Studi Cassinati, anno 2002, n. 3/4
di Daria Frezza*
Nel corso del lavoro che sto conducendo sulle memorie della popolazione civile durante la II guerra mondiale nella zona di Cassino, nelle sue molteplici dimensioni di memorie pubbliche e di memorie private, il passo di Benjamin sopra citato mi è tornato più volte alla mente in tutta la sua pregnanza semantica.
Nelle interviste con coloro, donne e uomini, che 60 anni fa, durante la guerra, erano nel fiore degli anni o ancora adolescenti o addirittura bambini, il mio compito di intervistatrice-partecipe mi appare a volte come quello di chi aiuta a far riaffiorare attraverso l’occhio della telecamera di mio figlio Clemente “le macerie del passato” – per riprendere ancora da una famosa immagine di Benjamin1 – con una circolazione e un trasferimento di immagini e di memorie attraverso tre generazioni, ognuna con un proprio sguardo su quel passato che durante il racconto riprende forma sotto i nostri occhi “in tutti i suoi dettagli”2.
Al contrario di quanto si potrebbe a prima vista supporre, pensando alle possibili inibizioni di fronte ad un mezzo audiovisivo, la telecamera inquadra uno spazio ideale all’interno del quale si sviluppa la relazione tra chi vuole sapere e ascolta e colui o colei che narra, ricordando a volte non soltanto con le parole ma con le mani, con gli occhi, un passato spesso coltivato all’interno del proprio gruppo familiare o della propria comunità, ma altrimenti non condiviso in uno spazio pubblico.
Dalla molteplicità dei ricordi e delle narrazioni l’obiettivo è quello di costruire, come ho accennato all’inizio, un archivio di fonti orali.
Ma è necessario innanzitutto chiedersi perché vale la pena di ricostruire una memoria della popolazione civile a Cassino e nei paesi che si trovavano lungo la linea Gustav. A quale scopo andare a disseppellire memorie così lontane nel tempo e che disegnano un panorama così discordante dal paesaggio attuale segnato da costruzioni tutte moderne, dove le uniche tracce del passato, scampate alla distruzione della guerra, attraversando i secoli risalgono addirittura all’età classica o al periodo medievale? La prima risposta, la più semplice, è quella che nasce quasi spontaneamente di fronte ad un vuoto di memorie civili condivise pubblicamente, in un luogo, Cassino e il Cassinate, nel quale, invece, nel raggio di 30 chilometri sorgono ben 5 cimiteri di guerra di nazionalità e di religioni diverse all’interno dei quali sono sepolti soldati provenienti da tutti i continenti del mondo, inquadrati negli eserciti alleati come truppe coloniali.
Tra i civili alcuni dei testimoni hanno lasciato tracce della loro esperienza in diari, memorie non sempre pubblicate. Spesso sono i maestri elementari, secondo un’antica tradizione, coloro che nel territorio mantengono e custodiscono le memorie del luogo; spesso lamentano come il loro lavoro non trovi più ascolto nelle nuove generazioni che non sembrano più avere legami significativi con un passato che pure ha segnato profondamente la vita dei loro padri e delle loro madri. I più importanti esponenti della vita pubblica dei decenni successivi si sono formati in quell’esperienza di guerra. Tutti conservano ricordi privati, fotografie, ritagli di giornali con le notizie dei più importanti avvenimenti – primo fra tutti il bombardamento dell’Abbazia – occorsi nei lunghi mesi della battaglia. Nella memoria pubblica tuttavia l’aspetto ufficiale celebrativo ha teso a prevalere in modo più formale negli spazi cittadini rispetto ad una memoria presente con maggiore partecipazione collettiva nelle comunità più raccolte delle zone limitrofe situate lungo il fronte della linea Gustav. Molti dei testimoni, soprattutto in questi luoghi, trovano tuttavia per la prima volta l’occasione di narrare pubblicamente le proprie vicende. Seguendo il filo della memoria la narrazione si dispiega con un’immediatezza e una vivacità che rende facile lo scavalcare tutti gli anni che ci separano da quegli avvenimenti. I ricordi delle esperienze vissute durante la guerra sembrano non essere stati ossidati dalla patina del tempo evocati con una forte carica di drammaticità congiunta alla consapevolezza, che invece è dell’oggi, della impossibilità di trasmettere il vissuto di quella esperienza: una situazione estrema, protrattasi per la durata dei sei mesi della battaglia durante i quali la popolazione civile che rifiutò di allontanarsi vivendo assiepata in rifugi di fortuna come le case dei contadini dei paesi limitrofi o le grotte naturali lungo i fianchi delle montagne vicine. Privi di tutto, sottoposti continuamente ai bombardamenti alleati e ai cannoneggiamenti dei due eserciti che si fronteggiavano, si spostavano di notte in cerca di cibo e di rifugi più sicuri mentre di giorno gli uomini si nascondevano più in alto in anfratti e piccole caverne, mimetizzando la loro presenza.
