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Studi Cassinati, anno 2017, n. 3
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Nella parte costiera del Comune di San Vito Chietino, su un «inaccessibile promontorio coperto di aranci e di olivi» posto fronte mare, si trova una «piccola casa rurale» ricca di memorie di Gabriele d’Annunzio, oggi chiamata appunto «eremo dannunziano» perché il vate vi trascorse due mesi dell’estate del 1889. Dall’eremo si domina la suggestiva marina di S. Vito da cui si diparte uno dei trabocchi che caratterizzano le coste del basso Adriatico. Il trabocco, o trabucco, imponente costruzione realizzata in legno e utilizzata come antica macchina da pesca, fu uno degli elementi che fermò l’attenzione di Gabriele d’Annunzio. Volle allora andare a soggiornare in uno stabile lì nei pressi, in quello che egli stesso definì il «buen retiro» dove ospitò alcuni dei più grandi artisti del tempo come Francesco Paolo Michetti (pittore e fotografo) o Francesco Paolo Tosti (musicista). Per quei due mesi l’eremo fu, soprattutto, il nido d’amore del vate con la sua prima amante Elvira Natalia Fraternali (1862–1949) che aveva sposato il conte bolognese Ercole Leoni in un matrimonio infelice naufragato quasi subito. D’Annunzio la chiamava Barbara (Barbarella) e a lei rimase legato per cinque anni e fu,
forse, con quello per Eleonora Duse, l’amore più sincero e genuino. Il 20 luglio 1889 in una lettera, nella quale aveva riportato uno schizzo della casetta, d’Annunzio avvertiva Barbara: «Bisognerà che sii molto paziente, perché ogni comodo della vita mancherà» lì all’eremo. Quando poi la donna giunse a San Vito, il vate fece ricoprire di ginestre, fiore tipico del posto, la mulattiera che collegava l’eremo alla stazione quasi a voler simboleggiare una processione verso un luogo consacrato all’amore. Proprio quegli ambienti della costa abruzzese: l’eremo, il are, il trabocco, gli scogli nonché la loro storia d’amore fanno da sfondo (tranne che per il tragico finale) al romanzo Trionfo della morte scritto da d’Annunzio nel 1894.
Qualche decennio fa l’«eremo dannunziano» è stato rilevato da Fernando De Rosa, un cassinate che ha sempre rivendicato con orgoglio e fierezza le sue origini. Egli uscì incolume, assieme alla madre, dalla distruzione di Montecassino del 15 febbraio 1944 quando perirono il padre e il fratello e quella difficile esperienza vissuta negli anni di guerra l’ha voluta ricordare nel libro L’ora tragica di Montecassino. Poi nel dopoguerra si è fatto apprezzare come alto funzionario presso il ministero dell’Agricoltura e quindi si è trasferito, per intraprendere la professione di notaio, a Pescara dove ha messo radici e dove ancora oggi, 89enne, vive spensieratamente e amorevolmente accudito dalla moglie, dal figlio Antonello e dal nipote Fernando junior.
Dopo averlo rilevato, non senza difficoltà, Fernando De Rosa ha provveduto alla ristrutturazione dell’eremo cercando di arredare le due stanze che sono descritte nelle numerose lettere inviate a Barbarella e nelle pagine del romanzo (la camera da letto e un ambiente al pian terreno adibito a biblioteca) così come le aveva sistemate D’Annunzio.
Ma non si è limitato a questo perché si è reso protagonista di un gesto carico di umanità. Barbarella, che quando si era legata a d’Annunzio si era già separata dal marito, morì nel 1949 a Roma, da sola e fu sepolta nel cimitero del Verano. La concessione trentennale della tomba ove riposava, dopo essere stata rinnovata per una volta, stava per scadere per cui si rischiava la dispersione dei suoi resti in qualche fossa comune. Fernando De Rosa, allora, tenacemente si è impegnato per recuperarli e nel 2009 li ha traslati proprio nell’eremo di San Vito dove ha fatto costruire un ipogeo posto di fronte all’ingresso della “biblioteca” e sul marmo che lo chiude ha fatto scolpire la seguente frase: «Barbarae Leoni / Siste! / Sub his saxis / sunt ossa / frementia amore: / hic / ubi amore arsit / Barbarae rursut / adest / F.D.R. / Memoriae causa». Un nobile gesto che ha consentito di riportare Barbarella lì dove aveva vissuto un’estate meravigliosa con Gabriele d’Annunzio, in modo che possa riposare eternamente nel «luogo della felicità», con i «paesaggi, le marine, tutte quelle forme e quei colori che la [loro] passione illuminava di luna soprannaturale» (gdac).
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