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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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di Costantino Jadecola
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Come ne sia venuto a conoscenza non è dato sapere. Sta di fatto che, quando Ugo Boncompagni1, duca di Sora e signore delle terre di Aquino e di Arpino, appurò che a Napoli da qualche tempo era in atto una violenta pestilenza, per prima cosa si preoccupò sul come fronteggiare la situazione e preservare i suoi territori, ovvero proteggere la sua gente da quella terribile calamità sul cui sviluppo evidentemente di tanto in tanto qualcuno si preoccupava di informarlo nel suo castello di Isola del Liri.
A Napoli la situazione è allucinante. Tanto per dare un’idea, se inizialmente i morti venivano portati nei luoghi di sepoltura con i carri, a un certo punto, riferisce Carlo Celano, un testimone oculare, «non vi era più luogo da sepellire, né chi sepellisse; viddero quest’occhi miei questa Strada di Toledo, dove habitavo, così lastricata de cadaveri che qualche carozza che andava in palazzo non poteva caminare se non sopra carne battezzata. Non posso dilungarmi nel discrivere questa tragedia, perché far non lo posso senza lagrime…»2. Inevitabilmente, c’è una fuga dalla città che coinvolge ricchi e poveri. Chi può va in carrozza; chi non può, a piedi. E ci si dirige verso luoghi che si ritiene non contaminati seppur con il rischio di essere scacciati dagli scrupolosi custodi di casali e di villaggi.
La pestilenza, scrive Marco Lanni, ridusse Napoli in un cimitero «con la morte di circa 400mila de’ suoi cittadini ed invadendo tutte le province, tranne la Puglia e le Calabrie, in meno di sei mesi portò da per tutto desolazione ed esterminio»3.
«Non è un caso, quindi, che le prime località contagiate fossero quelle ubicate in Terra di Lavoro, le più vicine alla capitale. Da Terra di Lavoro, poi, la peste si propagò in direzione nord e in direzione sud, fino a toccare territori lontani da Napoli. Inoltre, a mano a mano che la peste avanzava, le popolazioni iniziarono ad allontanarsi dalle terre colpite e ben presto, alla diaspora dalla capitale, si aggiunse quella non meno pericolosa da un territorio a un altro del Regno. E nonostante fosse stato proibito a chiunque di andare a vivere altrove4, molti non porsero orecchio ai divieti e quindi o si trasferirono in campagna o addirittura si spinsero in altri centri della stessa o di altre province»5.
Tra le altre, una delle più frequentate pare sia la strada per San Germano, ovvero quella che da Capua resta dell’antica via Latina. Tant’è, scrive Salvatore De Renzi, che «chi va da Napoli a Montecassino per la vecchia strada, percorrendo il tenimento di Cervaro, vede di rincontro schierate sul dorso delle colline frequenti gruppi di macerie, soli avanzi della grossa terra di Forchia, che ha lasciato a quel monte il suo nome»6.
Evidentemente il Duca di Sora non ignora questa situazione che, di conseguenza, accresce la sua angoscia sulla decisione da prendere.
Ugo, IV duca di Sora, è figlio di Gregorio I, che ha quattro fratelli di cui uno, Francesco, cardinale, e di Eleonora Zapata, un cui zio era il cardinale di Toledo. Lui stesso, peraltro, cioè Ugo, ha un fratello, Girolamo, cardinale di Bologna, e due delle quattro sorelle, Maria e Cecilia, suore. Se mettiamo in conto che il capostipite della famiglia era papa Gregorio XIII, che lo stesso Ugo era destinato alla carriera ecclesiastica, cosa che però non avvenne perché, prima a seguito della morte del padre e poi di quella del fratello Giacomo, per forza di cose fu destinato alla gestione degli affari di famiglia, e che, in ultimo, dei dodici figli avuti da Maria Ruffo, sua moglie, uno, Francesco, era ecclesiastico e governatore della Sabina, e un altro, Giacomo, cardinale, alla luce di tutto ciò, inevitabilmente la soluzione migliore per fronteggiare il paventato timore provocato dal dilagare della pestilenza non poté non essere che quello di invocare la protezione divina.
Del resto, fa notare Salvatore De Renzi, «in molte parti del Regno erano respinte tutte le provvidenze consigliate dalla scienza, e l’unico consiglio che veniva accettato era di adoperare le processioni di penitenza, il digiuno, le straordinarie opere religiose»7. Nel nostro caso, invece, Ugo Boncompagni fece voti alla Madonna di Loreto affinché preservasse dall’epidemia in corso le sue terre, ma soprattutto chi le abitava, promettendo in dono una lampada d’argento con la garanzia di mantenerla sempre accesa.
Si trattava, in sostanza, di un impegno economico quantificato in circa 600 ducati iniziali e 30 annuali8, in gran parte (400 iniziali e 10 annuali) a carico del duca e, per il resto, dei vari Stati. A dare alla promessa il crisma dell’ufficialità, ovvero che tutti si impegnassero a rispettarla, il 16 luglio 1856 ci fu ad Arpino una solenne cerimonia nel corso della quale il camerlengo ed uno degli ufficiali dell’Università prestarono giuramento dinanzi al Ss.mo Sacramento della chiesa di San Michele Arcangelo e, una volta inviata la lampada al Santuario di Loreto, si impegnarono, per il tempo a venire, ché «il giorno dell’ammirabile traslazione di quella Santa Casa si guardi in Sora come festa solennissima di precetto»9.
