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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 1
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di Costantino Jadecola
Strana terra, questa: sebbene comunemente nota come «Valle dei Santi», pur tuttavia, nonostante le altolocate referenze che compaiono nei nomi di gran parte dei suoi comuni, a leggere tra le pieghe di quella che dovrebbe o potrebbe essere la sua storia sembra proprio che su di essa gli influssi celesti siano stati piuttosto avari, almeno negli ultimi secoli.
Per il passato, infatti, c’è da supporre che le cose siano andate un po’ diversamente. Ed anche se è difficile dire del tempo in cui Roma era in auge, dal momento che ricerche in tal senso non mi sembra abbiano mai invogliato gli studiosi di ieri né quelli di oggi, per i secoli a venire, invece, soprattutto e specialmente a seguito della venuta da queste parti di Benedetto da Norcia, le cose pare abbiano preso un corso decisamente diverso, tale da riservare anche a questo scorcio di territorio momenti tutt’altro che negativi pur nel contesto delle alterne vicende umane e naturali di cui Montecassino e queste stesse contrade furono, loro malgrado, vittime.
Era la «Terra di San Benedetto».
Poi, a un certo punto, tutto finì. E l’ultima volta che questa terra si chiamò «di San Benedetto» ciò accadde in un atto di compravendita stipulato il 13 agosto 1312 nel castello di San Giorgio1.
Appena dopo – «strana coincidenza», la definisce Luigi Fabiani – questo nome, «Terra di San Benedetto», scompare. E scompare »proprio quando per un arco di due secoli una spaventosa procella di tristi avvenimenti e di fatti calamitosi si abbatte sul Monastero e lo porta allo stremo della sua desolazione, e sconvolge la vita dei paesi soggetti, danneggiandoli gravemente ed infliggendo loro infinite, indescrivibili sofferenze»2: dapprima una «fiera» pestilenza, quindi le azioni banditesche di Jacopo da Pignataro, poi il violento terremoto del 1349, le lotte dinastiche aggravate dallo scisma d’Occidente per la conquista del regno di Napoli, l’annessione di Pontecorvo allo Stato pontificio (1463) e, poi, altre pestilenze ancora, una tra il 1526 ed il 1529 e un’altra nel 1576. La conseguenza fu che la popolazione venne letteralmente falcidiata e molti dei castelli restarono senza abitanti e quei pochi che in alcuni rimasero vennero aggregati ad altre comunità.
La situazione igienico ambientale della pianura andò, intanto, sempre più peggiorando al punto che nel XVI secolo, papa Clemente VII, per ripopolare il territorio compreso tra Pontecorvo e Ceprano, ormai quasi del tutto disabitato, istituì in quest’ultimo centro, il 17 gennaio, la fiera di Sant’Antonio ed altre ancora la prima domenica di ogni mese, e concesse poi impunità ai banditi di tutte le razze e di tutte le risme affinché la zona fosse frequentata e di nuovo abitata; dal canto suo, il marchese Giacomo Boncompagni, che aveva acquistato la contea di Aquino nel 1583, proprio sul finire del secolo si vide costretto a prosciugare quelli che erano stati i laghi di Aquinum, regolamentando le Forme, cioè i corsi d’acqua che, oltre a diverse, piccole sorgenti, li alimentavano.
Né, in seguito, mutò il corso della storia che, anzi, di tanto in tanto tornò a proporre altre calamità: riferisce Erasmo Gattola3 che nel 1622 una carestia di notevoli proporzioni contribuì a far lievitare il costo del grano e del granone; nel 1631 e nel 1632, quando il 3 giugno cadde una grandinata di una tale portata che non se ne ricordava a memoria umana, le molto precarie condizioni atmosferiche consentirono ai contadini di poter trarre dal raccolto appena il minimo sostentamento; qualcosa di analogo tornò poi a verificarsi tra il 1650 e il 1652. Nel 1656, invece, una violenta pestilenza provocò, è sempre il Gattola a riferirlo, 450 vittime a Sant’Apollinare, 247 a Sant’Andrea, 164 a Pignataro e 83 a San Giorgio4.
Ma è soprattutto fra il Settecento e l’Ottocento che la letteratura medica coeva segnala, tra l’altro, «febbri terzane», «infezione miasmatiche» e «perniciose periodiche» nelle stesse zone ove le febbri malariche si sarebbero poi riproposte in maniera particolarmente pesante sul finire dell’Ottocento stesso e poi a metà degli anni quaranta del secolo scorso, all’indomani degli eventi bellici della seconda guerra mondiale.
