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Studi Cassinati, anno 2016, n. 4
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di Gaetano de Angelis-Curtis
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Il letterato
In tutto l’arco di tempo in cui si sviluppa il Diario c’è un motivo che risulta essere sempre ben presente ed è quello del richiamo alle opere letterarie. Rifugiarsi fino allo stremo delle forze, fino alla fine dei suoi giorni, nella lettura, continua e ripetuta, dei Canti della Divina Commedia o delle opere di Carducci, di Pascoli, di altri autori della letteratura italiana, latina, greca e straniera, sembra essere uno dei pochissimi elementi, se non l’unico sicuramente il più importante, accanto al pensiero per l’amata nipote Lidia e i suoi quattro bambini, di conforto per Di Biasio. Come egli stesso confessa («Leggo, per divagarmi», 21 marzo 1951) la lettura gli serve per tenere occupata la mente su aspetti letterari e culturali e non pensare alla quotidianità, alle gravose questioni nelle quali rimaneva coinvolto. Il 18 aprile 1952, forse in uno dei tanti momenti di sconforto oppure nel ricordo di quanto successo esattamente quattro anni prima, riporta un’invettiva, seppur generica, nei confronti di «politicanti, scrittori, giornalisti, che Iddio mi salvi!» a cui dare «non pugni e né lancio di pietre, com’eri uso fare da ragazzo, ma sputi, sputi», ma chiarendo che per superare le varie questioni appaiono sufficienti e bastevoli «quattro libri soli, delle centinaia che ne avevi» (evidentemente con riferimento alla sua biblioteca andata persa con la guerra), «fors’anco uno solo, quello che a te pure era il più caro, don Giosuè [Carducci]!». Dunque l’immergersi nei libri sembra rappresentare il modo più certo per rinfrancarlo, consentendogli di poter affrontare quei momenti di crisi personali, familiari, professionali e sociali che ciclicamente lo assalivano. In tal senso non devono meravigliare, dunque, le continue citazioni letterarie e filosofiche presenti nelle pagine del Diario, inframezzate dalla rievocazione di sue poesie giovanili. Per gli stessi motivi non deve meravigliare che, ormai ottantenne, scriva di aver letto l’ultimo Canto del Paradiso, di volersi rifare con Carducci, ma, subito dopo, di riprendere a leggere ancora una volta, l’ennesima, la Commedia o le tragedie di Eschilo ecc.
Di Biasio, «innamorato pazzo» del mondo letterario, non si limitò ad amarlo, a frequentarlo leggendo e rileggendo i capolavori dei grandi autori, ma, «contagiato» e spronato dai suoi migliori amici, Carlo Baccari e Raffaele Valente, iniziò a tormentare la sua «pubescente musa con endecasillabi e settenari leopardiani o foscoliani». I tre, dunque, iniziarono a scrivere «versi e versi e versi che naturalmente si pubblicavano su un giornaletto, “Don Nicola” (editore Raffaele Mentella e direttore Raffaele Valente» (29 aprile 1950). Tuttavia la vena di Di Biasio «non scatur[ì] se non forse più tardi» dei suoi due amici, «molto più tardi», finché il «colpo di sole lo ebb[e] in Arpino, studente alla 5^ Ginnasiale (29 aprile 1950). Inizialmente Di Biasio, che «non avev[a] letto ancora nulla dei moderni», era «manzoniano», poi, nel corso degli anni, finì per cantare talvolta con il vecchio metro, quello di Dante, spesso invocato nelle pagine del Diario come «Padre» e «Maestro», «le volte anche col nuovo». «Poi venne il despota, il tiranno», cioè Giosuè Carducci, «col Ça ira e Giambi ed Epodi … e l’Intermezzo» e Di Biasio si accese di «passione» e «d’un ardore che non si spense, né si spegnerà mai» (29 aprile 1950). Da quel momento il poeta maremmano (Di Biasio ricorda di essere stato tra i promotori, assieme ad altri giovani, al direttore Rossi e ai proff. Gualtiero Gnerghi e Gesualdo Manzella Frontini, dell’intitolazione del Liceo Classico di Cassino a Giosuè Carducci) gli fece «da tiranno dopo Dante, sul [suo] carattere di impertinente ribelle e di sognatore, com’Essi, dell’idea di giustizia e di libertà» (30 gennaio 1957), a cui si aggiunse anche Giovanni Pascoli (nel 1912, a un mese di distanza dalla scomparsa del poeta romagnolo avvenuta a Bologna il 6 aprile, Di Biasio tenne un discorso commemorativo che fu poi stampato in un volumetto dal titolo Giovanni Pascoli e la sua poesia).
