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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 2
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De Rosa Fernando, L’ora tragica di Montecassino, Editrice Sigraf, Pescara 2011, pagg. 179, illustr. b./n.; f.to cm. 14,5×21; ISBN 978-88-955-6635-1; € 18,00, 2ª edizione [con l’aggiunta di un inserto fotografico; 1ª edizione del dicembre 2003, Edizioni Tracce, Pescara]
Per una sessantina di anni l’autore aveva conservato una sorta di diario scritto nel secondo semestre del 1943 e nel primo del 1944 quando la sua vita e quella della sua famiglia era stata sconvolta e travolta dal passaggio del fronte di guerra a Cassino. Una vita trascorsa fin lì in una più o meno tranquilla e laboriosa Cassino dei primi anni di guerra ancora non soggetta a bombardamenti fino al 10 settembre 1943. Poi per sfuggire agli attacchi aerei sempre più distruttivi, i De Rosa sfollarono nelle zone circostanti fino a farsi profughi nell’abbazia di Montecassino erroneamente considerata, come per tante altre persone, inviolabile e sicura. Lì furono sorpresi dal bombardamento del 15 febbraio 1944 che segnò la quarta distruzione del millenario cenobio cassinese.
Il volume potrebbe apparire al lettore, a primo impatto, come un romanzo storico: narrazione fluida, flashback, ameno esordio iniziale con dolci descrizioni paesaggistiche della città di Cassino, nucleo centrale doloroso e drammatico, e un finale a lieto fine. Solo che, invece, è tutto vero. «È la narrazione viva, drammatica dolorosa, tragica di fatti accaduti e vissuti da parte di chi c’era: uomini, donne, vecchi e bambini inermi, non combattenti, fuggitivi, impotenti, rassegnati a morire – quasi tutti morirono – sotto il fuoco continuo ed alternato di entrambi i belligeranti».
Nato a Cassino, Fernando De Rosa risiedeva in via Napoli all’ingresso sud di Cassino, nei pressi della zona detta «le tre pompe». Il padre, Antonio, era un imprenditore edile che aveva realizzato la strada di collegamento tra Cassino e Caira ed era impegnato in quei mesi del 1943 nella costruzione di ricoveri antiaerei ubicati presso le mura esterne del Distaccamento Artiglieria (l’ex concentramento di Caira) utilizzando anche manovalanza proveniente dal carcere di Cassino. Il papà era alle seconde nozze. Dal primo matrimonio erano nati quattro figli: Marietta e Gina, che però non vivevano più nel nucleo familiare, Aurelio, che nel frattempo era scomparso, e poi Umberto. Quindi dal secondo matrimonio, contratto con Bettina, era nato Fernando (Nando) che, all’epoca dei fatti era un quindicenne frequentante la quarta classe ginnasiale. Invece il fratellastro Umberto, di una decina d’anni più grande di Nando, dopo la maturità classica si era iscritto all’Università di Roma. Per le sue doti culturali manifestate fin da giovane era definito negli ambenti scolastici di Cassino come il ‘professorino’ e, infatti, già aveva maturato esperienze d’insegnamento presso il Liceo classico «Giosuè Carducci». In quei momenti svolgeva il servizio militare, in ritardo per motivi di studio, prestato presso il Distaccamento Artiglieria di Caira.
Poco prima del termine dell’anno scolastico 1942/43, a Cassino si palesò la guerra con l’afflusso sempre crescente di truppe tedesche e con i primi aerei che iniziarono a solcare il cielo. Quindi si susseguirono sempre più frequenti gli allarmi mentre arrivavano gli echi dei bombardamenti delle più importanti città italiane finché toccò prima all’aeroporto di Aquino e poi anche Cassino, il 10 settembre, «l’alba della tragedia». Come la maggior parte di quelle cassinati, anche la famiglia De Rosa decise di sfollare in zone circostanti. Si spostò, trascinandosi dietro ogni volta «suppellettili, materassi, valigie e colli di biancheria legati alla meglio», inizialmente in località Volipotto di Sant’Antonino, sette chilometri oltre il cimitero sulla strada per Capo d’Acqua, poi, dopo una quindicina di giorni, a S. Silvestro, poi “sopra il monte”, poi a la “costa”, poi al Monacato-Urso di Caira. I viveri erano sempre più scarsi mentre cannonate e bombardamenti aumentavano d’intensità giorno dopo giorno e già all’inizio di novembre il Distaccamento di Artiglieria di Caira appariva «quasi del tutto smantellato e irriconoscibile». Sebbene i giovani e gli uomini abili si dessero alla macchia per non essere rastrellati e avviati al lavoro coatto nel sistema difensivo tedesco, alla fine quasi tutti furono utilizzati forzatamente per la costruzione di trincee e ricoveri, per il trasporto di viveri, munizioni, cataste di legname sul monte Cairo sotto la direzione di genieri ucraini inquadrati nell’esercito tedesco. In quei frangenti Umberto si ammalò di tifo per cui a Natale i tedeschi non obbligarono la famiglia De Rosa a sfollare ma le consentirono di rimanere nella casetta al Monacato a Caira. L’idea era però quella di salire ancora più su e raggiungere Terelle, ma il tremendo bombardamento che subì nel giorno dell’Epifania indusse al ripensamento. Umberto