Nella sola Cassino, che allora si chiamava ancora San Germano, tra il 1782 ed il 1787 sarebbero morte per malaria ben 1.346 persone; circa un secolo dopo, nella carta della malaria pubblicata nel 1882 dal senatore Luigi Torelli, la valle del Liri, ed anche quella del Sacco, vengono addirittura definite ad altissimo rischio.
Uno scenario decisamente a fosche tinte del quale, peraltro, era parte integrante un del tutto inesistente sistema viario che finì col rendere ancora più drammatica la situazione.
Il generale Lelio Parisi, in una «Memoria col corrispondente piano topografico diretta a chiarire alcune circostanze locali ed alcune idee di difesa date a 3 luglio 1796 sull’entrata nel Regno per Terracina e Itri», scrive che «da Mola per le montagne delle Fratte si può passare» sia «in Pontecorvo» che «nelle pianure di S. Giorgio e Pignataro ed indi in San Germano». E sin qui la cosa potrebbe apparire incoraggiante. Appena dopo, però, aggiunge: «Questa strada [che nell’inverno si rende fangosa] per sette in otto miglia è disastrosa, appena trafficabile con bestie da soma»5.
Insomma, una strada che c’era e che non c’era tant’è che nel 1832 nella «Carta idrografica e itineraria del Regno di Napoli» allegata da Afan De Rivera alle sue considerazioni viene indicata come ipotetica strada ‘centrale’ di comunicazione tra i distretti di Sora e Gaeta, ovvero tra Mola e San Germano. Una strada, però, tutta da costruire6.
Di una svolta vi è notizia quattro anni dopo, quando il Consiglio degli Ingegneri di Acque e Strade discute e approva il progetto esecutivo della strada di Fratte, ovvero delle Alte, dal nome della profonda gola tra Fratte e Roccaguglielma che ancora oggi vien detta Le Aute: con 110mila ducati si pensa di poter collegare Santa Croce, sull’Appia, a Piedimonte San Germano, sulla provinciale per Sora e Ceprano, attraverso il passaggio obbligato per la scafa di Roccaguglielma.
Nel 1836 si entra finalmente nella fase esecutiva dei lavori e appena dopo viene aperto il tracciolino in corrispondenza del tronco delle Alte, quello che è ritenuto il tratto più difficile. Quando sembra che non debbano esserci ulteriori difficoltà, emergono invece nuovi ed inattesi problemi sul tratto Fratte-Santa Croce dove «la strada si rende rovinosa oltremodo, specialmente nella stagione invernale, [quando] (…) battuta da un continuato traffico, alle volte si son veduti perire gli animali da soma ingoiati dai fanghi corrotti ne’ terreni pantanosi»7.
Ne consegue che il Consiglio distrettuale lamenti che, seppur realizzato il tracciolino sulle pendici delle Alte, «il resto (della strada) geme nel suo primiero stato, che anzi maggiormente rovinata oggi si osserva dalle acque imperiose che per quattro mesi sono perennemente cadute», al punto che essa ormai «non presenta che una palude invalicabile attraversata da torrenti pericolosissimi», con conseguenti «reiterati disastri di persone e di vetture che la necessità conduce per quei luoghi orribili»8.
La direzione generale dei Ponti e Strade affida perciò un sopralluogo all’ingegnere Raffaele Ruggi e all’ispettore generale Luigi Giura al fine di definire una volta per tutte la soluzione dello spinoso problema. Ed una soluzione i due la trovano ben presto suggerendo di abbandonare il progetto in esame e di realizzare, in sua vece, un collegamento sulla sponda sinistra del Garigliano tra il ponte di ferro sull’Appia e San Vittore anche per evitare, dicono, l’isolamento commerciale di Sant’Andrea, Sant’Ambrogio, Sant’Apollinare, Vallefredda, Roccadevandro e San Giorgio. Ma nemmeno questa ipotesi decolla, mentre, intanto, diviene una realtà la Civita-Farnese (1856), ovvero la Itri-Arce, generalmente considerata un gioiello di strada anche per via delle sue dolci pendenze che non superano mai il cinque per cento.