Nel corso della sua vita trasse, dunque, «una favola da quella miniera inesauribile ch’è Omero, ascolt[ò] le grida dalla piazza del Campidoglio alla Rupe Tarpea, percors[e] e ripercors[e] a fatica», mattina e sera, la trama dei canti di Dante e di quella del suo maestro, Virgilio (1° ottobre 1946). In tal modo si serbò, «avendo Te, solo Te», cioè Dante, «per guida maestro e duce», come egli ebbe «il buon Virgilio dall’Inferno al Purgatorio» (20 maggio 1951). Senza Dante, confessa, non poteva «stare, come del pane» (20 maggio 1951) e chissà che Di Biasio non abbia intenzionalmente utilizzato quel termine di paragone nella doppia accezione di alimentazione indispensabile alla sopravvivenza degli esseri viventi e come vocabolo per richiamare l’attività forense svolta, altrettanto necessaria per la sua esistenza. Tuttavia si mostra pronto a chiedere perdono al sommo poeta fiorentino per quanto aveva scritto (1° ottobre 1946). «Quante volte», ricorda, «me lo piego davanti il volumetto tascabile della D[ivina] C[ommedia], mi ci annego e mi scordo. Il resto è … nulla, direbbe Amleto, meglio: silenzio» (3 giugno 1952). Anzi dimostra di essere talmente attaccato a quel libretto, «compagno» di vita, che desidera fosse posto sul suo petto nella bara, accanto al crocifisso che egli stesso aveva collocato sulla salma della madre quando era morta (13 dicembre 1946).
Più che settantenne, con la vena esaurita, con l’animo indurito dalle vicende belliche e dalle quotidiane difficoltà e non più quello di chi si appresta ad affrontare la vita con l’ardore, la vigoria e la spensieratezza giovanile (quando «non ci aveva some che pesassero allora, tutto era leggiero e portato con allegrezza festosa, ci si godeva anzi a portarle pesanti che mai fossero», quando aveva davanti a sé «tanti anni ancora da correre» e si ripeteva che non importava «se le porte non … si sono schiuse sinora! Si schiuderanno», 1° ottobre 1946), si apprestò a rimettere mano ai suoi lavori. Ad esempio la sua traduzione esametrica dell’Eneide, di cui riteneva che fossero molti i «versi da rifare, espungere», al fine di ripubblicare l’opera, giungendo a una nuova edizione, per cui si riprometteva di riallacciare i contatti con la casa editrice Paravia (21 marzo 1951). Riprese anche la sua versione delle Georgiche (14 maggio 1951), così come il suo lavoro su l’Antigone (1-2 novembre 1951), oppure il Viandante? Colloqui col Maligno, dal titolo «interessante». Questi ultimi, probabilmente, sono suoi scritti giovanili non completati, opere inedite con «buone cose da rifare in parte», ma si domandava chi potrebbe essere interessato alla pubblicazione. Qualche tempo dopo, al fine di partecipare a «un concorso», si apprestò a far battere a macchina una sua opera giovanile, Rupe Tarpea, una tragedia storica in tre atti già pubblicata nel 1909. Laconicamente aggiungeva solo: «Andrà» (18 giugno 1952, 27 marzo 1953).
