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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 2
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di Emilio Pistilli
Lungo i fiumi, si sa, sono sorte grandi civiltà, il Gange, per esempio, l’Eufrate, e, da noi il Tevere. Le ragioni sono evidenti. Un fiume assicura l’elemento vitale per una popolazione, l’acqua, che, a sua volta, assicura la produzione agricola e zootecnica; né va trascurato il mezzo di comunicazione meno costoso.
Il fiume Garigliano ha tutte queste caratteristiche. La sua navigabilità ha consentito, fin dall’antichità, la nascita di molti centri abitati lungo le sue sponde.
La storia ci tramanda i nomi di alcune di esse: Ausona, Minturnae, Sinuessa, che, a dire il vero, facevano parte di una pentapoli Aurunca che comprendeva anche Suessa e Vescia.
Ci è noto l’importante porto di Minturnae alla foce del fiume e, da tempo recente, quello di Mortola, frazione del Comune di Rocca d’Evandro.
È di questo che qui voglio parlare.
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Mortola
Il porto di Mortola, più noto come «Porto di Mola», salì all’attenzione degli archeologi nel 1992/93, a seguito di una breve campagna di scavo a cura della Soprintendenza Archeologica delle Province di Napoli e Caserta.
Leggiamo uno stralcio della relazione inviata al Sindaco di Rocca d’Evandro, alla Comunità Montana del Monte S. Croce e all’Ufficio Archeologico di Teano il 5 maggio 1993, a firma del soprintendente Stefano De Caro.
«Con la presente questa Soprintendenza comunica alla S. V. che le indagini archeologiche effettuate nel luglio 1992 e nel marzo 1993, hanno individuato una vasta area di interesse archeologico rivelata e parzialmente danneggiata da arature profonde.
«In particolare, l’area era destinata in età romana repubblicana alla produzione di anfore vinarie per l’esportazione a vasto raggio. Nella zona vi era sicuramente un approdo per l’imbarco dei prodotti verso il porto di Minturnae.
«Le strutture rinvenute sono pertinenti a una strada basolata parallela al corso del fiume e ad un’altra perpendicolare alla prima, in basoli di calcare bianco, che serviva in particolare il quartiere artigianale.
«Lo scavo ha rivelato una delle fornaci per la produzione delle anfore ed alcuni ambienti, affiancati alla strada di calcare, interpretabili come tabernae.
«I produttori delle anfore erano liberti della famiglia dei Luccei, ampiamente documentata in Campania.
«Lo stato di conservazione della strada in calcare è buono; l’elevato degli ambienti (fornaci e tabernae) è stato molto danneggiato dalle arature».
La relazione era finalizzata alla proposta di istituzione di un parco archeologico sulle sponde del Garigliano.
Maggiori informazioni ci fornisce Marianna Norcia in un suo articolo sulla rivista «Civiltà Aurunca»1: «Il sito ha una estensione di circa 3 ha, ed è costituito da un ampio terrazzo di origine alluvionale, delimitato ad ovest da un’ansa del fiume Garigliano, ad est dalla S.S. 430, a nord dal Fosso “Porto di Mola”, ed a sud dal Fosso Camporocchio […] Durante i lavori di scavo sono venuti alla luce anche due tratti di strade. Un tratto di strada, al margine sud-est dell’area, era costituito da basoli di lava trachitica scura (leucite), allineati nord-est/sud-ovest; un altro tratto di strada, invece era costituito da basoli di calcare bianco locale, perpendicolare al primo e degradante in direzione del fiume, indice dell’esistenza di un approdo connesso alle esigenze di un quartiere artigianale, utilizzato per l’imbarco dei prodotti verso il porto di Minturnae».
Marianna Norcia suppone che la strada di basoli scuri, parallela al corso del fiume, fosse un diverticolo tra la via Appia di Minturnae e la via Latina proveniente da Interamna e Casinum.
La presenza di frammenti di colonne fanno pensare ad un porticato. «Uno degli ambienti, emersi lungo la strada – prosegue Norcia –, era porticato sul lato ovest, il che lascia presupporre una disposizione a terrazze del complesso. Alcuni pilastri, addossati lungo il muro parallelo alla strada, potrebbero costituire i sostegni di scale d’accesso ad un piano superiore, come lascia presupporre lo spessore del muro stesso».
