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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 3
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di F. Sabatini e M. C. Sabatini
Da epoca immemorabile si svolge in Atina, come in tante località d’Italia e del mondo, il mercato settimanale. Nonostante il proliferare di supermercati e centri commerciali e lo sviluppo del commercio elettronico, il mercato conserva ancora oggi la sua vitalità soprattutto nei mesi estivi con il ritorno dei tanti emigranti, vitalità che trova la sua spiegazione nella lunghissima tradizione, nei colori del luogo e nell’opportunità di incontri e relazioni sociali, tutti aspetti assenti negli esercizi oggi di moda per il loro anonimato e talora per il loro squallore.
A cavallo tra Otto e Novecento il mercato fu visitato da due importanti scrittori: nel 1882 da Cesare Pascarella (1858-1940) e nel dicembre 1919 da David Herbert Lawrence (1885-1930).
Con l’entusiasmo, la curiosità intellettuale e il senso dell’humour dei suoi 24 anni Pascarella visitò alcuni paesi della Ciociaria nel periodo in cui collaborava con il giornale «Capitan Fracassa», che probabilmente commissionò e finanziò il viaggio giacché ne pubblicò il resoconto in quattro puntate, riunite solo nel 1914 in unico testo.
Lo scrittore giunse in treno a Ceprano e da qui iniziò il viaggio muovendosi in carrozza, per un tratto a piedi (da Santopadre a Casalvieri) o con lo sciarabbà, termine che, come si sa, deriva dal francese char à bancs.
Appunto con lo sciarabbà egli raggiunse Atina, ultima tappa del viaggio, dopo una notte insonne trascorsa a Casalvieri, percorrendo, nell’ultimo tratto, la nuova Sferracavalli, la strada che era stata sistemata e migliorata nel 1824, opera di cui si hanno notizie da un componimento poetico a carattere celebrativo di autore rimasto ignoto, opportunamente trascritto da Pietro Vassalli nella sua Storia di Atina (1949).
L’appellativo “Sferracavalli” risale al vecchio tracciato, particolarmente impervio in corrispondenza del valico di Capodichina, e i lavori del 1824 in parte ripresero il vecchio percorso ed in parte lo sostituirono con una variante in corrispondenza del valico, e furono eseguiti anche con il lavoro gratuito di cittadini dei paesi interessati. L’anonimo pone a confronto il vecchio “sentiero sì aspro e sì scosceso” con la nuova “leggiadra via” ed esalta il lavoro prestato dai “Casalesi” (da intendere come gli abitanti di Casalattico e Casalvieri) e dai cittadini di Atina, Picinisco, Settefrati, Belmonte, Terelle e Sant’Elia (qualifica gli ultimi quattro paesi come meschini e desolati, diversamente dal passato), mentre censura per il loro disinteresse Alvito a causa della sua gelosia, San Donato e Sora. Il tracciato alternativo tra Atina ed il valico, più a monte e più costoso, secondo la tradizione orale, giunta fino a noi, fu concepito o percepito come dispetto alla famiglia Visocchi “dentro” (con palazzo all’interno delle mura medievali), proprietaria del villino di campagna in località Pozzello, il giardino del quale fu in parte occupato dal nuovo percorso.
Pascarella giunse ad Atina mentre imperversava il temporale, pochi erano coloro che avevano sfidato il maltempo ed egli si limitò ad annotare «piramidi di cipolle e di pomidori, di melloni e di angurie e di altri ortaggi»; la pioggia era così battente che la statua del Cristo benedicente (che sarebbe stata poi distrutta dai bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale), sovrastante la porta dell’Assunta, dava l’impressione che invece di benedire chiedesse un ombrello.