Tuttavia nei momenti di sconforto che lo assalivano periodicamente, in cui sembra rifuggire l’umanità («Amo solo le bestie che non sanno tradire, tutte le bestie»), assieme a quelle cose per le quali, fin lì, aveva provato attaccamento e affetto («Un tempo ho amato le rocce di Montecassino, le amo sempre, ma non me la sento più di abbrancarmici e salire, o di stendermici sopra a dormirvi care cose lontane sognando»), ripudia e sconfessa la sua attività letteraria così come quella professionale. Giudica i suoi versi «bruttini» (20 maggio 1951), e poi irride di sé scrivendo «Poeta! oh il poeta! Quattro versacci che dicono tanto e dicono niente (3 giugno 1952) per cui chiede al «Padre!», cioè a Dante, che possa perdonare «questo sciagurato che nulla di buono mai è riuscito a fare; forse un buon parrucchiere. Che letterato e letterato d’Egitto, che avvocato ed avvocato» (7 dicembre 1951). In un momento di crisi, qualche anno prima, aveva espresso il desiderio che andassero al rogo le sue «quattro carte stampate e scritte», cioè che fossero bruciati tutti i libri, i manoscritti, i documenti che egli possedeva risparmiando solo il volumetto della Divina Commedia, il Dantino, come lo chiamava, regalatogli dall’amico Carlo Baccari, perché venisse sepolto con esso (13 dicembre 1946). Proprio al Dantino era legato il ricordo di un episodio in cui l’amore per la lettura era capace di farlo estraniare fino al punto da mettere in pericolo l’attività professionale. Infatti un mattino, seduto su l’erba, persosi dietro qualche canto si era attardato. La moglie lo chiamò a gran voce rimproverandolo «“Ehi! Ehi! Fa’ il poeta tu che ti scordi della casa», perché c’era un cliente ad aspettarlo. «Naturalmente chius[e] la Divina Commedia e sces[e] a passo precipitoso la stradetta di S. Antuono» dove raggiunse la moglie e il cliente, trovando «cioè il pane» (12 gennaio 1951).
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I ricordi, i genitori, le difficoltà economiche
Naturalmente il Diario rappresenta anche il momento per lasciarsi andare ai ricordi degli affetti familiari, degli anni spensierati della gioventù, della scuola (a Cassino e ad Arpino), delle cene di Natale con i parenti, degli amici (in primis Carlo Baccari, «fratello d’infanzia», dagli «occhi di fuoco», «neri nobilissimi», dai «capelli neri com’ala di corvo», di cui Di Biasio rimase «in soggezione quasi mai confessata» per tutta la vita, e pochi altri), dei compagni di scuola e di partito, delle prime esperienze lavorative (apprendista barbiere, scrivano, venditore di tessuti), della musica (i canti in Chiesa e l’ocarina). Il padre, calzolaio, gran lavoratore («asino di fatica»), dalla «fronte alta nervosa», «solcata di rughe e di sudori», dai «mustacchi castani alla V[ittorio] E[manuele]», dai «capelli folti del colore dei baffi», dagli «occhi vivaci», dallo «sguardo ora triste, ora lieto», dalla «voce di comando a cui bisognava per forza ubbidire; e tip e tap [forse intendendo, in modo onomatopeico, il rumore del martello da calzolaio sulla suola] mattina e sera», dalle mani «callose, robuste», «minacciose», «grosse come martelli», e «forti poderose … anche a tirare schiaffi a chiunque se li meritava», era un uomo dal carattere forte, dai modi anche rudi ma in fondo dal buon cuore regalando al figlio i suoi primi libri (i Promessi Sposi di Manzoni e l’Avviamento all’arte del dire di Gaetano Bernardi) e cercando di assecondarlo, compatibilmente con il magro bilancio familiare, nel suo desiderio di voler studiare. La madre (santa e benedetta di nome e di fatto, scrive Di Biasio), «alta, austera, dolce negli occhi, nel sorriso», dalla «bocca di rosa» con cui mormorava «le sue preghiere alla Madonna del Carmine o davanti alla statuetta della Immacolata», aveva una spiccata sensibilità di animo ed era sempre pronta a difendere e ad aiutare il suo unico figlio. Non a caso il ricordo della figura materna è sempre presente nei pensieri di Gaetano Di Biasio, una presenza capace di alleviare il dolore e di confortare di fronte alle difficoltà. Dei genitori, l’avvocato scrive di aver ereditato «l’alterigia» dal padre, mentre dalla madre «la serietà, la compostezza, l’alterezza e l’umiltà con la