La cappella del casale di Palombara in Sant’Elia Fiumerapido

Studi Cassinati, anno 2004, n. 1/2

di Giovanni Petrucci

La cappella di Santa Maria di Palombara sorge a m. 147 s. l. m., lungo la strada per Valvori, nell’estrema propaggine sud dell’altura di Croce, una contrada di S. Elia Fiumerapido; in altri termini era ed è alle spalle della Cartera, e a duecento metri ad est della Chiesa più importante di Santa Maria Maggiore, cui era unita dalla comune dipendenza dal monastero di S. Angelo di Valleluce. È su una piccola spianata di una cresta che si innalza ad un paio di metri dal livello stradale e scoscende sul retro dell’abside a precipizio nella valle del Rapido. Tale spianata, che si slarga di poco a destra della cappella, si allunga restringendosi per non oltre una quindicina di metri verso sud in una forma triangolare; qui si rilevano i ruderi di alcune casupole, che, a detta di persone pratiche del luogo, erano ancora abitate nell’immediato dopoguerra1.
Un tempo la zona era molto accogliente, perché il caseggiato si presentava quasi nascosto nel verde della campagna, tra frondosi alberi e, fino ad una cinquantina di anni fa, era molto più popolata di adesso. Di sicuro, considerata l’amenità del luogo e tenendo conto che si trovava al centro di due comunità religiose, ad est la Chiesa dell’Annunziata e ad ovest la Chiesa di Santa Maria Maggiore, essa favoriva il raccoglimento interiore ed il sorgere di sensi di alta spiritualità.
Nel testamento di Leonardo Infante del 13 giugno 1250 tale cappella di Palombara non è menzionata2; essa, però, sicuramente era esistente nel 1379 ed era, come riportato in nota, di patronato del nobile Gentile da Gallinaro; inoltre era elencata nell’inventario del Monastero stilato il 2 gennaio 1411 dal notaio Antonio Nigro da S. Elia fra quelle dipendenti dalla Chiesa di S. Angelo di Valleluce: “Plures huic cœnobio ecclesiæ parebant:… cappella S. Mariæ sita, ubi dicitur Palommaria”.
Circa l’anno della sua costruzione deduciamo quindi che essa, stando ai documenti, è certamente posteriore a quella di Santa Maria Maggiore ed anteriore a questi due anni citati del 1379 e 1411.
Riteniamo, però, che probabilmente era stata edificata alcuni secoli prima proprio per volere dei monaci di Santa Maria Maggiore per servire la popolazione del caseggiato e che nei primi tempi certamente le sacre funzioni erano officiate da loro medesimi, in obbedienza ai precetti della Regola, volti a diffondere il Cristianesimo in tutti gli angoli della Terra di S. Benedetto.
Era una delle tante chiese rurali di cui parla il Pantoni3, con caratteristiche, secondo noi, tipiche di una cappella di campagna; ma una campagna con notevoli insediamenti umani all’intorno; infatti, come prima si diceva, vi sono alcune modeste abitazioni nelle immediate vicinanze verso sud, che occupano tutto il limitato spazio pianeggiante e altre regolari nel prosieguo del costone per oltre un centinaio di metri.
Gli anziani del luogo riferiscono di aver sentito raccontare che dalle cantine di una casa di fronte partiva una galleria che comunicava con la valle opposta del Rapido4. È interessantissima la notizia riportata dal Lanni: questi, trattando degli impianti industriali, accenna al fatto che nel 1370 a Palombara sorgeva una delle sei gualchiere del paese5.
E a questo proposito pensiamo che l’appellativo di Palombara voglia denominare proprio un caseggiato, o, più chiaramente, una sorta di villaggio extra moenia, come quelche altro di S. Elia: a conferma di questa nostra congettura citiamo due documenti: nel primo, del 30 giugno 1232 si accenna ad una località chiamata “palabara” che ci fa pensare a quella in questione: “… Magister Bonus de S. Germano praesenti scripto confecto in S. Elia… declarat habuisse modicam terram vacuam cum uno pede olive in territorio Castri Sancti Helye loco qui vocatur palabara…”6. Del resto, anche nell’inventario citato del 1411, la cappella è chiamata di Santa Maria della località detta di Palommara: “ubi dicitur Palommaria”. Nel secondo, Angelo De Tummulillis, nel rievocare le scorrerie degli uomini di S. Germano del 12 luglio 1459 nei territori di Sancto Helia, parla chiaramente di un casale Palombare7. Il Lanni, d’altra parte, fa notare che la “coesistenza di quattro Chiese, Fiume Cappella, S. Maria di Palumbara, S. Maria Maggiore e SS. Annunziata, e queste due ultime Parrocchiali, in tanta vicinanza, dimostra che in quel sito dovevano essere aggruppate molte case”8 e adombra l’ipotesi che alla base del costone di Croce, nei pressi della chiesa di Fiume Cappella, vi erano delle abitazioni, scomparse con l’erosione operata dal Rapido. Palombara quindi è il toponimo del luogo.