Siamo ormai in prossimità dell’unità d’Italia. E proprio nel decennio in cui questa si completa con l’annessione dello Stato Pontificio torna a proiettarsi sul territorio, come se i guai già presenti non bastassero, l’ombra lunga del brigantaggio, un fenomeno non del tutto nuovo che qui vanta riscontri più o meno antichi e più o meno eclatanti.
San Giorgio, in particolare, ha la ventura, ma forse sarebbe meglio dire la sventura, di avere addirittura come sindaco un personaggio decisamente al di fuori delle righe al punto che la popolazione si vede costretta a prendere carta e penna ed a scrivere alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio in questi termini: «Egli è troppo doloroso e intollerabile che questa popolazione la quale in tutte le epoche è stata sempre docile e pacifica, ed amministrata lodevolmente da persone morigerate, oneste, e di esperimentata probità, debba essere ora sventuratamente retta e governata dall’attuale sindaco Benedetto Ferdinandi, nativo del comune di Piedimonte San Germano, cresciuto senza educazione e senza lettere, addetto all’agricoltura ed indi da pochi anni tralasciato il mestiere dell’aratro e della zappa ed abbandonato il suolo natio dove era da ogni persona inviso a cagione della sua malvagia condotta venne a S. Giorgio. Egli si è mostrato uomo di immoralità e mal costume, disturbatore della tranquillità delle varie famiglie, seduttore di onorate fanciulle, fautore di vizi».
«Il Ferdinandi», continua la memoria, «ricopre la carica di sindaco indegnamente, ha approfittato del denaro comunale al solo scopo di vendetta ed ingiustamente oltraggia con vessazioni quei buoni cittadini che non fanno eco e che non concordano con la depravata condotta di lui». Si apprende, infatti, che il Ferdinandi occupa «l’onorevole ufficio di Sindaco fin da agosto 1860 e [che] l’ottenne con intrighi e frodi, imperciocché, facendo egli ragione della rivoluzione e del barcollare del Borbone»9.
Quando ciò accade è il 1863. Appena dopo Benedetto Ferdinandi, fra i cui maggiori delitti si segnala «lo stupro» di una ragazza, poi suicida, per il quale viene anche processato dalla Gran Corte Criminale, e il furto di 400 ducati assegnati dal governo al comune per la costruzione di strade, scompare dalla scena e dal 1864 è sindaco Silvestro Lucciola.
Ma è anche il tempo di Achille e Vincenzo Spatuzzi: il primo, un vita pubblica svolta interamente in seno all’Amministrazione provinciale di Caserta a partire dal 1865, quando viene eletto per la prima volta, e conclusasi nel 1898; il secondo, una vita pubblica tutta svolta a San Giorgio dove per circa un trentennio è consigliere comunale ed almeno tre volte sindaco (1884-1891; 1899-1900; 1913); né si può ignorare l’altro Spatuzzi, Giuseppe, prima ufficiale dello stato civile (1867- 1869) e poi sindaco (1870-1881), per concludere, come hanno evidenziato prima Claudio Ercolano e Adriano Mattia10 e poi Maria Antonietta Migliorelli11, che della storia di San Giorgio la famiglia Spatuzzi ha scritto molte pagine importanti.
Il centro della scena è tuttavia occupato da Achille Spatuzzi, medico e uomo di scienze, il quale, pur vivendo generalmente a Napoli per via degli incarichi professionali, non dimentica il suo luogo di nascita e, soprattutto, le sofferenze dell’intero territorio12. Tant’è che la prima cosa che affronta quando, trentenne, inizia la sua attività in seno al Consiglio provinciale di Terra di Lavoro, è quella attinente il problema viario e, in particolare, il collegamento tra la costa e l’entroterra attraverso Le Aute. E laddove sino ad allora non si era progredito più di tanto Achille Spatuzzi imprime una svolta decisiva ed anche epocale: egli, infatti, «per primo vide certa la redenzione igienica, economica e morale della intera regione nella strada provinciale Cassino-Formia e potentemente, instancabilmente, la propose, la propugnò, la ottenne», come ancor oggi testimonia una iscrizione murata sulla facciata di un edificio del corso a lui intitolato, nel centro storico di San Giorgio a Liri.