Tra i vari rinvenimenti di materiale fittile, soprattutto frammenti di anfore, vengono segnalati due contenitori per la pece, il che fa ritenere alla studiosa Norcia che attestano un’ulteriore attività sviluppata nella zona: la produzione di pece, che rivestiva una certa importanza anche per Minturnae.
Informazioni dettagliate sulla consistenza dello scavo sono riportate da Emilia Chiosi e Gabriella Gasperetti nella comunicazione Rocca d’Evandro (Caserta) – Località Porto. Un quartiere produttivo romano sulla riva sinistra del fiume – Viabilità ed organizzazione della produzione, al cui testo e relativa bibliografia rinvio per economia di spazio2.
Dalle relazioni degli studiosi si evince che il sito rivestisse particolare importanza per l’economia e le vie di comunicazione tra la Foce del Garigliano e l’interno della via Latina.
La presenza di boschi, di argille3, di sabbie delle limate, di vasche per la pece, del corso del Liri-Garigliano4 che fa da fondovalle percorribile tra le numerose alture circostanti, conferiscono al nostro sito luogo ideale per insediamenti produttivi.
Il luogo dello scavo, sulla base dell’esame dei reperti, viene datato tra il primo secolo a.C. e il primo dopo, con definitiva scomparsa in età tardo imperiale5. Ma è facilmente intuibile che se i romani lo trovarono utile ai loro interessi in realtà fosse frequentato anche in età precedente: è noto, per esempio, come i romani fossero abili costruttori di strade utilizzando e ristrutturando percorsi preesistenti.
La ricerca archeologica non ci chiarisce se a Mortola vi fosse un porto vero e proprio o semplicemente un approdo, come altri già noti specialmente più a valle. Ma dalla presenza di forni per la produzione di anfore, di locali laboratorio, di tabernae, e di un reticolo stradale basolato si può intuire che lì vi fosse molto più che un approdo. Dunque non abbiamo difficoltà a parlare di un porto commerciale.
Strutture di ancoraggio, di imbarco e sbarco delle merci, certamente vi saranno state, ma le piene del fiume e la costante erosione delle sponde ne hanno cancellato ogni traccia.
Per le caratteristiche più su accennate (argilla, legname, pece, ecc.) è pressoché inevitabile supporre in loco una intensa attività artigianale, oltre che commerciale, dedita alla produzione di vasellame per l’esportazione, alla costruzione di imbarcazioni, alla lavorazione della pece, impermeabilizzante necessario per i vasai e per i calafati, all’immagazzinamento di derrate alimentari e merci varie.
Di qui ad immaginare un gran numero di lavoratori con le rispettive famiglie non si sbaglia di certo: dunque abitazioni e servizi connessi.
È in questo modo che sono sorte le più grandi città, come la stessa Roma.
Con tali premesse ci si può chiedere se il sito archeologico di Mortola nasconda ben altro che locali annessi al porto: un centro abitato, magari una vera e propria urbs. Un’adeguata campagna di scavo potrebbe rispondere a questa domanda; ma non è detto che il centro abitato sorgesse annesso o nelle immediate vicinanze del porto, anzi lo ritengo piuttosto improbabile perché una città di quel tempo aveva bisogno di sicurezza e di opere difensive, di mura, che impedissero alle immancabili scorribande del tempo di mettere a sacco abitazioni e beni.
L’area portuale era racchiusa da un’ansa del Garigliano, che la delimitava da due lati, il che poteva contribuire a difenderla da terra, ma che la esponeva ad incursioni via fiume.
E allora, come tutte le città dell’antichità, doveva trovarsi su un’altura facilmente difendibile, meglio se circondata da mura.
A ridosso del porto di Mola si erge una serie di piccole alture che dominano tutto il corso del fiume; solo per citarne qualcuna: Colle di Mortola e, poco più oltre, S. Maria di Mortola, dominata da una chiesa. Una esplorazione finalizzata a verificare quanto vado dicendo non è mai stata fatta; oltre tutto la folta vegetazione della zona non la renderebbe fattibile senza grosso impegno di mezzi.
In queste considerazioni, che possono apparire del tutto azzardate ed aleatorie, sono sollecitato da un ricordo e da un pensiero che da anni mi porto appresso.