Si tratta di fatti noti soprattutto a livello locale che non fanno parte tuttavia di un discorso pubblico nazionale.
Un archivio di memorie orali risponde ad una duplice funzione. In primo luogo rappresenta una testimonianza che resta a fondamento di una identità comune particolarmente significativa, in secondo luogo, come ogni archivio di storia orale, costituisce un insieme di fonti che in quanto tali devono essere criticamente interrogate ai fini di una più approfondita analisi storica.
A differenza delle vicende militari è mancata finora un’indagine di tali eventi alla luce del dibattito storico che negli ultimi anni si è sviluppato a livello internazionale, sul comportamento dell’esercito tedesco, su quella che è diventata nelle guerre del Novecento, in particolare nella II guerra mondiale, la “guerra ai civili”.
Memoria e storia
In un’epoca di grandi trasformazioni storiche come la nostra, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso il tema della memoria è stato oggetto di un’attenzione in tutti i campi del sapere, da quello scientifico a quello delle scienze umane. Uno degli elementi più interessanti sul quale si sono concentrate le riflessioni di tutti coloro che si occupano di questo affascinante problema riguarda la natura cangiante, in continuo mutamento ed evoluzione, della memoria in rapporto alla situazione nella quale questa memoria è risvegliata (la famosa “Madeleine” di Proust) e con la quale intrattiene un rapporto dinamico. In altri termini, il contesto nel quale ci troviamo, il momento particolare dal punto di vista della nostra personale biografia, ma poi più in generale dell’ambiente sociale nel quale siamo immersi, ci sollecita nell’attività del ricordare condizionandoci in modo più o meno consapevole su cosa ricordare e cosa dimenticare e sui modi con i quali consciamente o inconsciamente scegliamo e investiamo alcuni ricordi di una maggiore carica emotiva sottraendola ad altri.
Il riferimento d’obbligo nel campo delle scienze sociali è agli studi oramai classici di Maurice Halbwachs sulla funzione della memoria collettiva come importante elemento fondativo dell’identità di una comunità sociale, continuamente riformulato in base alle circostanze del presente3. La memoria dunque come strategia per la costruzione di significati personali e collettivi: l’esempio in questo senso più significativo riguarda la battaglia per la memoria rispetto all’Olocausto. Affrontare l’insieme di problemi e di questioni di ordine metodologico relativi al tema della memoria e al complesso rapporto tra quest’ultima e la storia richiederebbe un lavoro a parte. La storia orale, come ha osservato Sandro Portelli, uno degli studiosi più noti di questo settore, è soprattutto “un lavoro di relazioni: fra narratori e ricercatori, fra eventi del passato e narrazioni dialogiche del presente; è un lavoro faticoso e difficile perché chiede allo storico di lavorare sia sulla dimensione fattuale sia su quella narrativa, … sul passato e sul presente e soprattutto sullo spazio che intercorre fra i due”4. Si tratta dunque di fonti che necessitano di un attento e specifico vaglio critico. Vorrei però sottolineare come la crescente attenzione prestata alla storia orale abbia aperto nuove e interessanti prospettive di studio rispetto alla storia repubblicana degli ultimi cinquant’anni.
