La figlia scomparsa

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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 1
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di Annamaria Arciero

La piccola Amalia.
La piccola Amalia.

Questa storia è la prova che, pur nell’infuriare della guerra, esistono delle persone che non fanno perdere la fiducia nella bontà dell’essere umano. Amalia Di Nallo, oggi una gentile e garbata signora ottantunenne, deve la sua salvezza a una serie di persone buone che ha incontrate nel periodo più triste e pericoloso della sua vita. Era una bambina di circa sei anni, l’ultima di quattro figli orfani di madre, quando, nell’autunno del 1943, arrivò la guerra nella zona di confine tra i comuni di Cervaro e Cassino, ai piedi di monte Trocchio. Il padre, come quasi tutti gli abitanti del luogo, sfollò con i bambini verso S. Antonino trovando rifugio presso la casa di alcuni conoscenti e credette di essere al sicuro con i suoi bambini, fuori dalla traiettoria dei colpi che si scambiavano Alleati da sud e Tedeschi da nord. Un giorno che era tornato furtivamente a casa a prendere alcune derrate nascoste prima di fuggire, i bambini, che giocavano sotto una tettoia, furono travolti dal crollo del tetto, causato da un grosso proiettile, che sfondò il letto sotto cui si era rifugiata la piccola Amalia. Tutti illesi, fuorché Amalia, che sanguinava copiosamente dal collo e da un piede. Un giovane vicino, tal Giuseppe Cavaliere, la raccolse piangente e stravolta, se la strinse al petto e si diresse, a piedi, presso l’ospedaletto militare americano di cui aveva sentito parlare. Questo si trovava oltre Mignano e, ad immaginare la scena e le circostanze, vengono i brividi: né la lontananza né il freddo né i pericoli cui andava incontro spaventarono il generoso giovane. All’ospedaletto non furono in grado di curarla; Amalia ricorda che la misero su un’ambulanza e durante il viaggio cercavano di consolarla dandole delle caramelle. La portarono all’ospedale degli «Incurabili» di Napoli. Le cure che ricevette la fecero guarire ma per il trauma subito non ricordava che il suo nome, Amalia, e quello di una parente, zia Crocifissa. Anche il proprio cognome era sparito dalla sua memoria.

Papà Di Nallo.
Papà Di Nallo.

Fu affidata ad un vicino collegio di suore dove si recava spesso una signora a trovare la figlia. Un giorno questa signora arrivò accompagnata da un’amica, Maria Pastore, e Amalia suscitò in lei interesse e simpatia. Poi le visite di Maria si fecero più frequenti e un profondo affetto nacque tra la bambina e la donna desiderosa di riversare amore materno su una creatura anch’essa bisognosa d’amore. Chiese di portarla acasa e curarla come una figlia. Senza impicci burocratici, fu subito accontentata: d’altronde la bambina non ricordava nulla della vita prima dell’incidente ed era come se fosse senza famiglia. Il padre invece, finita la guerra, mai rassegnato alla scomparsa della sua creatura più piccola, tentò di rintracciarla. Risalendo dall’ospedaletto americano a quello di Napoli, aveva appurato che la bambina era finita in un collegio vicino, ma qui non avevano saputo dare notizie sulla persona cui era stata affidata e il povero padre dovette tornarsene triste e sconsolato, dopo aver sostato in piazza Mazzini. Racconta oggi Amalia: «Io abitavo proprio lì con la famiglia Pastore. Se avesse scrutato le finestre dei palazzi accanto, forse mi avrebbe vista affacciata alla finestra». Ma Amalia in quella famiglia era amata e coccolata; papà Edoardo la chiamava con un nomignolo affettuoso, che dimostrava tutta la cura e la tenerezza che nutriva per la bambina: “Cip- cip”, visto che mangiava come un uccellino. Oggi Amalia lo chiama «il papà napoletano». Mamma Maria, però, voleva conoscere le origini della figliola che il caso le aveva insperatamente donata e, intestardita da questo pensiero, anche se ormai erano passati due o tre anni, un giorno salì sul treno per Cassino, unico punto di riferimento che le era stato dato dalle suore. A Cassino chiese notizie in un bar, se erano a conoscenza di una famiglia che aveva perso una bambina e un uomo disse che ne aveva sentito parlare e si offrì di accompagnarla con il sidecar. Percorrendo le strade polverose e dissestate della campagna cassinate, Maria scorse un ragazzino e ne rinvenne le sembianze di Amalia: «Quello è il fratello, ne sono sicura!» esclamò. Infatti era Alfredo, il fratello maggiore. Si può immaginare la gioia e la riconoscenza di papà Di Nallo, che subito si recò a Napoli per riprendersi la figlia; si può immaginare anche il dispiacere della coppia napoletana che aveva cresciuto e amato la piccola come una figlia. Ma Amalia si rifiutò di partire: quando, in piazza, si trattò di salire sulla corriera, si divincolava, strillava, piangeva … insomma si ribellò talmente che il padre si rassegnò a lasciarla a Napoli. Maria ed Edoardo proposero di adottarla, ma papà Di Nallo rifiutò: «Mi sembrerebbe di aver venduto una figlia. Crescetela, continuate a curarla come avete fatto per questi anni, ma il cognome deve restare Di Nallo». I rapporti tra le due famiglie, reciprocamente grate, furono sempre ottimi: da Napoli ogni estate i “parenti napoletani” venivano a passare qualche settimana in campagna, così si stringevano le conoscenze e gli affetti. Maria crebbe, si sposò con un bravo giovane del posto, mise su famiglia e, quando i figli erano ormai grandi, tornò a Cassino, nella casa paterna, dove tuttora vive. Il suo cuore, però, appartiene alla città di Napoli e a «mamma e papà napoletani».

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