Nella seconda metà degli anni Settanta lavorava a casa mia, per lavori di ristrutturazione, un manovale di nome Giovanni, proveniente dalla frazione Mortola, il quale, sapendo del mio interesse per le cose antiche, mi riferiva che nella zona collinare di casa sua, ogni volta che si affondava la vanga venivano fuori frammenti di tegoloni e ceramica varia. Più volte concordammo di fare un sopralluogo, ma senza mai riuscire a realizzarlo. Purtroppo non ricordo il cognome del signor Giovanni, deceduto da qualche anno, né conosco il luogo esatto cui egli si riferiva; tuttavia è una testimonianza importante.
Mi si dirà che se lì vi fosse stato un centro abitato, un castrum o una città quel luogo doveva avere un nome, mentre la toponomastica locale non ci tramanda nomi di un certo interesse.
Il toponimo Mortale o Mortola, diffuso in tutta Italia, qualcuno lo fa derivare dal fitotoponimo Myrtus, Mortella, dal diminutivo murtalae o anche dall’aggettivo di morto, che si riscontra in luoghi dove c’è acqua stagnante6; forse al caso nostro si adatta di più la seconda ipotesi; ma in realtà non ci illumina granché sul nostro ragionamento.
Porto di Mola ci fa pensare alla presenza di un mulino dove si usava la mola o macina di pietra. È significativo in questo toponimo, il termine «porto» che era in uso già molto prima che venisse alla luce il sito archeologico: dunque la tradizione di un porto era già persistente. Non è da escludere che «Mola» – evidente assonanza con la più famosa Torre di Mola di Formia – stesse per «mola», cioè pontile per le imbarcazioni.
È opportuno qui ricordare che la località Mortola è stata per lungo tempo collegata all’altra sponda del Garigliano da una scafa, da un attraversamento, cioè, del fiume tramite un cavo collegato ad una zattera spinta da uno scafista, per il trasporto delle merci e dei passeggeri. Per ogni traversata c’era da pagare una tariffa a seconda delle merci o dei personaggi. Grazie proprio a tale tariffario nei registri contabili di Montecassino abbiamo notizia di questa e di altre scafe, cinque in tutto7: Roccaguglielma, San Giorgio, Sant’Apollinare, Vantra e Mortola. Altre scafe erano ancora più a valle, la più importante quella di Traetto presso la foce.
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Gli Ausoni e la Pentapoli aurunca
I ritrovamenti di Mortola, come già detto, si possono ascrivere all’epoca romana tra il primo sec. a.C. ed il primo d.C. Ma nulla ci impedisce di pensare ad una storia precedente della località, storia legata al corso del fiume Garigliano, come lo è stato per le città ricordate della pentapoli aurunca di origine osca e confederate tra loro: popolazioni dell’etnia degli Aurunci o Ausoni. Secondo Marco Terenzio Varrone gli Aurunci e gli Ausoni erano due popolazioni contigue ma diverse. In realtà i due nomi si risolvono nell’unico «Ausoni», dove per il fenomeno del rotacismo la «s» intervocalica passa in «r», di qui «Auronici» e Aurunci8.
Giacomo Devoto9 considera questo popolo autoctono, stretto, in epoche successive, tra i Volsci a nord e gli Osci al sud.
Tra Romani e Ausoni ci furono lunghe lotte che, nel 495 a.C. portarono alla distruzione di Suessa Pometia10 e si conclusero nel corso della seconda guerra sannitica, quando, nel 314, i consoli Marco Petelio e Caio Sulpicio attaccarono e, grazie ad un tradimento, distrussero completamente le città della pentapoli11.
Scrive Livio: «La gente Ausonia cadde in potere dei Romani, come quella di Sora, per tradimento delle sue città. Esse erano Ausonia, Minturno e Vescia, dalle quali dodici tra i più distinti rappresentanti del partito aristocratico vennero ai consoli dopo essersi accordati di consegnare a tradimento le loro città». Gli Ausoni avevano parteggiato per i Sanniti nella certezza di una sconfitta dei Romani nella battaglia di Lautula (a. 315 a.C.); ma le cose non andarono così; mi piace riportare integralmente il testo di Livio: dietro suggerimento dei dodici aristocratici traditori «l’accampamento fu alquanto avvicinato e nello stesso tempo intorno alle tre città furono mandate truppe armate che si nascosero in luoghi vicini alle mura e altri soldati travestiti da cittadini con armi celate sotto la toga: questi con la consegna di entrare nelle città, non appena al mattino venissero aperte le porte. Avvenne così che contemporaneamente i custodi delle porte vennero trucidati e le soldatesche, a un dato segnale, si precipitarono fuori dei nascondigli. Bloccate le porte, le tre città furono prese nella stessa ora e con lo stesso sistema. Ma poiché l’irruzione ebbe luogo in assenza dei comandanti, non fu posto limite alla strage e il popolo degli Ausoni venne distrutto come in una guerra senza quartiere per un’accusa non ben definita di ribellione»12.
