La valle del Garigliano nella tormenta

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Studi Cassinati, anno 2004, n. 3

di Antonio Erratico

S.Ambrogio sul Garigliano: piazza Luigi Cadorna ed il monumento ai caduti

Fino a qualche anno fa la stragrande maggioranza degli italiani, non esclusi quelli di media cultura, ignoravano forse, se non l’esistenza, almeno l’importanza, del fiume Garigliano.
Posto quasi ai confini dell’Italia Meridionale, questo fiume segnò nei secoli il limite di diverse organizzazioni politiche le cui tracce sono ancor oggi visibili nei costumi e nella lingua dei popoli.
La solerzia dei Monaci di Montecassino, alla terra uniti dal categorico imperativo del loro Maestro, ora et labora, evitò il completo abbandono della regione, portando di nuovo il soffio della vita là dove era stata seminata la morte, e riedificando opere di bene là ove tutto aveva travolto lo spirito del male.
Specie dopo il passaggio dei Longobardi e dei Saraceni, il Garigliano ed i Benedettini ebbero molto da lavorare, l’uno a smorzare le fiamme dell’odio feroce che tutto inceneriva, gli altri a rompere terre incolte ed a falciare i rovi spuntati nell’ubertosa valle. E nel fervore dell’opera risanatrice nacquero i nuovi nuclei di coloni a cui i Monaci dettero una Cappella ed un Santo Protettore, sotto lo sguardo del quale il lavoro potesse essere elevato nell’atmosfera di soprannaturalità inaugurata dal Cristo.
Crebbero e raggiunsero vita rigogliosa le cittadine di S. Ambrogio, S. Angelo, S. Apollinare, S. Giorgio, S. Andrea, Rocca d’Evandro (Rocca di Vandra), ed altri raggruppamenti minori.
Il rabbioso settembre 1943 trovò la valle ricca di una vitalità tutta particolare.
I nuovi Vandali, che da Cassino si irraggiarono nella regione, dinanzi all’opulenza delle bianche case coloniche fiorenti liete tra il verde dei campi, sentirono aumentare i loro appetiti e come lupi affamati, in tutto simili ai loro progenitori, si gettarono sulla preda, affondandovi gli artigli con voluttuosa soddisfazione di trionfo.
Cominciarono giornate terribili di panico e di violenza. Regnava tracotante e inesorabile la legge della forza bruta che assoggettava, rapiva, distruggeva. Si aveva l’impressione di vivere nei primi secoli del Medio Evo, costretti a scegliere tra il letale ferro nemico e la soggezione al barbaro imperante.
Molti preferirono il primo ed irrorarono la terra di sangue eroico; i più – in apparenza – scelsero la seconda ma solo perché vollero avere la consolazione di cantare il giorno della rivincita e di tramandare ai posteri gli orrori dei nostri tempi a perpetua ignominia del popolo e della dottrina che li produsse.
Tra le vessazione, i furti, le spogliazioni, passò cupo il mese di settembre. I giovani d’ambo i sessi avevano abbandonato le case, i parenti, gli averi e si erano rifugiati nelle vicine montagne per sfuggire al lavoro forzato, alla deportazione. Gli anziani ed i malati erano rimasti nei paesi a guardia dei focolari sacri alla memoria dei loro antenati.
Ai principi d’ottobre, altissime colonne di fumo, accompagnate a detonazioni impressionanti, annunziavano la fine della grande centrale idroelettrica, degli stabilimenti termominerali di Suio, dei ponti sul fiume; e agli abitanti veniva ordinato lo sfollamento: ridestavansi dall’alveo del Garigliano, sanguigne, minacciose, implacabili, le furie della guerra agitando le faci paurose del terrore e della morte.
Piuttosto che eseguire gli ordini del tedesco, anche gli anziani ed i malati preferirono disperdersi nelle campagne, nascondersi nelle caverne dei monti o nei sotterranei delle case, in attesa della prossima fine di tanti dolori: i primi proiettili caduti nelle vicinanze del fiume ne rinsaldarono il coraggio e ne ravvivarono le speranze.
Ma il monte Camino opponeva tenace resistenza agli Alleati, le rive del fiume venivano minate, e i colli e i monti Aurunci muniti di numerosa artiglieria: nasceva la linea Gustav.
Il Garigliano chiedeva largo sacrificio di sangue. E sangue gli fu dato durante otto lunghissimi mesi: sangue purissimo di eroici patrioti, che guadando il fiume per compiere opera preziosa per gli Alleati, incoglievano nelle mine; sangue innocente di donne e di fanciulli indotti alla fuga dallo spavento e dalla fame; sangue forte e generoso dei soldati impazienti di rompere la catena di acqua, di ferro e di fuoco per portare innanzi i benefici della libertà.
In novembre le truppe della Vª Armata già occupavano la riva sinistra del fiume e vomitavano sulla riva opposta ingenti quantitativi di esplosivi.
