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«Studi Cassinati», anno 2018, n. 3
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di Adriana Letta
Di recente mi è capitato, curiosamente, di essere contattata da una signora di Cassino che desiderava parlarmi della sua esperienza. La prima volta ci eravamo incontrate al supermercato, ci conoscevamo solo di vista, poi una seconda volta cominciò a raccontare, ma decidemmo di incontrarci in un momento di calma davanti a un caffè. E così ci trovammo faccia a faccia: era Franca Pacitti Fargnoli, cassinate, che desiderava raccontarmi la storia della sua famiglia perché io ne scrivessi e restasse così il racconto del suo 10 settembre perché la giovanissima nipote, di nome Marzia, potesse leggere e ricordare sempre il perché del suo nome. La prima reazione, da parte mia, fu un senso di inadeguatezza, ma l’energia e la simpatia di Franca vinsero ogni mia resistenza.
La sua famiglia, composta dal papà Antonio Pacitti, dalla mamma Anita Merolle e dalla sorellina di appena un anno, Marzia, per prudenza era andata sfollata a Terelle, insieme alla famiglia dello zio, con tre figli più grandi, ed era con loro anche suo nonno. Agli inizi del settembre 1943 si trovavano dunque a Terelle, tranquilli come in un rifugio, in attesa degli eventi. L’8 settembre ci fu l’armistizio che dette l’illusione che la guerra fosse finalmente finita, ma non fu per questo che decisero di tornare a Cassino, bensì un motivo molto più semplice e di vita quotidiano-casalinga: cominciava a far fresco la sera lassù in montagna e giudicarono conveniente e prudente tornare a casa a Cassino giusto per prendere qualcosa che li proteggesse dal freddo dell’imminente autunno, qualche maglia, qualche coperta, qualche cappotto… Così si organizzarono e decisero che il venerdì (era «quel venerdì 10 settembre»!) si sarebbero recati a Cassino per questo bisogno della famiglia e sarebbero tornati subito a Terelle. Partirono in cinque: il nonno, il padre, la madre, la cameriera e la piccolina, Marzia, di un anno, troppo piccola per lasciarla un giorno intero. La prima bambina, invece, la “grande”, Franca, ritennero giusto lasciarla a Terelle con gli zii fino al loro ritorno. Ritorno che non avvenne mai. La mattina, alle 10.50, le bombe delle forze angloamericane, lanciate da 36 quadrimotori in due successive ondate, del tutto impreviste e inattese, cominciarono a cadere su Cassino spargendo morte, distruzione e terrore. Chissà se la famiglia Pacitti ebbe il tempo di rendersi conto di cosa stava accadendo: tutti, anche il nonno (il cui nome fu inserito erroneamente tra i caduti di Terelle, infatti manca sull’elenco del 10 settembre) e anche la cameriera rimasero sepolti sotto le macerie delle scale del loro palazzo, che si trovava dove è ora il parcheggio del Liceo Classico «Carducci». Per sempre cancellati dalla vita. Della loro famiglia restava solo Franca, una piccola bambina. Orfana. Si riuscì a recuperare qualcosa, ma una in particolare Franca non dimenticherà mai: quando tolsero alla piccola Marzia gli orecchini, conservati poi come preziosa reliquia.
Franca restò così non per un giorno ma per sempre affidata alle cure degli zii che furono da quel momento la sua famiglia, le vollero bene, la educarono e le fecero riavere, a fine guerra, i beni della sua famiglia, di cui era rimasta unica erede. La zia le consegnò anche i gioielli della mamma, che erano stati nascosti accuratamente. Zia che meravigliosamente era diventata la mamma per lei, che la chiamava «Mamma Mena», quasi che non ce la facesse a dire semplicemente “Mamma”. Franca diventò per tutti il simbolo commovente della vita che continua nonostante tutto, come disse in una cerimonia commemorativa l’Avv. Adolfo Di Mambro. Ma certo diventò anche – per tutti i parenti e conoscenti – la “poverina” rimasta sola, avendo perso i genitori e la sorellina. Nel racconto di Franca a questo punto compare tutta la sua indole forte e positiva: un giorno si trovava a Roma dalla nonna materna, e non potendone più di sentire le sue amiche dire compassionevoli «povera bambina!», intimò alla nonna: «Se le tue amiche continuano a dirmi così, io me ne vado. Non sono povera!». Aveva circa otto anni e… carattere da vendere. La sua vita è continuata in positivo con la ricostruzione, gli studi, i concorsi (anche qualcuno in più perché, non si sa mai, può servire «come un ombrellino in caso di pioggia!»), il lavoro, la famiglia.
Durante il suo racconto, mi ha squadernato davanti tutta la sua vita e quella della città. Un racconto affascinante. In lei mi è sembrato di vedere la fortezza non solo sua ma di tutto il popolo cassinate, che nonostante i lutti, le sofferenze inenarrabili e la perdita materiale di ogni cosa, ha saputo ritirarsi su, tornando sulla propria terra, riedificando, facendo tornare a scorrere la vita e le attività là dove la guerra aveva ridotto tutto in polvere. Grande fu la sua emozione e gioia quando, 12 anni fa, il figlio le annunciò di aver scelto il nome “Marzia” per la sua bambina.
E quando questa Marzia le ha chiesto perché si chiama così, lei certo glielo ha raccontato, ma desiderava qualcosa di scritto, affidato alla memoria in modo più duraturo, perché queste cose non possono andare perdute, ma debbono essere conservate e tramandate. Come quegli orecchini. Come questa storia familiare che si pone come un piccolo cameo nella memoria generale, come un particolare visto e osservato più da vicino, che fa capire molto meglio che cosa è stato quel 10 settembre 1943.
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Alla celebrazione della cerimonia religiosa erano presenti anche alcune famiglie di cassinati emigrate oltre Manica nell’immediato dopoguerra, rimaste sempre legate alle proprie origini, come quelle di Gino Di Carlo e Armando Manetta.
C’erano pure alcuni parenti di Emma Berger, di origine tedesca, perita il 10 settembre 1943. Coniugata con un cassinate, Domenico Rotondo, e residente a Roma, proprio quel giorno i due giunsero a Cassino per far visita al padre di Domenico, gravemente malato. Nell’attacco aereo fu colpito anche lo stabile di via Sferracavalli dove si trovavano, causando la morte di Biagio Rotondo ed Emma Berger.
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