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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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di Maurizio Zambardi
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Non è raro trovare nel borgo medievale di Venafro, rinato sui ruderi dell’antica Venfarum, elementi lapidei relativi ad epigrafi, sculture e blocchi architettonici di epoca romana, riutilizzati negli edifici di epoche successive. È noto, infatti, che la Venafrum romana fu Praefectura in epoca Repubblicana (metà del III sec. a.C.), mentre in età augustea fu una colonia denominata con l’appellativo di Colonia Augusta Iulia Venafrum, probabilmente preceduta da una deduzione in età triumvirale.
Non di tutti questi elementi riutilizzati è chiara la loro funzione originaria, o a quali strutture antiche appartenessero.
In questo breve articolo si propongono alcune letture archeologica per alcuni di questi elementi.
Incastonato nel muro di contenimento di Piazza Vittorio Veneto a Venafro, e precisamente sul lato destro della discesa di Via Caserta, a circa una quindicina di metri dallo spigolo della curva posta a monte, ad un’altezza di un metro e mezzo dal marciapiede, si trova una pietra recante un bassorilievo d’epoca romana, riutilizzata come materiale da costruzione (fig. 1). A primo colpo diventa difficile capire cosa rappresenti, ma, se si ribalta il blocco di 90 gradi, in senso antiorario, con un po’ di fantasia, e, magari, con un minimo di conoscenza archeologica, si può comprendere cosa sia. La pietra è in calcare locale, ha dimensioni frontali visibili pari a 24×35 cm circa, e rappresenta delle armi di epoca romana in bassorilievo. Più nello specifico si possono notare parte di un elmo a calotta globulare con tesa frontale e doppio paraguance, la parte anteriore di una lancia e una piccola porzione di uno scudo ovale, recante una bordatura a rilievo. Nella parte sottostante i paraguance si conserva parte di una cornice a rilievo, alta 3 cm circa, e una fascia liscia sottostante, alta 6 cm circa. La pietra scolpita in realtà non è altro che un frammento di un fregio di un mausoleo (o tempietto) di epoca romana, di forma cilindrica (fig. 2). Che il frammento appartenesse ad una architettura cilindrica lo si capisce dalla lieve curvatura della cornice, visibile solo se si osserva il frammento con una veduta radente il muro.
Risulta difficile stabilire con certezza lo stile del monumento architettonico di appartenenza a causa dei pochi elementi che il frammento conserva, anche se si propende più per lo stile ionico, se si considera che lo scudo, nella sua interezza, faceva superare la forma quadrata che in genere si davano alle “metope” dello stile dorico, dove venivano posti i bassorilievi.
Continuando a scendere lungo Via Caserta, sempre sul lato destro, proprio ai piedi della scarpata del grosso muro di contenimento, sito di fianco al Palazzo Pilla, vi è un altro frammento architettonico (35×30 cm circa) riutilizzato anch’esso come pietra da costruzione (Fig. 3). Questa volta, però, la presenza del “triglifo” e delle sottostanti “gocce” ci consentono di poter dire che il frammento doveva far parte di un’architettura (forse una tomba, un mausoleo o un tempietto) in stile “dorico”. La metopa a sinistra del triglifo contiene un bassorilievo non ben identificabile.
Nell’incrocio tra Corso Campano e Viale Vittorio Emanuele III, proprio accanto all’entrata del Palazzo Testa di Venafro, si trova da tempo un grosso blocco calcareo utilizzato spesso come sedile dai venafrani. L’elemento lapideo altro non è che un blocco laterale di un antico Mausoleo cilindrico (con diametro esterno variabile tra 3,80 e 4,00 metri) di epoca romana (Figg. 4 e 5). Nei pressi passava la diramazione della Via Latina per il Sannio. Per come è posizionato viene spesso scambiato per un concio di un grosso portale, in realtà la sua corretta posizione è quella ribaltata di 90 gradi. La parte arrotondata e lisciata era quella visibile all’esterno del cilindro del Mausoleo, mentre sul lato opposto la superficie è frastagliata e irregolare, perché si addossava al nucleo in opus caementicium. La conferma che il blocco facesse parte di un edificio funerario cilindrico (non è escluso l’appartenenza ad un tempietto pagano, ma questa ipotesi è meno probabile) lo confermerebbero anche le svasature verso l’interno dei lati e l’orizzontalità delle facce, quelle che creavano in pratica i filari orizzontali. Il blocco ha un’altezza di 60 cm (quella cioè del filare) una lunghezza, presa nella parte convessa, pari a 135 cm, ed uno spessore interno variabile tra 35 e 40 cm. Nella parte piana (quella che fungeva da piano di posa dei filari), sono visibili anche due piccoli fori quadrati di circa 2 cm di lato. Questi fori fungevano da incavi per la presa di grosse pinze metalliche atte a sollevare e posizionare il blocco in sede (Fig. 6).
A Venafro altri blocchi simili si possono osservare, in riutilizzo, nelle absidi della Cattedrale (Fig. 7) così come in alcuni mausolei romani, ad esempio quelli di «Tor di Quinto», sulla Nomentana, quello di «Cecilia Metella», lungo la Via Appia a Roma, oppure quello di Caio Ennio Marso ad Altilia, nel Molise).
I GRAFICI SONO DELL’AUTORE
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