Per quanto riguarda la descrizione osserviamo che la chiesa è costituita da una semplice aula di m. 6,60 x 4,30, che l’abside è notevolmente aperta, m. 2,65, quasi due terzi dell’intera parete di fondo, dinanzi alla quale restano i ruderi in muratura di un altare; di fronte è la porta di entrata di m. 1 x 2,50 formata da due piedritti in asse verticale, terminanti alle estremità superiori ciascuno con una mensola, per ridurre la luce del traverso9; su di essa è una stretta finestra e altre quattro di cm 60 x 30 sono a m. 1,80 dal pavimento nelle pareti lunghe, due per ciascuna. All’interno dell’aula, a 22 cm. a lato destro di questa porta, all’interno del muro è un ripostiglio di cm. 45 x cm. 50, del tutto simile a quello della chiesa di S. Maria Maggiore; alcuni ricordano una piccola acquasantiera di pietra infissa al muro da questo lato, ormai scomparsa10. Non vi sono tracce della sagrestia; in fondo, a sinistra dall’altare, si apre un’altra porta di cm. 70 circa che non fa pensare ad una comunicazione con un altro locale, ma ad una semplice possibilità di uscita verso l’esterno. Le finestre sono molto piccole e certamente la chiesa era scarsamente illuminata.
Da precisare che le pareti laterali si continuavano ai lati della porta principale; i ruderi, messi a nudo dall’ins. Sabatino Di Cicco una decina di anni fa, non ci permettono di comprendere a cosa servissero.
Da secoli è chiusa al culto.
Ha sfidato le vicende belliche delle battaglie combattute nell’inverno 1943 – 44 e fortunatamente sono rimaste in piedi i muri perimetrali; ma sono insicuri per via delle radici di rilevante consistenza che spuntano numerose dalle crepe dei muri; manca della copertura e vi sono cresciuti alberi all’interno e in ogni dove; per questo motivo temiamo che sia destinata a crollare del tutto.
L’importanza della cappella risiede oggi tutta negli affreschi, o per essere più precisi, in quanto di loro resta ancora; infatti proprio per questi a Santa Maria di Palombara è dedicato tutto un capitolo del prestigioso volume della Orofino11: “La cappella, le cui origini si fanno risalire al sex. XII, era una dipendenza di del Monastero di Sant’Angelo di Valleluce (Bloch 1986, II, p. 723). Morto l’ultimo abate, nel 1379 divenne patronato del nobile Gentile da Gallinaro che aveva il diritto di eleggervi e nominare il rettore, per poi presentarlo all’abate pro tempore (Registrum I abbatis Petri de Tartaris, ff. 91 v, 163 v). In una visita pastorale del 1565, in cui risulta beneficio di Annibale «de Ascanio», è elencata insieme ad un gruppo di chiese definite rurali (Registrum VI visitationis, f. 76r)”.
Anche noi ci interessammo dell’argomento nel 199112 e riportiamo qui le due paginette: sarebbe opportuno recuperare quanto resta degli affreschi di tale cappella, probabilmente quattrocenteschi13.
Essi sono quasi tutti nel tamburo absidale: in base alla ripartizione degli spazi e alle inquadrature formate da fasce bianche, in parte ancora esistenti, si comprende che dovevano essere affrescate cinque immagini sacre; a partire da sinistra, della prima resta solo il mantello di un colore che tende al rosso, con ampie pieghe che si stringono e sembrano avvolgersi intorno alle gambe; quella di destra è delicatamente piegata e dal panneggio spunta il piede: la figura doveva essere splendida per concezione e tutta articolata e mossa.