Una volta sterminati gli Ausoni i romani iniziarono a costruire la via Appia, la Regina viarum; i lavori iniziarono nel 312 a.C. per volere del censore Appio Claudio Cieco. Nello stesso periodo si pose mano all’ammodernamento della via Latina.
Con la sopraffazione delle popolazioni ausonie nel Latium Novum o adiectum si assicurò a Roma il libero transito tra il Lazio e la Campania; per consolidare quelle conquiste subito dopo i Romani fondarono le colonie di Sessa Aurunca e Minturnae negli stessi luoghi delle precedenti. Delle altre città della Pentapoli si è persa praticamente ogni traccia riscontrabile. Di Ausona possiamo ritenere che si trattasse dell’odierna Ausonia, mentre di Sinuessa sappiamo che i romani la rifondarono nel 296 a.C. lungo la via Appia a nord di Mondragone.
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Vescia
Di Vescia non si è saputo più nulla, anche se circolano varie ipotesi di ubicazione che vanno dalla sinistra del Garigliano (Amedeo Maiuri, per esempio, la pone sui contrafforti del monte Massico dove negli anni Trenta aveva visitato allineamenti di mura poligonali)13, verso la foce del Garigliano o alla destra attratti dall’epigrafe ritrovata a Castelforte, databile al 211-212 d.C., con un voto al «Genio Aquarum Vescinarum» a favore di Settimio Severo14 e che si fa coincidere con il sito termale di Suio. Una seconda epigrafe, sempre proveniente da Castelforte, menziona il «Pagus Vescinus» che contribuì alla costruzione di un teatro15. Un’altra epigrafe, ritrovata a Minturnae, è dedicata a Settimio Severo che «sua pecunia» fece lastricare la strada che da Minturnae conduceva alle Acquae Vescinae16.
Nicola Corcia17 riporta la testimonianza del neoplatonico Porfirio18 il quale riferisce che il filosofo Plotino pregava l’imperatore Gallieno di consentirgli di ricostruire una città distrutta per edificarvi la città di Platone, Platonopoli, e che aveva pensato alla zona di Mortola e Suio: «Viveva il filosofo [Plotino] nella villa di Zeto nella vicinanza di Minturna, dove ristoravasi alle acque calde e minerali che tuttavia rampollano all’una ed all’altra sponda del Liri da Mortola a Sujo, ed è molto probabile che in quelle vicinanze sorgesse un tempo la città di Vescia. Strabone infatti dice che il Liri bagnava il paese de’ vescini»19 – si tenga presente che Plotino abitò e morì a Minturno o Suio nel 270 d.C. –. Però lo stesso Corcia propende per la collocazione sul sito dell’attuale Castelforte.
Ci è noto che il sito delle terme di Suio, col nome di Acquae Vescinae, fu frequentato fin da tempi molto antichi: ce ne dà notizia Plinio20 ed anche Lucano. Tuttavia non si è mai trovata traccia di un insediamento abitativo tale da potersi definire urbs, città, come la chiama Livio, a parte la presenza di qualche villa di epoca romana.
Ma, come ho detto più su, le città della Pentapoli avevano forti legami col fiume Garigliano. Risalendo il suo corso a partire da Minturnae, non troviamo elementi archeologici tali da farci pensare ad una urbs o magari una fortificazione.
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Vescia e Mortola
L’unico luogo evidenziato dagli archeologi che potrebbe prestarsi a tale evenienza è il porto di Mola o di Mortola. E allora torna utile fermare l’attenzione su questa località e confrontarla con la storia di Vescia.
Per non cadere nel ridicolo per ipotesi azzardate mi limito a segnalare qualche indizio.
La distanza tra il nostro sito e le prime piscine termali di Suio (Terme Luval) non raggiunge il chilometro e mezzo.
