Studi Cassinati, anno 2003, n. 4
di Giovanni D’Orefice
Il mondo dei Sanniti, scomparso dopo l’occupazione dei Romani, è tornato a riemergere per l’interesse degli archeologi che si è ultimamente incentrato sulla zona di San Biagio Saracinisco, ed in particolare sulle pendici del Monte Santa Croce (Mainarde laziali) e del monte Costa Sciarichetta all’inizio della vallata in cui nasce il fiume Rapido.
San Biagio Saracinisco doveva, al tempo dei Sanniti, essere uno dei centri strategici per il controllo del passaggio che dal Molise metteva in comunicazione con la Valle di Comino.
I primi rinvenimenti di materiale funerario si ebbero nei primi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale, a seguito di lavori di bonifica del terreno dagli ordigni bellici. Nel 1949 furono recuperati, ai piedi del monte Santa Croce, dalla Soprintendenza alle Antichità, i resti di tre sepolture con corredi databili al IV-III sec. a.C. I reperti, per lo più armi, sono esposti nel museo archeologico di Atina, mentre un artistico cinturone in lamina di bronzo a fascia rettangolare, con ganci inchiodati a corpo di cicala, è attualmente conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Cassino.
L’attività di tutela della Soprintendenza soltanto di recente (1997) ha potuto riavviare un programma di ricognizione nella vallata, ed ha permesso di conoscere l’esatta localizzazione della necropoli. All’indagine territoriale, sul finire del 1999, ha fatto seguito una prima se pur limitata campagna di scavi sistematici.
Nel corso dell’estate si è svolta la seconda campagna di scavo condotta ed eseguita in équipe fra la Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, l’Università di Roma la Sapienza, l’Istituto Antropologico L. Pigorini di Roma, l’Ente Parco Nazionale d’Abruzzo con la collaborazione di studenti volontari della Provincia di Frosinone e di alcuni operai messi a disposizione dal comune di San Biagio. Tale intervento, coordinato dal dott. Emanuele Nicosia della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio, si è avvalso dell’assistenza archeologica di Dante Sacco e Simon Luca Trigona.
Lo scavo, che ha interessato una fascia di terreno di circa 200 mq, ha restituito, alla fine della campagna, una quarantina di sepolture databili tra il VI e V sec. a.C.; di queste, oltre la metà, sono risultate distrutte o gravemente manomesse dai clandestini.
L’intervento mirava ad acquisire nuovi elementi relativi alla fase di transizione fra le culture dell’età del bronzo e la prima età del ferro e soprattutto in merito al processo di romanizzazione del comprensorio; inoltre si cercavano utili indizi sull’organizzazione sociale dell’insediamento sannita.
Le tombe riportate alla luce erano ricoperte, nella maggior parte, da uno strato di humus di variabile profondità, frammisto a pietrisco o a massi posti a copertura della fossa di deposizione.
Da una preliminare analisi antropologica, in base alla peculiarità dei corredi formati da anforette e armi in ferro (lance e giavellotti), si comprende che questo settore della necropoli era composto in maggior numero da sepolture maschili.
L’indagine dello scavo ha inoltre permesso di riconoscere vari elementi del rito dell’inumazione: al momento della deposizione il defunto veniva a volte coperto da un sudario o posto in una cassa lignea; seguiva il rito di rompere un’anfora i cui frammenti venivano lasciati cadere nel terreno al momento della sepoltura.
Il corredo vascolare, composto di norma da pochi pezzi collocati presso il capo, lungo i fianchi o ai piedi del defunto, è costituito prevalentemente da ceramica di impasto di tipo grossolano, prodotta localmente e destinata all’uso domestico.
Il repertorio formale comprende olle globulari o di tipo stamnoide, ollette ovoidi con presette a lingua talora con cordone digitalato o steccato impostato al di sotto dell’orlo, boccali di varia foggia, teglie e tegami, questi ultimi ben rappresentati ad Alfedena.
Spicca tra la ceramica di impasto più fine, a superficie bruno-scura o nerastra ben lucidata, la caratteristica anfora con ventre scanalato ed anse gemine o bifide del c.d. tipo Alfedena.
La rara ceramica di importazione rinvenuta è costituita da bucchero per lo più del tipo pesante e da vasi in argilla depurata acroma o decorata a fasce.
Il bucchero, attribuibile con ogni probabilità a produzioni etrusco-campane, pervenuto a S. Biagio Saracinisco attraverso la via d’acqua Rio Chiaro-Volturno, è presente con tre oinochoai a ventre globulare o ovoidale, un kantharos su basso piede a tromba e una scodella carenata. Tra la ceramica in argilla depurata si segnalano una oinochoe a bocca trilobata, una tazza-kylix e due coppette, tutte decorate con fascette e linee ondulate di colore rosso-bruno seguite da tre brocche apode con becco sinuoso obliquo, queste ultime praticamente identiche a quelle provenienti dalle tombe volsche di Frosinone e Satricum.
Compaiono, tra gli ornamenti, oltre a due anelli digitali in verga semplice di bronzo, cinque fibule in ferro di cui tre con arco rettangolare a bozze e due con arco semplice e staffa desinente a riccio, tipi tutti ben rappresentati nelle tombe di fine VI-V sec. a.C. della vicina Alfedena.
Scambi o rapporti con l’area medioadriatica, passando verosimilmente per Alfedena, sono testimoniati da alcuni elementi in ambra e pasta vitrea e da una fibula in bronzo tipo Certosa provenienti dal corredo relativamente ricco di una giovanissima inumata, probabilmente di alto rango sociale. Piuttosto numerose le armi, tutte in ferro e di tipo offensivo, costituite da punte di lancia e cuspidi di giavellotto, per lo più del tipo corto.
Lo scavo ha consentito di raccogliere ulteriori elementi che documentano una società chiusa e guerriera caratterizzata da un’economia basata sulla pastorizia, su un’agricoltura di sussistenza e, verosimilmente, sullo sfruttamento e il controllo della vie di comunicazione.
L’esperienza di scavo è rientrata in un ampio programma di recupero dei siti territoriali della alta Valle di Comino ed ha offerto una preziosa occasione ai giovani di avvicinarsi in modo diretto al mondo dell’archeologia e conoscerne temi e argomenti di grande fascino.
Il sito archeologico, di notevole interesse, potrebbe diventare un centro di ricerca con annesso un laboratorio di restauro di reperti al fine di raccogliere e conservare in modo sistematico un così ricco patrimonio e, nello stesso tempo, impedire l’ulteriore saccheggio di quanto ancora è conservato sotto terra.
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Per la redazione di questo articolo si ringraziano l’archeologo Emanuele Nicosia della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Lazio e i giovani studiosi Dante Sacco e Simon Luca Trigona che hanno fornito le informazioni e i dati riportati.
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