La seconda è meglio conservata e rappresenta la Madonna col Bambino. Il viso è serafico, con la bocca atteggiata ad un sorriso appena percettibile e con gli occhi rivolti al Bambino ad esprimere il grande amore di Madre; ella lo sorregge delicatamente con la destra, mentre con la sinistra tiene il piede, quasi accarezzandolo: è lo stesso atteggiamento che riscontriamo nella Madonna col Bambino di Santa Maria Maggiore (11° affresco della parete sud). Predomina il giallo in una decorazione molto ricca, per qualche tratto sovrapposta ad altra, in quanto non asseconda le pieghe che si infittiscono numerose. Meravigliosa è l’incorniciatura nella mandorla, che sembra un arco gotico ben commisurato all’insieme, che a sua volta si staglia in un riquadro rettangolare a fasce bianche.
In quella bianca orizzontale superiore di tale riquadro si possono ancora leggere le lettere S … RIA … L MARA, che permettono di ricostruire la scritta completa: S. MARIA DI PALOMMARA.
L’affresco, sempre di scuola benedettina, ha perso le linee statiche e bizantineggianti di quelle prevalenti nella vicina S. Maria Maggiore e manifesta uno studio più accurato delle forme: lo stesso viso non è rigidamente frontale, ma leggermente piegato verso destra. Per questi motivi, secondo noi, meriterebbe un più attento esame da parte di esperti.
Delle altre figure restano solo delle macchie di colore; nel quarto pannello sembra di poter scorgere una veste rosa con ai lembi esterni tracce di un mantello verde.
Nell’angolo in basso dell’ultima figura di destra si può riconoscere un bambino inginocchiato che ha nella sinistra una brocca piena d’acqua.
Nella parte centrale, a partire dal pavimento, in un riquadro marrone e fondo azzurrognolo, era una figura: se ne scorge la veste ricca di pieghe finemente dipinte, con tecnica alquanto diversa da quella che si nota nella Madonna; si rileva poi che il marrone del riquadro è lo stesso della fascia che corre nella parte bassa della zoccolatura.
Da una lettera del 14 maggio 1806, cui accenna il Pantoni, sappiamo che in quegli anni furono eseguite opere di restauro e che nell’abside era raffigurata l’Ascensione di nostro Signore: forse quanto resta di tale disegno faceva parte della composizione. Di questo avviso è la Mathis14: “Le morbide e abbondanti pieghe [dello zoccolo] inquadrano al centro, entro una cornice, la metà inferiore di una figura con una lunga veste percorsa da sottili linee e lumeggiature che intorno al ginocchio si sviluppano in motivi circolari per poi concludersi nell’orlo mosso che arriva a coprire i piedi. Poiché da un documento del 1806 (Pantoni 1966/1, p. 163 e nota 22) si apprende che in quell’anno venne condotto un restauro dell’affresco absidale dove era rappresentata un’Ascensione «con indubbi segni di antichità», è assai probabile che il frammento di veste appartenga alla figura della Vergine la quale, nella tradizionale iconografia, assisteva tra gli apostoli al sacro evento”.
Nella parte bassa dell’abside, per un’altezza di circa sessanta cm., per tutta la semicurva, corre uno zoccolo a velario: sono raffigurati dei panneggi di colore giallo che partono da nodi posti alla sommità di esso e si distendono con eleganza verso il basso; ad una decina di cm. dal pavimento compare una fascia di riquadro di colore marrone; un’altra della stessa larghezza è nella parte superiore. Il che ci fa pensare che tale zoccolo era coevo a tutta la composizione e le figure erano poste più in alto per renderle meglio visibili nell’aula.
Da evidenziare poi, nella parete di fondo, a destra dell’abside, l’abbozzo di un Bambino, che innalza la destra verso l’alto come a benedire e sembra stringere al petto con la sinistra un libro. L’affresco, nel quale prevale il giallo ocra, ne copre un altro di diverso stile, di uno strato di intonaco sottostante; si noti a questo riguardo una mano sinistra di ottima fattura. La Mathis15 dà una descrizione diversa: “Sostengono [il Bambino] due grandi mani che affiorano dalla retrostante immagine della Vergine, di cui restano a mala pena le linee di contorno. Si tratta probabilmente di un ex voto dipinto nei secoli XIV – XV”.
Un fatto eccezionale ci è capitato di osservare in una recentissima visita fatta alla cappella: alla sinistra dell’abside, sotto uno strato di intonaco bianco, a m. 1,10 dal piano dell’abside, si nasconde probabilmente un affresco di limitata superficie: se ne scorgono brevi tratti di quanto ancora lo compongono.