bontà a un tempo. Di ambedue lo spirito di sacrifizio per mantener[lo] agli studi, la religione del dovere». Tuttavia nel Diario appaiono rievocati anche i momenti bui, la «giovinezza, così squallida, così triste» trascorsa «tra la fame e la paura», «chiuso tra quattro gelide mura a studiare» (anche se altrove scriveva della «bella casetta nostra: due vani, malconci dagli anni: per me – da piccolo – una reggia. Ci cantavo, ci amavo, ci piangevo, ci studiavo, ci pregavo»), «guardato con compassione e disprezzo» perché, nonostante fosse «figlio di scarparo e di fruttaiola», si era «messo in capo» di fare l’avvocato e allora «il riso beffardo» delle persone del quartiere, come Vincenzo lo “Scardalana” il quale si faceva beffe del padre che intendeva assecondare i desideri del giovane Gaetano («S’è impazzito Mastrantonio che vo’ fa’ gliu figlio avvocato!»), al pari dei «sogghigni anche dei compagni, financo ad Arpino», trovando solidarietà solo in Carlo Baccari, «non altri, non altri». Un’adolescenza, dunque, caratterizzata dall’incertezza di proseguire gli studi, da una «povertà odiosa», dalle difficoltà economiche della sua famiglia che alle spalle aveva solo la «sacra fame», dai duri sacrifici affrontati dai genitori per permettergli di studiare, dal ricorso a conoscenti e compari per farsi dare dei soldi in prestito. Nelle pagine del Diario è sempre ben presente il ricordo, accompagnato costantemente da parole di affetto e ringraziamento, degli affanni dei genitori, degli stenti, sofferti comunque sempre con grande dignità, di «quante lacrime [aveva] per essi secretamente versate!» per i sacrifici fatti, per il duro lavoro svolto dal padre («batti, batti, batti») e per il peggioramento della situazione familiare quando «cominciarono ad allontanarsi gli “accunti”, i compari, gli amici!», quando il padre, da una bottega «con tre quattro lavoranti e qualche ragazzo per i servizi minori» e con una «buona clientela» formata «di signori e di negozianti, nonché di gente di basso costo, amici compari, compagni di cantina la domenica», cominciò a non avere «più lavoro: non lucrava una lira più al giorno» (12 giugno 1951). Talvolta, addirittura, «non aveva una lira da comprare il pane e vi soccorreva [la] madre colla bancarella della frutta», per cui il giovane Gaetano «inghiottiva le lacrime, che [i genitori] non vedevano; [s]i sentiva l’inferno nel cuore» (21 ottobre 1951). «O mio padre, quanto hai sofferto e patito e digiunato e pregato e vegliato insieme a quella santa donna di mia madre, per me, per farmi uomo» (13 giugno 1952). Tuttavia il ricordo delle difficoltà economiche patite negli anni della formazione giovanile tendono, forse, anche a esorcizzare quelle incontrate da Gaetano Di Biasio nell’ultima parte della sua vita. La sua capacità nell’esercitare la professione forense gli aveva consentito di vivere agiatamente, di mettere da parte qualche risparmio da conservare per gli ultimi anni di vita con accanto la moglie Antonietta, quando avrebbe smesso di esercitare. La guerra glieli portò via, spesi velocemente nei mesi di sfollamento per sopravvivere (cambia dei «buoni fruttiferi» l’8 marzo 1944 e «50 mila lire di buoni novennali, perdendoci diversi biglietti da mille», mentre gli rimangono «200 mila lire, tutti i [suoi] guadagni, tutti i [suoi] sudori: il resto se l’ha [sic] portato la guerra», scrive il 24 marzo 1944), assieme alla perdita della casa, distrutta con tutto quello che conteneva. Tornato a Cassino fu costretto a continuare a esercitare la professione di avvocato e, ormai avanti negli anni, ne sentiva tutto il peso di fronte ai colleghi. Per far fronte alle nuove difficoltà̀ economiche pensa di contrarre un prestito di 50 mila lire con un istituto di credito, oppure di chiederlo a un amico, preoccupandosi che non ne venisse a conoscenza la moglie (2 gennaio 1951), quindi decide di alienare parte del suo patrimonio immobiliare vendendo «a un cieco di guerra il costone», un appezzamento di terra pagato, nel 1928, 130 mila lire e negli anni «arricchito di piante, d’una vignetta, di tre fontanine o quattro» e su cui progettava «di costruirci una villa», un sogno che rimase tale perché infranto dalla guerra (25 febbraio 1951).
