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«Studi Cassinati», anno 2019, n. 4
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di Fernando Riccardi*
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Una delle pagine più tristi della seconda guerra mondiale è stata la drammatica sorte dell’Armir (Armata Italiana in Russia), che tra il luglio del 1942 e il marzo del 1943, operò sul fronte orientale con gli alleati tedeschi, sul fronte di Stalingrado. L’VIII Armata, agli ordini del generale Italo Garibaldi, era composta all’incirca da 230 mila uomini, appartenenti a diversi reparti: fanti, alpini, bersaglieri, artiglieri, granatieri e così via di seguito. Sappiamo tutti come le cose andarono a finire: le operazioni belliche si conclusero con la disfatta delle forze italo-tedesche. Pesantissime le perdite italiane: si parla di 95.000 tra morti e dispersi e di 27.000 feriti e congelati nelle freddissime steppe russe. Alcuni reparti furono letteralmente decimati: gli Alpini persero più del 60% dei loro effettivi. Da considerare, infine, la gran massa dei prigionieri stimati in 75 mila unità. In questo immane disastro i dispersi, dei quali non si sono avute più notizie, furono tantissimi. Se poi consideriamo la chiusura netta subito dopo la guerra da parte delle autorità sovietiche, si capisce che su quella terribile vicenda ha regnato per tanto tempo un gelido silenzio dl tomba. Negli ultimi anni, per fortuna, ci sono state delle aperture ed è stato possibile riprendere la ricerca dei soldati italiani dispersi durante la campagna di Russia. Un ruolo di primo piano in questo campo è stato, e continua ad essere svolto, da un’associazione del cassinate, «Linea Gustav», guidata da Damiano Parravano di Piedimonte San Germano, un veterano per quel che riguarda queste difficili ricerche sul campo. Ed è stato proprio grazie all’impegno impagabile del sodalizio cassinate, che ha lavorato assieme ad altre associazioni di volontari, dando vita all’«Italian Recovery Team» («Linea Gustav», «Linea Gotica Toscana» di Scarperia e «Museo della Seconda Guerra Mondiale» di Felonica – Mantova), che sono state rinvenute nei pressi di Kirov, località a 800 chilometri da Mosca, tre fosse comuni con 1.600 corpi appartenenti a soldati italiani, tedeschi e ungheresi. E la cosa trova il supporto dell’analisi storica: a Kirov, infatti, erano collocati alcuni campi di prigionia e di lavoro, dove vennero rinchiusi parecchi italiani e da dove scomparvero duemila dei nostri soldati, gettati alla rinfusa dai loro ruvidi carcerieri in fosse comuni. Il team di ricerca italiano, una trentina di persone tra le quali un ruolo di primo piano ricopre il nostro Damiano Parravano, ha iniziato i lavori di ricerca e di scavo nell’estate del 2017, incontrando enormi difficoltà: il loro, infatti, è stato un certosino lavoro di archeologi e spesso sono stati costretti a rimuovere la terra con le mani, alla ricerca di oggetti che potessero condurre all’identificazione dei corpi. Operazione non facile considerato il tanto tempo trascorso da quegli eventi e le condizioni nelle quali sono stati trovati quei poveri resti. Alla fine però tutto quell’immane lavoro qualche risultato l’ha ottenuto: sono stati identificati 12 soldati italiani grazie a lembi di divisa, fregi, mostrine e piastrine. E i loro corpi, grazie all’autorizzazione concessa dalle autorità russe e all’impegno del nostro Ministero della Difesa, che finalmente ha deciso di fornire il suo apporto, sono già rientrati in Italia. Il prossimo 2 marzo, con una cerimonia ufficiale, le salme verranno tumulate nel «Tempio di Cargnacco», a Pozzuolo del Friuli, opera monumentale realizzata nel 1955, per ricordare i caduti e i dispersi della tragica campagna di Russia. In Italia torneranno anche tutti gli oggetti più significativi (divise, medaglie, scarponi, mostrine ecc.) che sono stati recuperati durante lo scavo. Palpabile la soddisfazione di Damiano Parravano, il quale ha svolto un ruolo decisivo in questa straordinaria opera di recupero, peraltro del tutto autofinanziata. «Sono davvero contento di aver potuto riportare in patria i corpi dì quei poveri soldati. L’ho già detto e lo ripeto: se anche si fosse trattato di una sola persona ne sarebbe valsa totalmente la pena. I soldati italiani sepolti in Russia, però, sono tantissimi: ecco perché sarebbe indispensabile che il nostro Ministero della Difesa si interessasse più da vicino e in maniera concreta alla cosa. Noi associazioni private possiamo arrivare fino ad un certo punto ma poi devono intervenire gli enti che sono istituzionalmente preposti a tale compito. Ad ogni modo le nostre ricerche continuano. Adesso ci stiamo spostando sul fiume Don, dove ci sono altre numerose fosse comuni con tanti corpi di soldati italiani. Ma quella è una regione che presenta grosse problematiche in quanto situata a ridosso del confine con l’Ucraina, con la situazione che non è proprio idilliaca. Ecco perché ci sarebbe di grande aiuto la vicinanza delle nostre istituzioni. Ma, ciò nonostante, noi come «Italian Recovery Team», andiamo avanti. Queste sono cose che si fanno per passione ma siamo convinti che rappresentino anche un preciso dovere: quello di cercare di riportare a casa i resti di quei poveri soldati che in quelle lande desolate sono morti combattendo con il tricolore cucito addosso».
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* L’Inchiesta, venerdì 15 febbario 2019.
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