Chi potrà enumerare le angosce e le sofferenze, i martiri di centinaia di migliaia di esseri umani i quali, da Cassino al Tirreno, dopo aver tutto perduto, vedevano sparire nei vortici della guerra anche l’ultima ricchezza avanzata: la casa, simbolo vivente dell’amore, della fede, del lavoro di innumerevoli generazioni?
Le ore più ferali di tutta l’immane tragedia del Garigliano le ha vissute S. Ambrogio.
Adagiato su una ridente collina dominante molti chilometri del sinuoso corso del fiume, costituiva la chiave della difesa nemica su quel versante. Munito d’ogni sorta di artiglierie, attirò subito le attenzioni dell’avversario il quale ne dispose il bombardamento aereo effettuato ripetutamente tra il novembre ed il dicembre. Nulla fu risparmiato del prosperoso paese.
Intrepido fu il comportamento degli Ambrosiani; magnifica la figura del giovane Parroco [Rocco Carelli da Rocca d’Evandro, n.d.r.], sempre presente e sempre sereno anche in mezzo al polverone delle case abbattute, per aiutare gli agonizzanti, curare i feriti, seppellire i morti, raccogliere le membra disperse, trarre a salvamento i vivi.
La Croce in mano, la Teca nel petto, passava, quasi Angelo del Signore tra le rovine fumanti, questo Padre e Pastore, che dopo avere accompagnato il suo gregge al porto sicuro della tranquillità, doveva volarsene al cielo, forse consunto dal lungo, estenuante sforzo, a ricevere, senza dilazioni, il premio delle sue buone opere.
La stessa ferocia del nemico spietato nell’uccidere il contadino che durante la tregua delle artiglierie si accaniva a coltivare un pezzetto di terra, s’inchinava riverente dinanzi all’Apostolo chiamandolo coll’appellativo di “Pastor Buono”.
A pochi chilometri di distanza, nei crepacci dei monti Aurunci, brulicavano folle di larve umane, miseri avanzi di una popolazione sana e forte accorsa lì a cercare rifugio.
Invano si sarebbe tentato di distinguere il pastore, il contadino o il professionista. Tutti avevano per nascondiglio un sasso, per letto la nuda terra, per tetto, spesse volte, il cielo pur nei rigori di un inverno eccezionale. E non di rado toccava alla madre comporre la salma del figlio, o ai fratelli non poter soccorrere alle malattie delle sorelle.
Quante morti, quanti dolori, quante iniquità! Il medico F. [Domenico Fargnoli, n.d.r.], la cui pietà arrivava sovente ad alleviare le torture del male, venne barbaramente ucciso e gettato in un pozzo.
Un solo spiraglio di luce, che si irradiava vigoroso sull’intiera sfortunata Polonia, splendette in sì fitta e tenebrosa caligine: reparti di militari polacchi operanti a servizio dei tedeschi aprirono a più riprese, tra la fine del febbraio ed il principio del marzo 1944, i passaggi e colonne interminabili di civili poterono gettarsi tra gli Alleati.
Il comandante benigno che permise ciò venne fucilato.
La notte dell’undici maggio si ebbe un poderoso crepitìo di artiglierie incrociantisi da tutte le parti, dalle alture di Sessa Aurunca ai colli prospicienti Cassino.
Per diversi giorni le gole e le valli ripeterono ininterrotto il motivo.
La Linea Gustav fu spezzata: il 14 maggio il Garigliano veniva oltrepassato in tutta la sua lunghezza: Montecassino cadeva il 18 maggio.
Nella fuga precipitosa il nemico non ebbe neppure il tempo di far saltare tutti i ponti ed abbandonò molto materiale bellico.
Passarono fulminei gli Alleati alla rincorsa del nemico sconfitto e nel brevissimo giro di pochi giorni si perdette a distanza il boato del cannone.
Le furie della guerra erano placate; il Garigliano poteva riprendere solenne, indisturbato, la marcia verso l’ignoto, trascinando con sé i relitti di un tempo che fu e predicando, nel suo cammino, il continuo incessante rinnovarsi della vita e della civiltà nei solchi immutabili segnati dal Creatore.
Miseri, stanchi, abbattuti, laceri nelle membra e nello spirito, tornarono i buoni cittadini superstiti a piangere, ormai indisturbati, la rovina delle loro case e dei loro campi.
Una sola fiaccola portavano ancora nell’anima sbattuta: la fede in Dio; una sola forza era rimasta nel cuore angustiato: l’amore alla terra, al lavoro.
Il sentiero che essi debbono battere è erto, avvolto in nebbia fittissima e disseminato di triboli acutissimi; ma con quella fiaccola che splende e con quella forza che rincuora il cammino è sicuro.
I vigneti bruciati, i campi minati, le case divelte, se possono chiedere un singhiozzo alla gola, una lacrima agli occhi o un lamento alla bocca, non possono imporre un arresto alla vita quando essa è spinta dalle ali robuste della fede e del lavoro.

 

 

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