I lavori della Cassino-Formia iniziarono nel 1867 e furono completati nel 1879. La costruzione della strada costò 367 mila lire (circa 775 mila euro) ma questa cifra non comprendeva né i compensi per gli espropri né le spese per la realizzazione del ponte sul Liri, realizzazione che, come vedremo, provocò problemi non di poco conto di cui si ha notizia in un opuscolo del 187413 nel quale il progettista dell’opera, ingegner Janni, riferisce la sua versione a proposito dell’incidente capitato, cioè il crollo del ponte, mentre la struttura era in corso d’opera.
Quello progettato originariamente doveva essere un ponte a tre archi. Ma mentre si svolgevano i lavori, e comunque nello «spazio di quattro anni, si ebbe l’occasione di osservare dagl’ingegneri ivi addetti, che in quel sito il fiume avrebbe continuamente urtate le pile del ponte, di maniera da comprometterne la stabilità, e che inoltre la costruzione del ponte nel luogo disignato sarebbe riuscita assai costosa».
Si pensò, allora, di costruire un ponte ad unica luce «con corda di 44 metri» e l’impresa costruttrice «si offerse» di realizzare la variante a cottimo per la somma di 134 mila lire. «Intendendo però questa di profittare ampiamente del diritto che le veniva dal cottimo, volle usare, per smodata avidità di guadagno, mezzi di costruzione assai meschini, e molto male adatti alla grandezza della costruzione; principalmente nelle opere transitorie, come la cèntina, per la quale nella stima del progetto si era assegnato la somma di L. 41 mila, dacché occorreva una gran asse di legname di ottima qualità. Quindi doveva necessariamente avvenire quello che sventuratamente è avvenuto, che la cèntina non potendo sostenere il peso della fabbrica soprapposta, crollò».
Come dire un evento annunciato dal momento che, durante i lavori, non solo era stato fatto notare all’impresa la presenza di «grossolani errori in quella sciagurata costruzione» ma si era anche cercato di «rimuoverla dal mal passo con una protesta legale».
Intanto, i lavori della strada devono pur proseguire: fallita la realizzazione del ponte a tre archi, fallita quella del ponte ad unica luce, si opta, infine, per un ponte in ferro – di quelli a struttura portante romboidale, caratteristici dell’epoca – che viene posto in essere nel 1876: reggerà fino al 15 marzo 1944, quando verrà abbattuto dagli aerei alleati nel contesto della cruenta e lunga battaglia per la conquista della strada per Roma.
Frattanto l’attenzione di Achille Spatuzzi, legato, peraltro, da grande amicizia al deputato di Aquino Pasquale Pelagalli, è sempre concentrata sul territorio malato.
In tal senso egli ha come riferimento il tempo in cui «abitavano questa valle gli antichi Romani, i quali vi godevano eccellente salubrità e vi edificarono le più deliziose ville»14. Le loro città – Fregellae, Aquinum, Interamna e Casinum – erano ubicate sui corsi dei fiumi. E se Cassino era posta vicino al monte, tra oriente e mezzogiorno, e comunque in prossimità di copiose sorgenti, le altre tre, scrive Spatuzzi, erano «collocate nel mezzo della valle sopra alti piani inclinati verso occidente, i quali sogliono essere i meglio riscaldati dai raggi del sole in questa regione nebulosa»15.
Che dire, poi, dell’«intelligente ordinamento» e della «sapiente cultura dei boschi» nel piantare i quali «si badava al prosciugamento del terreno»? «Il vedere tutto il corso del Liri protetto da boschi indica come se ne sapessero i vantaggi per garantirsi delle esalazioni di vapori acquosi» così come quelli messi a dimora sulle pendici dei monti impedivano le frane, attenuavano «l’impeto dei venti di Sud-ovest e di Nord-est e si mutavano in aure salutari che spiravano sulle città impregnate di ossigeno»16.
Poi, però, accadde che «questi luoghi di grandezza di salubrità e di delizie non tardarono a farsi teatro di guerre, e poi di invasioni e devastazioni barbariche»17.
«Così il basso della valle si spopolava ed i vinti ed i fuggitivi cercavano rifugio naturalmente sui monti ove si costituivano luoghi di difesa (…). [Ed] alle antiche città messe nella valle e lungo il fiume succedettero a mano a mano delle Rocche e dei Castelli sparsi per i monti circostanti (…). Costruiti quegli abitati sotto l’impero della necessità della fuga e del bisogno della difesa erano fatti di case modeste, circondate da alte mura di castelli e di torri, appena divisi da vicoletti angusti e il deficiente influsso della luce come la scarsezza dell’acqua erano inevitabili. Intanto le devastazioni nella valle avevano distrutti i boschi, e perciò i torrenti portavano giù dai monti ciottoli e ghiaje che rialzavano i letti dei fiumi, mentre i guasti della guerra ne alteravano il corso»18.