A partire dagli anni ‘90, sul piano internazionale con il crollo dei due blocchi contrapposti, è entrata in crisi quella che era stata una memoria bipolare europea segnata a Ovest dall’eredità di Norimberga e ad Est dall’ideologia di stato della guerra antinazista. Memorie diverse e contraddittorie rispetto a quelle ufficiali sono emerse in molti paesi, basti pensare al grande dibattito sviluppatosi in Germania sui caratteri del consenso al nazismo o al rinnovato interesse per le memorie della Francia di Vichy5. In Italia, in particolare a partire dal volume di Claudio Pavone sulla “Guerra Civile” e sulla “moralità della Resistenza”6, gli studi sulla storia italiana degli anni 1943-45 hanno rimesso in discussione i risultati di una narrazione storica oramai diventata ufficiale, mettendo in luce la complessità delle dimensioni presenti nelle scelte e nelle azioni di coloro che si trovavano ad affrontare in quegli anni non solo una guerra contro i tedeschi ma anche una guerra civile tra italiani e italiani. Le ricerche sulle stragi naziste iniziate in Toscana a partire dal Convegno Internazionale di Arezzo7 nel ‘94 hanno fatto riemergere memorie divise e discordanti con la retorica ufficiale da parte della popolazione civile, rimaste silenti, per anni ma non per questo meno vive all’interno delle varie comunità8.
A proposito di Via Rasella Sandro Portelli ha analizzato la costruzione di memorie contrastanti tra loro e distanti dai fatti accaduti. D’altra parte, per quanto concerne il comportamento dell’esercito tedesco in Italia, le ricerche degli storici tedeschi Klinkhammer e Schreiber e dell’italiano Collotti hanno messo in evidenza le strategie generali dei comandi militari dimostrando come la tesi delle rappresaglie in funzione antipartigiana debba essere rivista alla luce di un più vasto piano di applicazione per l’Italia delle stesse tattiche usate nell’Europa centro-orientale, in vista del controllo totale del territorio non solo sul piano militare ma rispetto alle popolazioni civili, con la requisizione della forza lavoro maschile per fini militari, la requisizione di viveri o vettovaglie per le esigenze di rifornimento dell’esercito, il diritto di vita e di morte sui civili9. Il recente convegno tenutosi nel 2002 a Bologna sulla “Guerra ai civili” ha fatto il punto delle ricerche che si stanno svolgendo in Italia su questi temi inquadrandole nel dibattito internazionale10. Per quanto riguarda il Sud, le ricerche di Gloria Chianese e Gabriella Gribaudi hanno messo in evidenza in primo luogo quanto la distanza esistente tra la memoria pubblica ufficiale legata alla resistenza nel centro-nord lasciasse in ombra gli eventi accaduti nel Mezzogiorno e hanno recuperato una memoria ancora viva in molte zone, in particolare in Campania, degli eccidi perpetrati dalle truppe tedesche e delle diverse strategie di “resistenza civile” con le quali la popolazione reagì all’occupazione dell’esercito nazista11. A differenza della durata relativamente breve dell’occupazione in Campania, la zona di Cassino si è caratterizzata per la permanenza protratta per un intero inverno delle truppe tedesche da un lato, di quelle alleate dall’altro. Questo elemento può aiutare a far luce sul comportamento durante la guerra di quella parte della popolazione civile (la maggior parte) che non era né antifascista né fascista, pur essendo stata formalmente inquadrata nelle organizzazioni politiche di massa del fascismo. Seguendo l’indicazione di Gabriella Gribaudi rispetto ad un allargamento del concetto di resistenza che includa non solo la resistenza armata ma anche una resistenza civile intesa in senso antropologico, è necessario porsi alcune domande che riguardano le diverse strategie per la sopravvivenza, le modalità messe in atto dalle donne per aiutare gli uomini a nascondersi, per contrattare con l’astuzia il cibo e nei casi di convivenze ravvicinate le forme di familiarità con il nemico. Un’altra importante questione riguarda i punti di riferimento istituzionali presenti nella zona. Quali erano le istituzioni civili ancora in piedi? In quale misura la presenza dell’Abbazia rappresentava un rifugio non solo dal punti di vista materiale? È viva e diffusa la memoria della mediazione dell’Abate Diamare nell’evitare una strage nella zona di Sant’Antonino ma nella vicina zona di Valle Rotonda un eccidio venne perpetrato dalle truppe tedesche nel dicembre ‘43. Tommaso Baris ha rilevato in uno studio di prossima pubblicazione come nel numero elevato di eccidi commesso dalle truppe tedesche in tutta la regione nella maggior parte del casi si trattasse di eccidi isolati. Ma allora come interpretare le considerazioni con le quali molti intervistati concludono la loro narrazione definendo il comportamento dei tedeschi “corretto”? La responsabilità di una strage o di eccidi isolati da parte dei soldati tedeschi viene sempre spostata sulle “regole della guerra” impersonali e addirittura attribuito a quei civili che tali regole non avevano rispettato. D’altra parte, sottoposti come erano al terrore dei bombardamenti e dei cannoneggiamenti dei due opposti fronti, quali erano gli alleati? La distruzione dell’Abbazia aveva tolto qualsiasi punto di riferimento anche dal punto di vista simbolico. La definizione dei tedeschi come “corretti” deriva solo dall’orrore delle violenze di massa subìte da parte delle truppe marocchine una volta giunto il momento della “liberazione”? È con un ragionamento “ex post” che si arriva a considerare i tedeschi come “corretti” in quanto rispettarono le donne? E ancora: quanto ha influito su questa memoria l’episodio della messa in salvo dell’archivio e dei tesori d’arte dell’Abbazia da parte dell’esercito tedesco?