Se della lampada non si conobbe né la collocazione né la sua fine, non può non affermarsi che il territorio, fu in gran parte preservato dalla epidemia incombente e che, da allora, la devozione verso la Madonna di Loreto è stata sempre intensa e costante10. Nel senso che quell’atto di devozione e di fede da parte di Ugo Boncompagni dovette pur servire a qualcosa se, a quanto pare, i comuni sia della diocesi di Aquino che di quella di Sora dalla pestilenza non ebbero a subire ripercussioni negative.
Peraltro, se Pico e San Giovanni Incarico, ma anche Ceprano e Pastena11, ne uscirono addirittura del tutto indenni – scrive Pasquale Cayro «non furono attaccate da questo pestifero male San Giovan: Incarico, e Pico»12 – non ne mancarono, tuttavia, altri che, al contrario, subirono pesanti conseguenze in termini di vite umane.
In assenza di altre informazioni, pare che la prima epidemia seria, e documentata, a coinvolgere il territorio sia stata la peste detta «di Giustiniano» che si manifestò, appunto, durante il regno di questo imperatore (527-565), in particolare tra il 541 e il 542, per riproporsi poi a ondate, fino al 750, e provocando, si dice, circa 25 milioni di decessi, anche se vi è chi li quantifica in cento milioni.
A questo tragico evento potrebbe ricollegarsi la profezia di San Costanzo, vescovo prima e poi patrono di Aquino, fatta in punto di morte, quando rispondendo a chi gli chiedeva «Padre, chi avremo dopo di te?» lui avrebbe risposto: «dopo Costanzo uno stalliere; dopo lo stalliere, un tintore di panni. Abbiti ancor questo, o Aquino»13.
E, infatti, ad avvicendarsi sulla cattedra vescovile furono dapprima Andrea, che era stato in passato uno stalliere, e, dopo di lui Giovino, in precedenza tintore di panni. Poi, scrive Vincenzo Fenicchia, «dopo la morte di lui», scrive Vincenzo Fenicchia, «non si trovò più né chi fosse vescovo, né chi alcuno dovesse esserlo. Si adempì così quanto l’uomo di Dio (cioè Costanzo) aveva annunziato: dopo la morte dei suoi due successori, la sua Chiesa non avrebbe avuto più alcun pastore»14.
Ma al di là di questo episodio, una conferma inequivocabile è quella che circa una quindicina di anni orsono è emersa dagli scavi archeologici condotti a Madonna del Piano, in agro di Castro dei Volsci, dove furono scoperte diverse tombe risalenti al VI secolo. Si trattava di vere e proprie fosse comuni in ognuna delle quali erano stipati anche venti cadaveri posizionati in un incastro perfetto per risparmiare quanto più spazio possibile. Insomma, una imponente testimonianza degli effetti devastanti della «Peste di Giustiniano», causa della morte di tutte quelle persone, come poi scientificamente acclarato.
Del resto, che questo territorio fosse soggetto a certi eventi calamitosi, era, come dire, “nell’aria”. Fatta salva l’epoca romana, quando (forse) regnava un certo ordine, nei tempi a venire un degrado ed un impaludamento piuttosto generalizzati costituivano un pericolo latente. Lo ricorda Luigi Fabiani il quale scrive che «per un arco di due secoli una spaventosa procella di tristi avvenimenti e di fatti calamitosi si abbatté sul Monastero (Montecassino, nda) e lo porta allo stremo della sua desolazione, e sconvolge la vita dei paesi soggetti, danneggiandoli gravemente ed infliggendo loro infinite, indescrivibili sofferenze»15. Pestilenze, soprattutto: una tra il 1526 ed il 1529, un’altra nel 1576 ed un’altra ancora nel 1636.
Del resto, il marchese Giacomo Boncompagni, che aveva acquistato la contea di Aquino nel 1583, tempo dopo si vide costretto a prosciugare quelli che erano stati i laghi di Aquinum, le cui acque stagnanti erano all’origine di negativi effetti igienico-sanitari, regolamentando il corso delle Forme che, oltre a piccole sorgenti, li alimentavano.
Erasmo Gattola16, dal canto suo, ricorda che nel 1622 una carestia di notevoli proporzioni contribuì a far lievitare il costo del grano e del granone e che nel 1631 e nel 1632, quando il 3 giugno cadde una grandinata di una tale portata che non se ne ricordava a memoria umana, le molto precarie condizioni atmosferiche consentirono ai contadini di poter trarre dal raccolto appena il minimo sostentamento. Qualcosa di analogo sarebbe poi tornato a verificarsi tra il 1650 e il 1652.