«Per tal modo mentre nella pianura quasi abbandonata si formavano per la non curanza del corso di tante acque preziose e per l’agricoltura negletta i pantani e gli stagni melmosi esalanti miasma palustre; sui monti al contrario i luoghi abitati non erano che tanti stagni di aria senza ventilazione e senza luce ove la mancanza di acqua aggiungeva il succidume esalante prodotti di putrefazione animale»19.
Ed arrivò, quindi, il giorno in cui, cessate le devastazioni da parte dei Saraceni, l’abate Aligerno chiamò dalle terre vicine «uomini quanti ne poteva a coltivare l’Agro Cassinese». «Così in questi tempi, nei quali frequentemente si succedevano varietà di vicende e di uomini, avveniva che or per capriccio, or per fanatismo, or per bisogno, e per tante altre circostanze si creavano diversi modi di abitare: né erano tempi quelli cui si poteva pensare all’igiene. Difatti verso la fine del ’900 l’Abate Mansone fonda Roccasecca sulla costa del monte Sant’Angelo in Asprano in una bella posizione che guarda mezzogiorno, ma punto non badava alla mancanza delle acque, anzi nel dare al Castello il nome di Roccasecca faceva vanto della propria ignoranza»20.
Insomma, secondo Spatuzzi, bisogna tornare a «quel concetto igienico che presiedeva la vita degli antichi Romani»21.
Se queste considerazioni lo studioso di San Giorgio esprimeva in un suo saggio del 1871, egli doveva necessariamente calcare la mano in quelle espresse all’indomani dell’epidemia malarica che colpì il territorio tra l’estate e l’autunno del 1879 e «che minaccia di ritornare in quest’anno» come egli stesso paventa nel riferire il 28 aprile 1880 al consiglio provinciale di sanità di Terra di Lavoro sulle cause endemiche della malaria «prodotte, o per lo meno favorite, da cause particolari ai luoghi stessi». Per eliminare le quali, suggerisce Spatuzzi, bisogna far ricorso a quel «criterio tecnico speciale, che gli inglesi chiamano d’ingegneria sanitaria», ovvero attuare «un’opera di bonifica guidata da criteri tecnici ed igienici speciali»22.
E fu così che, nel giro di qualche anno, si arrivò alla costituzione del «Comprensorio Valle del Liri»23 finalizzato alla «coordinata attuazione delle opere ed attività rivolte ad adattare la terra e le acque ad una più elevata produzione e convivenza rurale»24 nei territori attraversati dal Liri e dal Garigliano. Ma la legge del 22 marzo 1900, che rendeva operante l’attività del Comprensorio, ebbe però scarsa efficacia pratica. Infatti, le opere eseguite nel successivo quarantennio furono poche ed inorganiche, nonostante il vigoroso impulso dato alla bonifica integrale dalla specifica legge del febbraio 1933.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale interrompe ogni attività. E quando questa finisce non ci vuol molto a rendersi conto che la situazione è decisamente peggiorata: la terra è letteralmente martoriata, i fossi di scolo non esistono più così come non esistono più gli argini del Liri, del Rapido, del Gari e degli altri corsi d’acqua, argini che i tedeschi hanno fatto saltare per provocare allagamenti e rallentare l’avanzata alleata; gli alleati, dal canto loro, non hanno esitato a scaricare sul territorio tonnellate di bombe che hanno prodotto un numero smisurato di crateri divenuti a loro volta stagni. Insomma, c’è nel territorio quanto di meglio potrebbe esserci per consentire il prolificare di perfidi insetti alla cui riproduzione danno una mano non meno consistente i soggetti infetti presenti fra le truppe combattenti, in particolare tra i reparti nordafricani, la scomparsa di tutti gli animali domestici, e poi dei bovini e dei suini che, in condizioni di normalità, avrebbero attratto l’interesse delle zanzare sui loro corpi; non ultima, la catastrofica situazione abitativa.
Insomma una drammatica realtà che viene affrontata ed annientata a costo di gravi sacrifici sotto la direzione del dottor Alberto Coluzzi, un medico umbro non ancora quarantenne, meritevole di essere ricordato per l’opera svolta in questo territorio in quei tragici frangenti.