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Gli aspetti più intimi
Le pagine del Diario raccolgono anche le confessioni più intime. Ad esempio, sollecitate dalla gioia dei «quattro evangelisti, Nella, Maria, Anna, e Mimmi», dei «quattro angioletti», come definiva i figli di Lidia, l’amata nipote (figlia d’oro, sposa e madre felice), con «i baci di Mimmi e le strizzatine d’occhio: “Chi vo’ chiù bene a zio?”. E il coro: “Io!!”» e le risate e la festa con «canti e strilli» (12 settembre 1952), mentre «il mutismo e il … lutto» ripiombavano in casa quando la famigliola tornava a Lecce. In due distinte occasioni Di Biasio esprime il rammarico di non aver avuto figli: «Io ero nato per fare il padre di famiglia. Macché!» (23 settembre 1952) e «Io non ho meritata questa grazia» (20 marzo 1953).
Altro tema ben presente nelle pagine del Diario è il pensiero della morte. L’invocazione della «liberatrice», della «grande ora», di «sora nostra morte corporale», che ponga termine alla sua vita terrena, accompagna Di Biasio fin dall’immediato dopoguerra. A partire, infatti, dalla fine del 1946 si ritrova quello che egli non considera un «presentimento» ma una «certezza». Un ultimo pensiero all’amata nipote Lidia, che gli fu «cara più che una figlia», e all’eredità che lascia alla moglie: «niente, perché niente ho; un ricordo forse caro di suo marito che non piegò mai la fronte a chi presumeva di stargli di sopra per tutt’altro che non fosse fermezza di carattere, per senso di rettitudine, e, soprattutto, per bontà di cuore. Di questo essa può sentirsene superba» (13 dicembre 1946). Poi «Oh morte, morte, morte!» scrive dopo pochi giorni, nella vigilia di Natale. Quindi il pensiero della morte ritorna ossessivo dall’inizio degli anni Cinquanta. L’avvocato, dopo essersi rammaricato di dover rimanere «ancora qui nell’inferno de’ vivi» (10 aprile 1951) ed essersi interrogato sul senso della sua vita, sostenendo che era stata «una povera cosa, un agitarsi di chiacchiere, di pensieri, di scorrerie sulla montagna, un affannarsi … perché? Per chi?» (22 maggio 1951), e cioè «parole, parole, parole tra esseri puzzolenti e il … resto!» (30 novembre 1951), proprio negli stessi momenti, sentendosi un uomo «sopraffatto dagli anni, dai tempi», inizia ad annotare «Quante volte t’ho invocata, o Liberatrice!» cui seguono due versi della sua poesia Mors (31 gennaio 1951), al pari di quattro versi di un’altra sua ode, Preghiera, riportati per ricordare al suo fraterno amico Carlo Baccari, il quale non aveva «mai scritto niente della morte», che essa «è tanto dolce » e «si avvicina, e non tremo per me» (14 febbraio 1951). Da quel momento, con sempre maggiore frequenza e intensità, ripropone l’invocazione e l’attesa. «Oh, la Dea che mi accompagni all’altra riva», cioè nell’aldilà, chiedendosi «Quando?» (1 aprile 1951); si sente un «tronco inaridito che vuole distendersi tra quattro assicelle di abete e seppellirvi i sogni della gioventù» (19 agosto 1951); «Tutta la notte non penso che a lei, a lei sola. Non ho più pace, né voglia di fare nulla (26 ottobre 1951); «al gran guado del “Forse”», termine che evoca il senso della morte (1-2 novembre 1951); «Invoco la grande ora» (8 novembre 1951); «l’inferno nel cuore … e … quando verrà̀?» (7 dicembre 1951); «Notte insonne, agitata, rivolgimenti di pensieri, di pose: in fondo… Lei! Che tarda a venire … il cimitero. Ci torni ora, cosa vuoi? Che aspetti? Lei, lei sola, che non viene» (13 febbraio 1952); non