Il resoconto del viaggio è tra le opere minori di Pascarella e tuttavia esso ha un notevole valore documentario della vita quotidiana del tempo. Intendiamo qui riferirci ai commenti della chiassosa comitiva di gitanti salita alla stazione di Valmontone riguardo alla comodità del treno rispetto alla vecchia diligenza; alle contadine che lungo le rive del Liri battevano la canapa e cantavano nenie malinconiche; al vetturino Ciccantonio, «un tipo selvaggio» che di continuo bestemmiava e pregava ed aveva conosciuto il «famigerato brigante» Chiavone di cui forse era stato un sodale; agli enormi carri, trainati anche da dieci o dodici cavalli, diretti a Roma e carichi dei prodotti dei lanifici e delle cartiere del Fibreno e del Liri, con i vetturini che sonnecchiavano perché sapevano che gli animali conoscevano bene la strada; ai gruppi di pellegrini diretti all’abbazia di San Domenico che procedevano, come disse sornione Ciccantonio, «un pò a piedi e un pò camminando»; alla macellazione di un toro nella piazza antistante il palazzo ducale di Atina, tra i gemiti e gli schizzi di sangue dell’animale, barbaro episodio che sarà ricordato decenni dopo, non senza imbarazzo, da Pietro Vassalli, il quale preciserà che pochi anni dopo la visita di Pascarella fu realizzato il mattatoio comunale.
A partire dal novembre del 1919 Lawrence in compagnia della moglie Frieda compì il suo primo viaggio in Italia dopo la fine della grande guerra, viaggio che, iniziato a Firenze, proseguì a Roma, Picinisco, Capri (con escursione a Montecassino), Taormina e Sardegna: uno dei lunghi soggiorni di Lawrence, che amava il paesaggio naturale ed umano dell’Italia ma traeva anche beneficio dal clima allora salubre giacché nell’infanzia e nell’adolescenza la polvere di carbone sprigionata dalla miniera in cui il padre lavorava aveva minato la sua salute e nel corso degli anni avrebbe cagionato quella tubercolosi che nel 1930, a soli 45 anni, ne provocò la morte.
Alle Serre di Picinisco la coppia fu ospitata da Orazio Cervi, il quale, nativo del luogo, era emigrato quasi mezzo secolo prima, a 16 anni, nel 1870: proprio in quegli anni, successivi alla fine del Regno Borbonico, a Pescasseroli, non lontano da Picinisco, il destino dei giovani del tempo era stato riassunto nel motto amaro «o emigranti o transumanti o briganti». Il 16 dicembre, pochi giorni dopo l’arrivo, Lawrence scrisse una lettera all’amica Rosalind con la quale tra l’altro le comunicava di aver visitato il giorno precedente il “magnifico” mercato di Atina.
Nel romanzo La ragazza perduta, che egli completò dopo il soggiorno a Picinisco e che fu pubblicato nel maggio del 1920, egli così descrisse il mercato:
«quando Alvina si sentì di nuovo abbastanza bene, un lunedì mattina partirono tutti e tre diretti al mercato di Ossona. Uscirono di casa alla luce delle stelle, ma quando raggiunsero il fiume stava già albeggiando. Sulla strada maestra Pancrazio mise i finimenti all’asino e dopo interminabili indugi ripresero lentamente il cammino alla volta di Ossona. Alla luce dell’alba le montagne erano meravigliose, di un color verde cupo, malva e rosa, e il suolo scricchiolava per il gelo. Molti contadini percorrevano in gruppo la strada diretti al mercato, le donne con i vestiti della festa, alcuni di seta grassa e pesante, con i corpetti bianchi dalle maniche lunghe e le gonne verdi, lavanda o rosso scuro, e in testa allegri fazzoletti, gli uomini infagottati nei tabarri camminavano silenziosi con i sandali di cuoio appuntiti; e asini carichi, carri pieni di contadini e una mucca rimasta indietro. Il mercato era delizioso, sul punto più alto del passo della città vecchia, in quella gelida mattinata di sole. Tori, mucche, maiali e capre erano sparsi sotto gli alberetti spogli sull’alta radura che dominava la valle; qualcuno aveva acceso un gran falò di sterpi e gli uomini vi si radunavano intorno per sfuggire al gelo che rendeva l’aria azzurrina. Vennero scaricate le verdure dalla some degli asini, e dai carretti ogni genere di mercanzia: stivali, pentole, utensili di stagno, cappelli, dolciumi e cataste di granturco, fagioli e sementi. Alle otto di quel mattino di dicembre il mercato era in piena attività e si era riempito di una gran folla di bei montanari, tutti contadini e quasi tutti in costume tradizionale, con cappelli e acconciature diverse. Verso le nove, sul mercato si levò il sole e allora, dallo spiazzo accanto alla porta della città, Alvina osservò il magnifico scenario formato dai vestiti colorati delle contadine, i cappelli neri degli uomini, le pile di merce, i maiali che strillavano, e bei bovini dal manto chiaro, i numerosi asini impastoiati e si domandò se sarebbe morta prima di poter diventare una cosa sola con quel mondo».