Ma torniamo ad Achille Spatuzzi. Fra i fautori di una linea ferroviaria fra la costa e l’entroterra, che grazie a Dio non si fece, perché sarebbe sicuramente diventato l’ennesimo ramo secco, nei risvolti delle sue considerazioni scientifiche possono anche cogliersi alcuni spunti che ipotizzano un turismo sociale che egli pensa possa essere attuato una volta che la situazione nel territorio sia stata normalizzata. Il riferimento è a Baden, Svizzera, dove, scrive, «si poteva trovare l’esempio d’una imitazione possibile a Suio (…)»: lì, infatti, «a fianco del fiume Limmat sorgono molte sorgenti di acque termo-minerali, come quelle di Suio a fianco al Liri. Presso di ogni sorgente minerale si sono formati tanti stabilimenti di bagni con rispettivi alberghi, nei quali si hanno trattamenti speciali e vi convengono circa 1500 infermi all’anno da Giugno a Settembre. Vi sono amene passeggiate, e quel Municipio ha fondato un magnifico Casinò, nel quale ogni giorno si va a sentire una eletta musica. Vi è uno stabilimento nel quale si curano ammalati poveri, ed ogni anno se ne contano circa 500». Insomma, sottolinea Spatuzzi, «colà l’industria e la carità aiutate da una saggia direzione medica, hanno fondata una piccola città nuova in mezzo al progresso dell’agricoltura e di talune industrie»25.
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NOTE
1 La prima volta che si chiamò così fu nel 982, sempre in occasione di un atto di compravendita (Cfr. L. Fabiani, La Terra di San Benedetto, Volume I. Montecassino 1968, p. 22).
2 L. Fabiani La Terra di San Benedetto, Volume III. Montecassino 1980, p. 12.
3 E. Gattola, Historia. p. 749.
4 Ibidem, p. 746.
5 A. Di Biasio, Territorio e viabilità nel Lazio meridionale. Gli antichi distretti di Sora e di Gaeta. 1800-1860, Caramanica editore. Marina di Minturno 1997, p. 62.
6 Ibidem, p. 65.
7 Comunicazione dell’Intendente di Terra di Lavoro al Direttore generale dei Ponti e Strade in data 9 marzo 1838.
8 Ibidem.
9 In A. Di Biasio, La questione meridionale in Terra di Lavoro (1800-1900) , EDI-SUD. Napoli 1976, p. 189 (Cfr.: Atti della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul Brigantaggio, manoscritto, presso la Camera dei Deputati).
10 C. Ercolano, A. Mattia, San Giorgio a Liri dalle origini al XX secolo, Comune di San Giorgio a Liri 1985, p. 74.
11 AA.VV., Politica, sanità ed amministrazioni locali in Terra di Lavoro in età liberale. Gli Spatuzzi di San Giorgio a Liri (a cura di M. A. Migliorelli), Caramanica Editore, 2004, pp. 9-12.
12 Cfr anche Pasquale Gamba (S. Apollinare, 1868), laureatosi in Medicina e Chirurgia nell’Università di Napoli nel 1894, fu prima chirurgo assistente nella Clinica Traumatologica dello stesso Ateneo e poi primario nell’Ospedale della Pace sempre del capoluogo partenopeo. Pubblicò vari lavori di carattere scientifico, tra cui Azione battericida della luce solare.
12 Ricerca delle dimensioni per la costruzione del ponte in muratura sul fiume Liri nella strada d’Ausonia.
14 A. Spatuzzi, Saggi di Topografia e Statistica medico-storica (Esempio sulla Valle del Liri), Napoli, 1871, p.16.
15 Ibidem.
16 Ivi, pp. 19-20.
17 Ivi, p. 20.
18 Ivi, pp. 21-22.
19 Ivi, p. 22.
20 Ivi, pp. 25-26.
21 Ivi, p. 29.
22 A. Spatuzzi, Parere del Consiglio provinciale di sanità di Terra di Lavoro intorno alle cause endemiche della malaria nella Valle del Liri, Caserta 1880.
23 Fu istituito con regio decreto dell’11 ottobre 1885, n. 3455.
24 AA.VV., L’economia della Provincia, C.C.I.A.A., Frosinone 1956, p. 193.
25 A. Spatuzzi, Per l’igiene e beneficenza della provincia di Terra di Lavoro, Caserta 1879, p. 20.
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