A queste domande se ne potrebbero aggiungere molte altre relative alle stratificazioni delle memorie, all’accentuazione di aspetti diversi in base al sesso, alla condizione sociale, all’età nella quale tali memorie si sono impresse. Ma ulteriori considerazioni riguardano inoltre l’estrema settorialità delle memorie stesse paradossalmente in un contesto di memorie internazionali.
Una nuova serie di problemi s’impone a questo proposito: se a Cassino hanno combattuto le truppe di tutto il mondo, quali sono le memorie di guerra intrecciate con la coscienza storica di quei paesi? Non si tratta di una domanda retorica se pensiamo che in Australia esiste una giornata dedicata alla celebrazione della battaglia di Cassino e soprattutto a come le memorie dei reduci si intrecciano con quelle dei locali instaurando spesso rapporti di amicizia.
L’ultimo libro che è uscito in Francia ad opera di Jean Christophe Notin sulla campagna d’Italia dell’esercito francese12 dimostra come il problema della guerra ai civili debba ancora essere analizzato in tutta la sua drammaticità. Se infatti da un lato l’autore ricostruisce con grande dovizia di materiali d’archivio nei minimi dettagli il contributo dei valorosi soldati nordafricani inquadrati nell’esercito francese, mettendone in evidenza il peso determinante nella vittoria, d’altra parte egli ignora anche dal punto di vista archivistico la questione delle violenze di massa commesse dai marocchini come una questione priva di riscontri obiettivi. Come ricordava in una famosa osservazione lo storico Ernest Renan, per una nazione è importante sia ciò che si ricorda come ciò che si dimentica. Il ricordo delle vittorie dimenticate, come recita il titolo, implica anche dimenticare le responsabilità dei crimini commessi ai danni della popolazione civile italiana? D’altra parte quali rancori esistevano nei ranghi dell’esercito francese a proposito dell’invasione italiana in Francia nel 1940, come si accenna nei documenti contenuti nel fondo del Governo Militare Alleato? Si tratta di questioni tuttora aperte per le quali possono valere le osservazioni dello storico Leonardo Paggi: «La storia della memoria intende far valere il principio del riconoscimento. Riconoscimento, non riconciliazione, delle soggettività contrastanti che hanno definito con la loro opposizione il senso del processo storico»13.