È un dono che ci hanno riservato i secoli: auguriamoci che si scopra una bella figura!
Attualmente la cappella con nobile gesto è stata donata dalla famiglia Gabriele al Comune che ha provveduto ad affidare all’arch. Giuseppe Picano, il progetto di ristrutturazione.

Notizie riferite da Gino Alonzi.
2 Regesti Bernardi I Abbatis Casinensis fragmenta, Romæ, MDCCCLXXXX, p. 167, doc. n. 402.
3 Bollettino Diocesano di Montecassino, dal n. 1, XXI (gennaio – marzo 1966) al n. 1, XXII (gennaio – marzo 1967); nel n. 4, a. XXI (1966), a p. 163, il Pantoni ne fa una descrizione dettagliata: “Detta chiesa misura m. 6,40 in lunghezza, m. 4,32 in larghezza, l’abside è ampia m. 2,60. Addossato a quest’ultima è l’avanzo dell’altare in muratura, mentre ai lati del medesimo si notano tracce di panneggio dipinto. Più sopra nel tamburo absidale, ma piuttosto di lato, è una discreta pittura quattrocentesca della Madonna col Bambino. Si notano altre pitture di minor pregio. Le pitture originarie dell’abside sono scomparse. Da un documento del 1806 si viene a sapere che vi era rappresentata l’Ascensione di N. Signore, con indubbi segni di antichità (S. Elia – Cartella X. Lettera del 14 maggio 1806 al Vic. Gener. Di M. Cassino da parte di Anastasio Caccia, Vicario Foraneo. A quel tempo la cappella era malfamata e ricovero d’animali), e che a tale epoca vi si fece un restauro, compreso l’altare, per potervi far dire Messa il giorno medesimo dell’Ascensione. La cappella, nel 1379, era di patronato del nobile Gentile da Gallinaro, il quale sceglieva e presentava il cappellano all’abate di quel tempo (Registrum I Abb. Petri de Tartaris, ms. in archivio, fol. 91 v e 163 v.)”.
4 Testimonianza di Carlo Tomolillo e di altri.
5 M. Lanni, Sant’Elia sul Rapido, monografia, Napoli 1873, p. 110.
6 Regesti Bernardi I, cit., p. 82, documento n. 178. La formula “loco qui vocatrur palabara” corrisponde alle nostre di oggi “alloco addò se rice, alloco addò glie ricene”, e segue il nome della località.
7 Angelo De Tummulillis, Notabilia Temporum, Roma, 1890, cap. CVII, p. 91 / 92: “… Iacobus Conte et homines Sancti Germani XII eiusdem redeuntes cum multitudine mulierum et puerorum ac puellarum peiora malis cumulando ex alia parte dicti castri et casali Verdari per decliva montium usque ad casale Palombare similiter subciderunt arbores et olivas concremando illos et territorium eorundem ultra eorum posse per circuitum et ubique … ”.
8 M. Lanni, ibid., nota a p. 9: “Niun vestigio è rimasto di questa Chiesa [Fiume Cappella]. Era forse piantata in un suolo al livello del villaggio la Croce e della Parrocchia SS. Annunziata, il quale col decorrere del tempo roso dal fiume, che l’attraversava, si è avvallato, come è tradizione, scomparendo la chiesa colle case accoste la Parrocchia, di cui veggonsi ancora i ruderi nel declivio dell’erta montagna; non essendo verosimile, che fosse del tutto isolata. Anzi la coesistenza … ”.
9 La porta ripete le strutture della Chiesa di Santa Maria Maggiore, della Chiesa di S. Cataldo; ma l’accorgimento strutturale è comune nel tempo.
10 Testimonianza di Carlo Tomolillo e di altri.
11 Orofino Giulia, Affreschi in Val Comino e nel Cassinate, Università degli Studi di Cassino, 2000, pp. 155 – 158.
12 S. Elia Fiumerapido, Alcuni affreschi di scuola benedettina da recuperare in “Spazio Aperto” n. 11, novembre 1991, pp. 18-19. Le argomentazioni, mutatis mutandis, da questo punto in poi, sono riportate nel presente scritto.
13 Mathis Paola, Cappella di Santa Maria della Palombara, in G. Orofino, op. cit., p. 155: i santi dell’abside sono datati ai secoli XV – XVI.
4 Ibid., p. 156.
15 Ibid., pp. 155 – 158.

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