desidera che lei «la sora nostra morte corporale» (15 !!! “1944”); «benedico l’ora … che non potrà tardare» (29 febbraio 1952); «Ohi la morte … L’ho vista: quattro ossa in due scatole di legno», facendo riferimento alla ricomposizione dei resti di alcuni familiari fatta nel cimitero di Cassino qualche giorno prima, «Quattro ossa! … e la polvere domani di una pietra dove sarà inciso il mio nome» (7 marzo 1952); «tutta la notte non faccio che invocare la morte … che non viene. E rido, e rido, e rido, come un pazzo o sdolcino strofette in prosa» (15 marzo 1952); «Non posso più della vita, non posso» (27 aprile 1952); «Che notte e che sofferenza! Se deve venire, a che tardare? Sono parato a riceverla santamente. Pulvis et umbra. Fumo e cenere. Nient’altro. Nient’altro nell’al-di-là. Forse!» (29 aprile 1952); «La solita invocazione. Non ho più pace quaggiù» (12 settembre 1952); «Ho 75 anni, ed ogni giorno che passa è un brandello di vita che lascio lungo la siepe, finché un giorno … Quando? Oh liberatrice!» (23 settembre 1952); «Nulla di nuovo. Noia più noia» (26 settembre 1952); «Nulla di nuovo. Si precipita» (23 gennaio 1953); «A quando? Eccomi pronto» (20 febbraio 1953); «La notte … un incubo spaventoso che non trova mai pace. Impreco, maledico, mi stringo le mani al petto, che venga una buona volta, che venga! Non ne posso più» (27 marzo 1953). Talvolta, evidentemente nei momenti di maggiore sconforto, sembra lasciar intendere anche delle inclinazioni insane. Nonostante debba preoccuparsi, «per chiudere» il suo «infame curriculum», di se stesso e di «due donne fin che [sic] Dio [gl]i darà salute e provvidenza» (10 febbraio 1952), qualche giorno dopo pare far presagire qualcosa di grave scrivendo «Se non ci avessi … due donne da sfamare e qualcuno da soccorrere …» (14 febbraio 1951), così come nella registrazione di un «sogno» quello, cioè, di «andar via e morire altrove, oppure farla finita» (22 luglio 1952). Parallelamente allo svilupparsi di quel sentimento di avversione per Cassino che lo assale negli ultimi anni, giunge a modificare anche la sua opinione sul luogo in cui riposare eternamente. Inizialmente, infatti, il desiderio e la speranza erano quelli di «dormire» accanto ai suoi genitori, nella tomba di famiglia al cimitero di Cassino (16 aprile 1944), in una «nicchia accanto» al padre e alla madre (14 gennaio 1951). Poi, invece, desidera una «grazia», quella, cioè, che le sue ossa non venissero chiuse «in questa terra maledetta» che odia (29 febbraio 1952), vorrebbe «andar via e morire altrove» (22 luglio 1952) e, al pari, che si esaudisse un «voto: chiudere gli occhi in un luogo quale che sia lontano. Qui ho paura» (9 ottobre 1952). Seppure esprima il desiderio di non essere deposto in un loculo ma di essere seppellito inizialmente, addirittura, in una «fossa comune» con una «croce senza nemmeno il nome» (7 dicembre 1951), ma comunque nella «terra, [nel]la terra madre, e basta!» (26 marzo 1953), da tempo, tuttavia, sa che sarà tumulato in una sepoltura datagli «dal Comune per “conguaglio”! della tomba di famiglia distrutta» (5 marzo 1952), ubicata a fianco della Cappella del SS. Sacramento nel cimitero di Cassino e formata da quattro loculi, di cui i primi utilizzati come ossari, mentre invece nel terzo e nel quarto troveranno posto le spoglie della moglie Antonietta e poi dell’avvocato. E chissà, si domanda, se «qualcuno domani [vi] pianterà un cipressetto» o se a sera vi si addormenterà una «passeretta» (14 