Un’americana a Roccasecca
Tra i molti aspetti della memoria ai quali ho fatto riferimento, ve n’è uno in particolare che vorrei sottolineare: è quello al quale si riferisce lo storico Charles Maier quando parla di memoria come cultura della malinconia14: al centro dell’attenzione l’autore sottolinea l’esigenza psichica dell’essere al tempo stesso attore e spettatore, della ripetizione dell’esperienza attraverso la memoria come modo di sottrarla
all’oblio. «Il tempo della memoria è il crepuscolo e il sentimento è la malinconia» è quanto osserva lo scrittore Asor Rosa nel libro di memorie che ha pubblicato recentemente col titolo intitolato L’alba di un mondo nuovo15. L’autore fa di questo tema una vera e propria introduzione al libro: «Qualsiasi cosa si pensi del passato non si puó pensarla senza pensare al tempo stesso tutto ciò che c’è tra essa e noi… È questo che fa la differenza tra le diverse storie che raccontano la medesima cosa … In questo foro interiore non ci sono né condizionamenti né regole: … la catena delle associazioni puó scorrere all’infinito, abbandonare la strada maestra … e percorrere la miriade di sentieri marginali, tornare indietro sulla via che avevamo già percorso … e scoprire quanto sia diversa da come magari solo un momento prima la si era ricordata»16. Si tratta di prendere in esame una dimensione diversa da quelle sin qui analizzate. La definirei una dimensione della memoria di tipo contemplativo, che riguarda la sfera estetica della creazione artistica, letteraria, pittorica etc. Naturalmente non è questa la direzione verso la quale si indirizza il mio lavoro ma tale dimensione è inestricabilmente intrecciata all’altra che appare maggiormente legata ad un’indagine conoscitiva di tipo storico. Per quanto riguarda poi la memoria evocata nelle interviste orali, come in parte ho già detto, non si tratta di un’attività solitaria, ma di un incontro nel quale la carica emotiva è variamente graduata dai protagonisti che ne fanno parte. Così le memorie di guerra di chi narra evocano a loro volta i ricordi più lontani di chi ascolta. La molla della ricerca risiede dunque anche nel desiderio soggettivo di ricordare. Di qui questo breve ritratto di una delle figure della mia infanzia che in modo imprevisto ha segnato alcune scelte significative della mia vita.
Con un percorso della memoria che attraversa tre generazioni risalgo alla figura della mia nonna materna. Di lei si trova un breve profilo nelle memorie ufficiali del generale Frido von Senger, di lei conservo molti ricordi della mia prima infanzia a Roccasecca, alla sua memoria ho dedicato un libro, frutto di molti anni di lavoro, sullo sviluppo delle scienze sociali negli Stati Uniti nella prima metà del secolo scorso. Era stato mio padre molti anni fa a segnalarmi il ritratto della vecchia signora anglosassone nel libro di von Senger. Riporto qui il brano per intero, scritto a proposito della permanenza del generale a Roccasecca, nei primi mesi della battaglia di Cassino. La sua residenza era situata nella grande casa dei Cagiano de Azevedo, vicina alla nostra: “Nella casa accanto c’era una biblioteca per la verità non molto grande ma provvista di libri in ogni lingua del mondo, una rarità per l’Italia. Durante una delle mie occasionali passeggiate trovai la chiave dell’enigma: la vecchia signora dal viso asciutto con le grosse scarpe e il bastone da passeggio non poteva essere che di origine anglosassone. Nata in America, era stata educata in Germania e in Francia e aveva sposato un italiano”17.
Sophie Carpenter era nata a Philadelphia, unica figlia di genitori americani che come avveniva spesso negli ambienti colti e benestanti delle città della costa orientale, amavano viaggiare a lungo in Europa.
Sophie, educata, come ricorda Senger, in Germania e in Francia, aveva finito per stabilirsi in Italia. Contrariando i suoi genitori che avrebbero voluto per lei un matrimonio americano, aveva sposato a Firenze un pittore, Edoardo Gordigiani, assai noto nella cerchia fiorentina. A sua volta, avrebbe preferito per la figlia Isotta un marito che la riconducesse sul suolo americano; si era tuttavia molto affezionata al professore di diritto romano che insegnava all’Università di Pisa [Paolo Frezza, padre dell’autrice di questo testo: n.d.r.], che la figlia aveva deciso di sposare sorprendendo tutti visto che le sue amicizie ruotavano soprattutto nella cerchia di artisti e musicisti. Le origini meridionali del futuro sposo rimanevano all’epoca del matrimonio, nel ‘39, un po’ lontane, sullo sfondo.
A Roccasecca Sophie venne con la guerra, seguendo la figlia, nel ‘41, dopo essere stata per un primo periodo a Lucca al confino, come cittadina americana. Nel racconto di mio padre, lei si era fatta notare per una risposta data a bruciapelo ad un ufficiale tedesco che dopo la conquista di Parigi le si era avvicinato canticchiando “Parigi o cara noi lasceremo”. La risposta dura di lei era stata: “Ride bene chi ride l’ultimo”. In un clima divenuto troppo teso per lei, aveva pensato che sarebbe stato opportuno cambiare aria e perciò aveva seguito la figlia in Ciociaria. Mio padre aveva deciso infatti che il luogo più sicuro per la famiglia, mia madre, mia sorella ed io (una terza sorella sarebbe poi nata nel maggio ‘43) piuttosto che la Toscana era Roccasecca dove non ci sarebbero stati problemi di approvvigionamento.