Più a monte, ma molto più distante (sempre in territorio di Rocca d’Evandro), incontriamo un corso d’acqua, un affluente del Garigliano, denominato ”Peccia”. Se analizziamo questo toponimo troviamo due possibili letture:
- derivazione dal latino pix, accusativo picem, pece, di qui peccia; il che ci rinvia all’uso di questa sostanza impermeabilizzante di cui si è già argomentato a proposito del porto di Mortola; in tal caso avremmo a che fare col luogo di produzione della pece, comunque connesso col nostro porto di Mola;
- derivazione proprio da vescia con lo scambio delle labiali ”v”/”p” (vescia/pescia/ peccia); in questo caso l’accostamento tra le due località sarebbe inevitabile.
La prima lettura – lett. a) – mi convince poco per via del raddoppio non giustificato della ”c”: il passaggio naturale sarebbe stato ”pecia”; mentre la seconda – lett. b) – si concilia con il naturale passaggio del trigramma ”sci” nella doppia ”cc”.
A questo punto è legittimo chiedersi quale possa essere il rapporto del fiume Peccia con le acque Vescine vista la notevole distanza tra loro, circa 10 km via fiume. L’obiezione cadrebbe se la mitica Vescia la si potesse porre in territorio di Rocca d’Evandro; in tal caso il toponimo «Peccia» sarebbe un relitto onomastico della zona.
Una piccola osservazione: il nome vescia dovrebbe contenere la radice mediterranea «ves» che indica una emissione maleodorante: è dello stesso parere lo storico Giuseppe Tommasino21; da questa radice deriverebbe lo stesso termine vescia, che nel dialetto locale significa ”peto”, mentre ben si confa con le acque termali vescine di natura sulfurea. Ves sarebbe anche la radice di Vesuvio, vesuius, che ci richiama la località Suio.
Intanto porre l’antica Vescia in territorio di Castelforte, vale a dire in un fazzoletto di terra tra Ausona e Minturnae, come vogliono alcuni studiosi, mi pare del tutto inverosimile: le antiche città avevano bisogno di vasti territori per assicurarsi la sussistenza e l’autonomia. Inoltre la presenza indiscussa delle Acque Vescine in comune di Suio non implica necessariamente che fosse proprio lì l’ubicazione della città che da tali acque prende il nome.
Riprendo quanto ho appena detto circa l’assenza lungo quel tratto del Garigliano di «elementi archeologici tali da farci pensare ad una urbs o magari una fortificazione»; il porto commerciale di Mortola è l’unico in tal senso di cui si ha notizia fino ad ora e, vista la distanza pressoché irrilevante tra i due luoghi, si può affermare che Mortola con il suo porto facesse parte del complesso vescino; né va trascurata l’osservazione di Nicola Corcia circa la testimonianza di Porfirio ed il progetto di Plotino di cui si è già parlato.
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Conclusioni
L’importante porto di Neapolis, i fertili campi della Campania felix, e i vasti pascoli del Sannio giustificavano l’interesse di Roma per quelle aree e per le quali ha combattuto le tre lunghe e sanguinose guerre sannitiche. Le battaglie contro la pentapoli aurunca ne furono solo un inevitabile passaggio.
Se si potesse ubicare l’antica Vescia nell’area del porto di Mortola avremmo più chiara la strategia romana nella guerra del 314 contro la Pentapoli aurunca: la presa di Minturnae alla foce del Garigliano, Ausona più all’interno e di Vescia sull’altra sponda del fiume consentiva il controllo di tutta la valle del Garigliano e il libero accesso di persone e merci verso la Campania. E infatti, subito dopo, le conquiste furono consolidate con la creazione delle colonie e la costruzione delle grandi arterie dell’Appia e della Latina.
Insomma tutto potrebbe invogliare ad effettuare ricerche approfondite a vasto raggio nella corona collinare della zona di Mortola.
Chiudo questa breve disamina con l’avvertenza che non ho voluto affermare l’identificazione di Vescia con Mortola – il che mi assocerebbe alla lunga schiera di quanti ne propongono l’ubicazione in svariati siti –, ma ho semplicemente segnalato una serie di rilevazioni ed accostamenti tali da indurre ad una riflessione diversa da tutte le altre già pubblicate, a firma anche di valenti studiosi di archeologia, che non hanno mai trovato accordo tra loro sulla questione.