febbraio 1951). Dopo aver dettato la scritta da apporre sulla lastra di marmo del loculo della consorte scomparsa il 15 gennaio 1954, dichiara di aver «finito» e che vorrebbe «fuggire, fuggire» ma gli «mancano le ali. Morte e dannazione» (30 gennaio 1954). Nel frattempo aveva già provveduto a scrivere il suo epitaffio riprendendo quello di un «grande avvocato, Gaetano Manfredi, suicidatosi nel treno con sole cinque lire in tasca» il quale «al margine di una tragedia di Shakespeare» aveva scritto «Due sole supreme aspirazioni: la fossa comune e l’oblio» (26 marzo 1953). Lo fa proprio, anzi, precisa, lo «rub[a]», e lo modifica con l’aggiunta della parola «pace». Quindi nell’ultimo quindicennio della sua vita i due vocaboli «oblio» e «pace», con cui sottintende l’idea di essere dimenticato e quindi di riposare in pace, diventano i termini di riferimento, ripetuti ossessivamente, nelle pagine in cui è invocata la morte. «Domani, domani l’oblio. Così l’oblio si stenderà come un lenzuolo sul mio cadavere e, con l’oblio, la pace … Sulla lapide che mi sarà murata, due sole parole, quelle di sopra: pace ed oblio: null’altro» (13 dicembre 1946). Anni dopo torna a ribadire tali aspetti. Infatti «con l’idea fissa nella morte», vuole che il marmo posto a chiusura delle sue «ossa» riporti «inciso» il suo nome e cognome, alcuni dati biografici, un unico aspetto della sua vita sociale (e, non a caso, sceglie quello di amministratore della Cassino dell’immediato dopoguerra) e null’altro: «A Gaetano di Biasio primo sindaco della ricostruzione niente, niente … pace ed oblio. G. di B. 21 maggio ‘77» (10 marzo 1953). Oltre all’«epigrafe» aveva già provveduto a indicare, riproponendo un altro verso della poesia Mors, anche le «disposizioni di ultima volontà; “né rimorsi, né rancori; … la pace e l’oblio”» (14 gennaio 1951). Indica cosa debba essere riposto nella bara (il Dantino, salvato dal rogo di tutte i suoi libri e delle sue carte, assieme al crocefisso già riposto sul petto della madre. «Null’altro»), e precisa le cose da fare subito dopo la sua morte: «né miseria, né lacrime, né fiori, né parole … parole …: quattro assicelle di abete e la fossa con la croce. Poi … l’oblio!»; «Quattro fiori sparsi sulla bara e niente corona; niente il “ferale” (!) annunzio al pubblico, né sui giornali: pace ed oblio. E così sia! A domani, [??] Passata un’ora dopo del trapasso mi si chiuda [??]. Addio a tutti; e buona notte, buona notte».
Dopo aver lasciato un messaggio criptico, «il voto che fai a Dio e che non scrivi?» (5 marzo 1952), e dopo essersi ritrovato, alla mezzanotte del 7 giugno 1956, in compagnia solo delle memorie della sua vita trascritte nella pagine del suo Diario, di pochi libri (Dante, Carducci, non a caso gli autori più amati) e del crocefisso della madre, che aveva «baciato da bambino infisso alla parete della camera da letto e che dovrà riposare sul mio petto, tra le mie dita, quando Iddio …» (28 luglio 1951), lascia un suo ultimo pensiero sulla vita e sulla morte: «Illusione l’amore, illusione lo studio, illusione l’arte, illusione l’Idea, illusione il cor-cordium» (motivo shelleiano ripreso anche da Carducci), «illusione in tutto, la vita! Una sola verità, la morte! Il silenzio eterno. E ti par poco?» (30 gennaio 1957).
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* La prima parte è stata pubblicata su «Studi Cassinati», a. XVI, n. 2, aprile-giugno 2016, pp. 140-152.
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