Nella casa di Roccasecca Sophie aveva portato i suoi libri e il suo cane lupo Varga al quale era legatissima. Ad un’amica la cui famiglia era sfollata con noi a Monte Cairo, Mariella Tomassi, aveva confidato di voler affidare il cane in caso di morte perché, aggiungeva – nel ricordo di Mariella -, “di Isotta non mi posso fidare, con tutte quelle bambine…”. Per il cane, che una sera si era perso, aveva rischiato, contro il volere di tutti, una lunga ricerca notturna, infrangendo il coprifuoco, da sola, nelle campagne intorno al paese.
La sua biblioteca era composta soprattutto di classici della letteratura stampati nelle lingue originali, inglese, francese, tedesco: Goethe, Schiller, Molière, Shakespeare e poi gli americani, Whitman, Melville. Alcuni dei libri in inglese erano stati stampati in America, alla metà dell’Ottocento; nelle rilegature in cuoio erano incise le iniziali di sua madre.
I libri di Sophie fornivano uno sfondo internazionale più ampio alla ricca biblioteca di casa Frezza, costruita soprattutto dal nonno di mio padre, Luigi, il vero capostipite della famiglia.
Oltre ai classici della letteratura latina, italiana e francese vi figuravano opere di agricoltura, le grandi opere di storia dell’Ottocento come la Storia d’Italia di Cesare Cantù, Vincenzo Gioberti, ma anche la storia degli Arabi di Michele Amari.
Quando, dopo l’8 Settembre, la casa era stata requisita dal comando tedesco, noi eravamo tutti saliti a Monte Cairo dove la famiglia di mio padre possedeva un podere. Le mie sorelle ed io eravamo sistemate nei cesti di vimini dai due lati della soma di un asino, sedute sopra le masserizie che mia madre aveva deciso di portare con sé. La casa di Cairo era affollata di persone e di conoscenti che si erano rifugiati lassù, come era successo del resto in tutti i paesi circostanti dove si erano riversati gli abitanti di Cassino e delle località più esposte ai bombardamenti. Da Pontecorvo era venuto il veterinario Carrocci, da Cassino Niccolino Tomassi con la figlia Lina, mia coetanea, mentre Mariella, che ho ricordato a proposito della nonna, faceva la spola tra lassù e la sua casa di Roccasecca dove era rimasto suo padre. La descrizione di quei luoghi in quei giorni, l’ha fatta Sergio Giannitelli nel suo bel racconto “Lupi di Cairo”18.
Prima che fosse troppo tardi mio padre aveva deciso di dividere la biblioteca facendone due lotti che, con l’aiuto di Sergio, aveva nascosto in due luoghi separati: in un nascondiglio a colle S. Magno e in una botola vicino al Convento dei frati della vicina Chiesa di S. Francesco. Il caso, che soprattutto in queste circostanze gioca un ruolo importante, aveva voluto che fosse quest’ultimo lotto quello destinato a salvarsi, contrariamente alle previsioni.
Nella casa di Roccasecca erano rimaste ancora per poco, fin quando non avevano trovato una soluzione adeguata, due sorelle di mio padre, Beatrice e Maria, la più piccola gravemente malata. La prima doveva accudire la seconda, molto giovane, che aveva subìto ancora ragazzina un drammatico intervento di amputazione di una gamba per un tumore. Insieme alla gamba, Maria aveva perso la ragione anche a causa, si diceva, della massiccia dose di anestetici che le erano stati somministrati. Per questo motivo il comando tedesco aveva concesso alle due sorelle di restare ancora nella casa prima di trovare un altro alloggio, mentre Sophie aveva l’obbligo, in quanto americana, di recarsi tutte le mattine a depositare la firma in comune.