riuscì a prendere accordi con un giovane ufficiale tedesco che mise a disposizione un automezzo militare per raggiungere Roma. Nelle notte del 12 gennaio i componenti di tre famiglie (oltre ai De Rosa anche Morra e Ricci) attesero per più di un’ora sotto la pioggia battente l’arrivo del camion che però non giunse. Scartata l’ipotesi di ritornare al Monacato, si giunse alla decisione di avviarsi comunque verso Roma. Ciò comportava l’ attraversamento di Cassino, divenuta «città morta». «Di cunetta in cunetta, sotto gli spari intercalanti» la «processione di profughi» avanzò guardinga. Nel «mattino brumoso», senza che si udisse «voce umana, né uno stormir di foglie, né movimenti di animali» raggiunsero il ponte sul Vallone nell’ingresso orientale della città. Intorno si intravedevano solo macerie, «quelle delle Scuole Pie e della Caserma dei Carabinieri, della Chiesa di Sant’Anna e della villa patrizia». Considerata l’estrema difficoltà di trovare un varco nella città per arrivare alla Casilina, il gruppo decise di fermarsi nelle cantine “sopra il monte” in attesa dell’arrivo, ritenuto imminente, dell’esercito alleato e dove scoprirono, con sorpresa, la presenza di altri gruppi familiari di Cassino. Lì trascorsero tutto il mese di gennaio nell’attesa, vana, della sospirata liberazione, con sortire alla ricerca di acqua anche nella sottostante città, nei pressi della Chiesa del Riparo «ancora quasi intatta». Quindi assieme ad altre famiglie si incamminarono verso Montecassino giungendo al «Ginocchio di S. Benedetto», alla cappella di S. Agata ancora intatta e con una gran croce pittata in rosso in quanto utilizzata come infermeria dai tedeschi, al convento di San Giuseppe dove furono costretti a sostare. Esuli da tutti i paesi del cassinate erano già affluiti e continuavano ad affluire verso il monastero. Nella notte i due fratelli De Rosa riuscirono a entrare nel monastero cassinese passando attraverso la «conigliera» e da lì poterono scorgere, nel pianoro dell’Albaneta, degli uomini in uniforme bianca aggirarsi nella brughiera e che per gli sfollati già rifugiati nel monastero «non [erano] tedeschi ma americani».
Il 5 febbraio qualche centinaio di esuli si accalcò all’ingresso del monastero supplicando l’apertura del portone, finché l’abate Diamare dette il consenso e la folla si riversò all’interno. La famiglia De Rosa raggiunse la cosiddetta «falegnameria» dove c’erano già circa trecento rifugiati. Quello stesso giorno, però, il capofamiglia Antonio De Rosa mentre si accingeva a prelevare l’acqua dalla cisterna del Chiostro centrale venne colpito nel corso di un bombardamento e morì. Dieci giorni più tardi la distruzione di Montecassino che inghiotte la vita di centinaia di persone fra cui anche Umberto De Rosa.
All’alba del 16 febbraio i rimanenti componenti della famiglia De Rosa, assieme ad altri, decisero di abbandonare le rovine del monastero. Avrebbero voluto dirigersi verso Villa S. Lucia ma sbagliarono strada e si ritrovarono tra le macerie di Cassino. Per una settimana rimasero nascosti in rifugi improvvisati finché furono rintracciati da militari tedeschi che, tra mille peripezie e pericoli, li condussero fino ad Arce dove riuscirono a farsi rilasciare da un comando tedesco composto da militari russo-ucraini collaborazionisti, dei lasciapassare, «nulla osta» però privi di valore. Allora si rivolsero a trafficanti della borsa nera che in cambio di denaro li trasportarono fino a Roma.
Nella capitale gli sfollati di Cassino si rifugiarono prima in un edificio nei pressi di via Marc’Aurelio e poi nel Traforo del Quirinale,il tunnel utilizzato come ricovero antiaereo. Nando il 23 marzo 1944 assistette alle vicende che avevano portato all’attentato di via Rasella, sfociato nella strage delle Fosse Ardeatine, e riuscì a sfuggire alle retate delle SS tedesche.
Quindi il lavoro prestato anche come manovale presso il Collegio Santa Maria, in viale Manzoni, contiguo con l’edificio di via Tasso trasformato dalle SS in carcere politico; poi presso il Seminario del Pontificio Collegio Lateranense.
Dopo tante sofferenze e patimenti, dovette essere ricoverato al Policlinico a causa alla flebite. «Durante il periodo di degenza, preso dalla nostalgia, esegu[ì] una pianta con toponomastica» della città di Cassino. Dimesso dopo tre mesi, un giorno di ottobre, con il suo bastone e i pantaloni alla zuava che indossava da quando era sfollato sulle montagne attorno a Cassino, si portò alla Fontana di Trevi, ma si sentì mancare e svenne. Lo portarono in una farmacia lì nei pressi assieme a un «fagottello» contenente vari fogli di carte che aveva con sé.
Il volume è dedicato alla «memoria del coetaneo Giannino Gallozzi» che procurò la salvezza dell’autore e quella della madre, e a «tutti coloro che perirono sepolti vivi dalle macerie», fra cui il ventiseienne fratello Umberto, il ‘professorino’, periti nella «falegnameria» dell’abbazia di Montecassino il 15 febbraio 1944 (gdac).
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