NOTE
1 N. 74 del 2009; lo stesso articolo è stato replicato nel 2015 nel Portale Digitale della Diocesi di Sora.
2 «Boll. d’Arch.», 1994,11-12, p. 125.
3 Rinomate le argille di San Vittore del Lazio, utilizzate nel passato per la produzione di canali e tegole ma anche delle campane (Marinelli).
4 Il fiume Liri, dopo aver ricevuto il Gari proveniente da Cassino, confluisce nel Garigliano in località Giunture di S. Apollinare. Il nome Garigliano è la risultante della fusione ”Gari-Liri” (Gari-liriano)
5 Chiosi-Gasperetti, op. cit.
6 Condò-De Vita, Agro romano antico; guida alla scoperta del territorio, Cangemi ed., p. 55.
7 E. Pistilli, Diritti di traghetto sui fiumi Liri, Garigliano e Rapido nell’anno 1273, in «Studi Cassinati», 2003, n. 4, pp. 228-234; L. Serra, ibid. pp. 234-242; Id., I diritti di passo nel Regno di Napoli e le tariffe su pietra nel Molise, CDSC onlus 2006.
8 Varrone in realtà conosceva il fenomeno del rotacismo; infatti in De lingua latina, VII, 26, scrive: «In multis verbis, in quo antiqui dicebant s, postea dicunt r».
9 G. Devoto, Gli antichi Italici, Vallecchi, 5ª ediz. 1931.
10 Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, lib. VI, par. 29.
11 T. Livio, l. IX, 25.
12 Ibidem: «Ceterum Ausonum gens proditione urbium sicut Sora in potestatem uenit. Ausona et Minturnae et Uescia urbes erant, ex quibus principes iuuentutis duodecim numero in proditionem urbium suarum coniurati ad consules ueniunt [ … ] His auctoribus mota propius castra missique eodem tempore circa tria oppida milites, partim armati qui occulti propinqua moenibus insiderent loca, partim togati tectis ueste gladiis qui sub lucem apertis portis urbes ingrederentur. Ab his simul custodes trucidari coepti, simul datum signum armatis ut ex insidiis concurrerent. Ita portae occupatae triaque oppida eadem hora eodemque consilio capta; sed quia absentibus ducibus impetus est factus, nullus modus caedibus fuit deletaque Ausonum gens uix certo defectionis crimine perinde ac si interneciuo bello certasset».
13 A. Maiuri, Passeggiate campane, Hoepli, 1938, pp. 116-117; id., Del sito di Vescia nel territorio degli Aurunci, “«Rend. Acc. Arch., Lett. BB-AA Napoli», XIII, 1933/1934.
14 [Pro] salute et victoria et redi/tu{s} dominorum n[[[n]]](ostrorum) Aug[[[g]]](ustorum) / Antonini et [[Getae]] Invictissimo/rum et Iuliae Augustae matri Augustor(um) et castr(orum) / Genio aquarum Vescinarum / Antonius et Eugenes servi / dispensatores posuerunt.
15 [3 Val]erius M(arci) f(ilius) Paetus Sex(tus) Flavius Sex(ti) f(ilius) / [3]vius L(uci) f(ilius) theatrum aedificandum / [c]oeravere ex pecunia Martis HS XII(milibus) / [c]eteram pecuniam pagus Vescinus / [c]ontulit.
16 Imp(erator) Caes(ar) L(ucius) Septim(ius) / Severus Pius Pertin(ax) / Aug(ustus) Arab(icus) Adiab(enicus) / Parthic(us) max(imus) et / Imp(erator) Caes(ar) M(arcus) Aurel(ius) / Antoninus Aug(ustus) / Pius Felix [[[et]]] / [[[P(ublius) Septim(ius) Geta]]] / [[nobiliss(imus) Caes(ar)]]] / via quae ducit a / Minturnis ad / Aquas Vescinas / sua pe<c=Q>(unia) straver(unt).
17 N. Corcia, Storia delle due Sicilie, Napoli 1843, p. 496.
18 Porfirio, Vita di Plotino, p. 8.
19 Strabone, Rerum geographicarum, V, p. 233.
20 Plinio, Naturalis historia, libro II, cap. 42.
21 Aurunci patres, Gubbio 1942.
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