazione; lo spessore è variabile, da m. 2 a m. 1,50; e non esiste un paramento verso l’interno, sicché è evidentissima la funzione di terrapieno, almeno nella parte sopravvissuta. Mentre ora nei punti più alti si arriva a m. 3,50, un tempo, specie prima dei lavori cinquecenteschi, l’altezza doveva esser notevolmente maggiore e resa più imponente dalle costruzioni sacre dell’arce.
Durante gl’imponenti lavori di sterro eseguiti per gettare le fondamenta della nuova sacrestia della Basilica, quindi sul lato settentrionale del monastero, è venuto in luce un altro tratto di muraglione che documenta il percorso della cinta dell’acropoli da questa parte, ed è indubbia continuazione del muro che costeggia la rotabile per Cassino a occidente del cenobio. Sul tratto finora scoperto, che ha un’altezza massima di poco superiore a m. 3,50, probabilmente intorno al V secolo a. C. come si desume dai muri di tecnica più raffinata che si approssima all’isodomia (sebbene, come si è accennato, non sia questo un criterio d’indiscussa validità), fu costruito il muro di cinta del monastero. Le mura sono certo opera di popolazioni locali: sebbene sia difficile attribuirle ai Sanniti, ai Volsci o agli Etruschi, risalgono in ogni caso alle scaturigini della storia d’Italia.
Un contributo sostanziale alla conoscenza dell’acropoli, e quindi almeno indirettamente, alla fase delle origini del cenobio cassinese, è offerto dal materiale frammentario, non abbonante ma tuttavia bastevole a fissare fin d’ora alcuni dati di enorme importanza. Nel già ricordato scavo per la sacrestia è stato ricuperato un grosso pezzo di cornicione in pietra che appartenne di certo a un edificio dell’arce (tutto il monte infatti è costituito da un calcare adattissimo per ogni genere di lavori edilizi, sicché non vi fu mai bisogno di far salire pietre dal piano, al contrario dei marmi fatti venire da Roma al tempo dell’abate Desiderio, per non parlare di quelli tratti dalle rovine di “Casinum”), e un altro pezzo di cornice anch’esso in pietra, ma di tipo un po’ diverso perché privo di dentelli, fu trovato nelle fondamenta del muro di facciata della chiesa, e documenta a sua volta la trabeazione di un altro grande edificio. Abbiamo dunque quanto basta per poter affermare la presenza in epoca romana di costruzioni di un certo rilievo sulla cima di Montecassino, il che conferma la notizia offerta dall’epigrafe murata nel basamento della torre abbaziale, che parla di un tempio dedicato a Giove con annessi edifici e portico: “Aedem Iovis a solo et porticum cum aedificiis”. Troppi secoli sono passati, e troppi lavori sono stati eseguiti per i quali occorrevano ingenti quantità di, pietrame. Quindi non desta meraviglia se le membrature di questo complesso abbiano servito ripetutamente ad altre costruzioni, dopo una lavorazione che ne obliterò in varia misura l’aspetto originario.
Altri ricuperi provenienti dall’area a settentrione della chiesa documentano una fase più antica dello sviluppo della civiltà sul monte sacro a Benedetto: un grande laterizio decorato ad ovuli; altri pezzi con motivi ornamentali fittili; e proprio sotto il Santuario, in un conglomerato di muratura2, un pezzo di piede in terracotta di evidente modellatura etrusco-romana, come termine generico di riferimento. Esso più che un “ex-voto” mostra di essere un frammento di statua di grandezza non molto inferiore al vero, e insieme con gli altri frammenti fittili fa supporre l’esistenza di edifici contemporanei alle mura poligonali. Così, a mano a mano che il lavoro prosegue, le tradizioni multisecolari affidate sovente al fraseggiare generico di vecchie cronache, vengono enucleate e precisate; il passato comincia a presentarsi con contorni meno incerti; e si puó intravedere con lineamenti meno vaghi l’ambiente ove s. Benedetto pose la sua definitiva dimora. Ambiente unico nel suo genere, di una grandiosità difficilmente superabile: la duplice cinta dell’arce, assai più alta e completa di quanto oggi si veda; almeno un tempio con un portico e altri edifici nei quali, con opportuni adattamenti, si rifugiarono i monaci; e un’ara, dove oggi riposano da quattordici secoli le spoglie del Patriarca, sulla cima battuta dai venti e spesso percossa dai fulmini3.
È augurabile che i successivi lavori rimettano in luce altri documenti e forniscano una traccia sicura per la conoscenza del cenobio nella prima fase della sua esistenza, quando le sue propaggini non si erano ancora dilatate per l’Europa a infonderle con la fede di Cristo nuovo vigore di vita e civiltà.
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