Cosa resta del paesaggio così descritto? Il «miracolo economico» e la motorizzazione di massa diffusasi a partire dalla metà del secolo scorso hanno provocato un radicale mutamento: sono scomparsi a poco a poco asini, muli, carretti, sciarabbà; mercanti e clienti raggiungono il mercato con gli automezzi, fortunatamente non si vedono più pedoni calzare le scarpe solo all’ingresso del paese ed è notevolmente migliorata la vita allora dura dei mercanti, molti dei quali, probabilmente coloro che provenivano da località più lontane, secondo la tradizione orale giungevano in paese nottetempo, scaricavano la merce, riposavano e di prima mattina si presentavano in una delle tante osterie dell’epoca a bere una tazza di buon brodo caldo, preparato la sera prima. Se, fino a pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale si aggiravano ancora tra le bancarelle pastori con le cioce e contadine in costume, ad un tratto apparvero giovani con indosso i jeans: la storia aveva voltato pagina.
Il soggiorno di Lawrence e Frieda a Picinisco (nel romanzo Pescocalascio, mentre Atina e Villalatina sono indicate rispettivamente come Ossona e Casa Latina) è stato adeguatamente ricostruito di recente in questa stessa rivista da Costantino Jadecola (n. 4/2017, pp. 276-286). A quanto da lui scritto aggiungiamo le notizie fornite da Catherine Carsweli nella sua biografia dal titolo D.H. Lawrence – le pèlerin solitaire, edita nella versione francese nel 1935 e che qui trascriviamo nella parte che interessa:
«L’impossibilità di trovare un posto dove riposarsi nei dintorni di Caserta fu sicuramente all’origine della memorabile parte italiana del romanzo La ragazza perduta (cominciata sette anni prima), terminato nel maggio 1920. Dopo aver girovagato qua e là durante il primo periodo di dicembre “in uno stato di grande agitazione”, la famiglia Lawrence andò a Picinisco, ma trovarono il posto così impraticabile, “di una bellezza al di la di ogni parola, ma così arretrato e così freddo!” che pensarono quasi di morirvi. “Delle montagne si ergevano in cerchio tutto intorno, scintillavano di uno splendore diabolico”, e il sabato prima di Natale nevicò tutto il giorno. Fu così che se ne scapparono il lunedì seguente, come mi scrisse da Capri all’inizio di gennaio. Si alzarono alle cinque e mezza del mattino, fecero nove chilometri a piedi fino ad Atina per prendere un mezzo che li portò 18 chilometri più lontano a Cassino, l’unica stazione da dove poterono prendere il treno per Napoli, giusto in tempo per salire sulla nave delle tre per Capri. Come uscirono dal golfo, il mare ingrossò e, verso le sette e mezza, quando entrarono nel porto profondo di Capri, era così forte che le barche non potettero raggiungere i passeggeri per portarli a terra. Non c’era rimasto che ripartire per riparare a Sorrento e dondolare sull’imbarcazione tutta la notte, in mezzo ad un “carico” di italiani gementi. Fortunatamente, né Frieda né Lawrence ebbero mal di mare».
A Capri la coppia prese in affitto due stanze in un palazzo «vecchio e bellissimo», con uso di cucina in comune con un giovane socialista rumeno e verso la fine di gennaio il solo Lawrence – Frieda ne aveva abbastanza del freddo sofferto a Pinicisco – ripartì in treno da Napoli per Cassino per visitare l’abbazia. Il viaggio fu «massacrante» sia all’andata che al ritorno e il soggiorno a Montecassino si protrasse tre giorni. Lo scrittore ammirò i tesori artistici dell’abbazia e guardò con simpatia ai monaci che lo accompagnavano nella visita per la venerazione che mostravano per le origini e il passato del monastero, considerato però da Lawrence un relitto del medio evo in via di estinzione: giudizio drastico probabilmente dettato dall’abolizione dei monasteri avvenuta in Inghilterra quattro secoli prima durante il regno di Enrico VIII e dalle ricadute che il provvedimento aveva provocato sulla cultura popolare inglese.