Le scarpe grosse e il bastone descritti da von Senger servivano alla vecchia signora nelle passeggiate lungo la strada bianca non asfaltata, che saliva a Colle S. Magno dove si era poi sistemata. Nei ricordi di mio padre il generale von Senger, pur conoscendo la nazionalità della sua interlocutrice, si intratteneva volentieri a conversare con lei che parlava correntemente il tedesco passeggiando avanti e indietro lungo la strada in salita. In montagna, quando era con noi a Monte Cairo, Sophie aveva fatto amicizia in particolare con un contadino che era tornato lassù dopo un lungo periodo di emigrazione negli Stati Uniti. Quando il cielo era solcato dagli aerei alleati sventolava un fazzoletto bianco senza paura di essere notata da militari tedeschi presenti nella zona. Appena finita la guerra, dopo il suo primo lungo viaggio negli Stati Uniti, venne a trovarci a Roccasecca. Quando riconobbi da lontano il suo profilo in cima alla strada lastricata di pietre che saliva dalla piazza – la scorciatoia delle scalette – le corsi incontro insieme a mia madre: al guinzaglio non aveva più la vecchia e paziente Varga, che non aveva retto il lungo viaggio in America, ma un cagnolino di taglia molto più piccola, dal carattere irascibile, che, in onore del generale americano Eisenhower, aveva chiamato Ike.
* Daria Frezza, dell’università di Siena, da oltre un anno è impegnata nella raccolta, anche filmata, di testimonianze di coloro che hanno vissuto il dramma della guerra nel Cassinate: tale lavoro confluirà in una pubblicazione che potrà finalmente colmare una grave lacuna nella memoria storica locale, che fino ad ora si è limitata, quasi esclusivamente, alla ricostruzione degli eventi bellici sul piano militare, salvo qualche recente ricerca di carattere generale.
1 Cfr. per questo il famoso passo sull’Angelus Novus in W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, cit., pp. 35-37.
2 Ivi, p. 83.
4 A. PORTELLI, “L’ordine è già stato eseguito”. Roma, le Fosse Ardeatine e la memoria, Donzelli, Roma 1999, p. 15.
5 M. BATTINI, Guerra ai civili. La politica di repressione della Wehrmacht in Toscana. Contributi e ricerche recenti, in: L. PAGGI (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze, 1999, pp. 221-244.
6 C. PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
7 “In Memory. Per una memoria europea dei crimini nazisti”, Convegno Internazionale, Arezzo, Giugno 1994.
8 G. CONTINI, La memoria divisa, Rizzoli, Milano 1997.
9 L. KLINKHAMMER, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili 1943-44, Donzelli, Roma 1997; G. SCHREIBER, La vendetta tedesca 1943-45. Le rappresaglie naziste in Italia, Mondadori, Milano 2001; E. COLLOTTI, Obiettivi e metodi della guerra nazista. Le responsabilità della Wehrmacht, in L. PAGGI (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Manifestolibri, Roma 1996.
10 “Guerra ai civili. Stragi, violenza e crimini di guerra in Italia e in Europa durante la II guerra mondiale. I fatti, le memorie, i processi”, Convegno Internazionale di Studi, Bologna, 19-22 giugno 2002; cfr. fra i molti volumi usciti recentemente su questi temi P. PEZZINO, Storie di guerra civile, Il Mulino, Bologna 2001.
11 G. CHIANESE, Il Mezzogiorno tra memoria e rimozione, in L. PAGGI (a cura di), Le memorie della Repubblica, La Nuova Italia, Firenze 1999, pp. 155-189; G. GRIBAUDI, Violenze e responsabilità nella guerra. Alcuni volumi sui massacri nazisti in Italia, in “Quaderni Storici” n° 100, 1999; ID., Napoli 1943. Memoria individuale e memoria collettiva, in “Quaderni Storici” n° 101, 1999.
12 J.C. NOTIN, La Campagne d’Italie. Les victoires oubliées de la France, 1943-45, Perrin, Paris 2002.
13 L. PAGGI (a cura di), Le memorie della Repubblica, cit., p. XIV.
14 C.S. MAYER, A Surfeit of Memory? Reflections on History, Melancholy and Denial, in “History and Theory” vol. 5 n. 2, 1993.
15 A. ASOR ROSA, L’alba di un mondo nuovo, Torino, Inaudi 2002, p. 22.
16 A. ASOR ROSA, L’alba di un mondo nuovo, cit., pp. 6-7.
17 F. VON SENGER UND ETTERLIN, La guerra in Europa, Longanesi, Milano 2002, pp. 289-9.
18 Il racconto è stato pubblicato su “Ciociaria Oggi” del 24 Dicembre 2002.
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