I primi tredici capitoli del romanzo, con il titolo La ribellione di Miss Houghton (il cognome del personaggio Alvina) furono scritti, dopo che Lawrence aveva conosciuto Frieda, alla quale probabilmente si ispira il personaggio, tra il settembre 1912 e la primavera successiva nel lungo soggiorno a Gargnano sul lago di Garda. Il tema della ribellione era esaurito ma, diversamente dagli altri romanzi scritti nello stesso periodo, Lawrence si astenne dal pubblicarlo e consegnò alla sorella di Frieda, che viveva a Monaco di Baviera, il manoscritto, recuperato a fine guerra. Era insoddisfatto del testo o voleva aggiungervi la parte italiana? Gli ultimi tre capitoli, che narrano il soggiorno alle Serre, furono aggiunti nei mesi successivi.
Dalla lettera a Rosalind e dalla citata biografia si desumono con certezza alcune date del soggiorno in Ciociaria: la visita al mercato di Atina avvenne lunedì 15, la grande nevicata iniziò sabato 20 e la coppia ripartì lunedì 29 dicembre. Quasi certamente Lawrence e Frieda erano giunti a Picinisco il 10 o l’11 dicembre.
Si è detto all’inizio che il mercato di Atina è attivo da epoca immemorabile. Lo era certamente agli inizi del Seicento poiché ne fa cenno Marcantonio Palombo nella sua Historia. è possibile andare anche oltre? La documentazione epigrafica autorizza una risposta affermativa giacché attesta che il mercato era attivo già in epoca romana.
In un recente saggio Gianluca Mandatori, nel riassumere i risultati delle ricerche relative al Lazio, alla Campania, al Sannio e alla Apulia settentrionale, elenca le ventisei località che dalle epigrafi o frammenti di epigrafi rinvenute risultano sede di mercato periodico. Nel territorio che qui interessa l’elenco comprende Cassino, Aquino, Minturno, Interamna Lirenas ed appunto anche Atina. Il frammento di epigrafe relativo ad Atina è stato rinvenuto ad ottanta km di distanza, ad Alife: dato il quale dimostra che era interesse di mercanti e clienti conoscere l’esistenza di altri mercati anche se distanti e quindi il dinamismo del commercio. Il frammento di Alife secondo gli studiosi risale al primo secolo d.C. Altra epigrafe, già da tempo nota, attesta la presenza ad Atina del forum pecuarium, a servizio del quale, secondo gli archeologi che hanno diretto i lavori, era la cisterna, forse di origine sannitica, recentemente riportata alla luce nella piazza Garibaldi. Tutte le epigrafi hanno evidentemente valore ricognitivo di una situazione già esistente, in altri termini ciascun mercato esisteva da epoca precedente.
La continuità tra il mercato dell’epoca romana e quello degli ultimi secoli è dimostrata dalla forza della tradizione formatasi già in quell’epoca lontana, dalla posizione geografica di Atina – al centro di importanti vie di comunicazione e fino all’inizio del secondo millennio l’unica città della Valle di Comino – e dall’insopprimibile necessità, in ogni tempo e luogo, degli scambi commerciali. Ancora fino agli anni settanta del secolo scorso un settore del mercato era destinato alla compravendita del bestiame, come probabilmente già in epoca romana (il luogo è stato ora trasformato in parcheggio).
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Bibliografia
Catherine Carswell, D.H. Lawrence Le pèlerin solitaire, Parigi 1935.
Mauro, Introduzione alla “ragazza perduta”, edizione Newton Compton.
Basile, Italia da scoprire: Picinisco, Viaggi di Repubblica.
Fabrizio, R. Scappaticci, Album di paese, 2003.
Jadecola, Da Pescocalascio a Montecassino, «Studi Cassinati», n. 4/2017.
Mandatori, Mercati e moneta nella Valle di Comino, in «Le epigrafi della Valle di Comino», 2018, pagina 35).
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Le foto del mercato sono state fornite dalla biblioteca comunale di Atina e per essa da Luciano Caira, che ringraziamo.
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