Ancora Fabiani ci dice che «Trocchio, ripopolato dopo il terremoto del 1349, a causa della pestilenza del 1526-29 e del 1576 si ridusse a pochi abitanti che chiesero di essere aggregati all’Università di Cervaro. S. Pietro in Monastero (antica Casinum) e Pignataro furono uniti a S. Germano, Piumarola a Piedimonte, Giuntura a S. Apollinare, Vandra ai paesi limitrofi, Cardito a Vallerotonda, Casalcassinese ad Acquafondata, Saracinisco, a causa delle pestilenze suddette, rimase senza abitanti sino al 1679, quando i monaci ne iniziarono il ripopolamento portandovi sei famiglie di Picinisco»17.
Per i tempi a noi più prossimi, Benedetto Scafi ci ricorda che a Santopadre, dove la media annuale dei morti si aggirava sulle 44 unità, aumentò sensibilmente «negli anni penuriosi del 1763, in cui ne morirono 79; del 1764, in cui su una popolazione ridotta a 1540 anime ne morirono 294, ossia poco meno del quinto, del 1796, 1797 e 1803, in cui per l’influenza epidemica morirono 88 nel primo, 94 nel secondo e 100 nel terzo»18 e poi, ancora 133 nel 1817 per una carestia e 74 nel 1837, «per l’invasione colerica»19, 74, cifre, beninteso, che comprendono anche coloro che cambiarono aria ed emigrarono altrove.
Achille Spatuzzi ci ricorda, poi, che oltre l’epidemia colerica del 1867, quando i luoghi più flagellati furono Roccasecca e Villa Santa Lucia20, le «febbri castrensi che nel 1798 decimarono l’esercito del re Ferdinando Borbone» che, «per osteggiare l’ingresso dei Francesi era accampato [sia] nella pianura di Aquino»21. Si trattò, scrive mons. Rocco Bonanni, di «una tremenda epidemia si sviluppò fra i soldati borbonici dislocati fra Aquino, Arce, Roccasecca, Roccasecca ed Isoletta: ne perirono 17.000!» 22.
«Crebbe a segno, che penetrò fra quei naturali», ricorda Giambattista Germano Grossi. «Si comunicò in Sora, in Alvito, in S. Germano, e in altri luoghi. Durò ostinatamente per più mesi, e mancaron di vita più migliaja di Militari (si parla di oltre 17.000 unità, nda), e de’ Pagani. Solo in Arce per l’aria benefica, e per l’ottimo nutrimento non vi fu neppure un infermo. S.M., che portossi personalmente in Arce a far la revista di quella truppa ne rimase estremamente contenta»23.
Per non dire dei terremoti, tra i quali quello che nel 1349 distrusse l’Abbazia di Montecassino. E, quindi, tra gli altri, uno, il 23 luglio 1654, d’intensità 9.524 che, ricorda Pasquale Cayro, «cagionò non solo spavento, ma ancora fé moltissimo danno, ed il maggiore di tutti, da quei dello Stato di Alvito, di Sora, ed anche di Roccaguglielma»25. A Ceprano, invece, ricorda Roberto Jacovacci, «fece solo balzare dal letto ed uscire all’aperto gran parte della popolazione. La mattina seguente clero e popolo fecero una processione di penitenza e la statua di S. Arduino fu portata devotamente alla contrada Portone, sotto l’arco a lui dedicato»26.
Tempo un paio d’anni, segno che le disgrazie non capitano mai da sole, come del resto è accaduto nei giorni del “coronavirus”, quando, di tanto in tanto, si legge nei “serpentoni” dei telegiornali di qualche scossa tellurica avvenuta qua o là, tempo un paio di anni, dicevo, e, nel 1656, «dopo il terremoto venne la peste, che in Napoli, ed in altre contrade del Regno cagionò la morte a tante migliaia di persone e giunse fin’a Monticelli, Casale di Roccaguglielma27, e salve furono le altre popolazioni della Diocesi presso lo Stato Ponteficio»28.
Ludovico Valla29, un medico di Venafro protagonista in prima persona di quella esperienza, che ne attribuisce la responsabilità «al Vicerè di quel tempo, che diede ingresso in Napoli nel torrione del Carmine ad alcuni soldati spagnoli, che fece venire dalla Sardegna sospetti di Peste, senza farli purgar la quarantana prima del sbarco», ricorda che «molte città, e terre, che furono avvertite a non dar commercio à persone sospette, e forastiere, furono libere, et esenti dal su detto male. E del contorno vi furono S. Germano città, S. Elia, Cervaro, Presenzano, Vairano, La Pietra, Prata, Pratella, Lo Gallo, Colli, et altre Terre. Patirono assai S. Vittore, S. Pietro in fine, Sesto, Piedimonte d’Alife, Capriata, Monteroduni, Isernia, Scappoli, Castelnovo, Viticuso et altre terre». Come lo Stato di Sora, che, «con quello d’Alvito si mantennero intatti».
Secondo Domenico Celestino si disporrebbe «di cifre precise soltanto per S. Donato, che passò da 2.344 a 640 abitanti»30, mentre, per gli altri paesi della Valle di Comino, «il confronto dei censimenti fiscali del 1649 e del 1670 dimostra dappertutto un evidente calo del numero dei fuochi ridotti da 524 a 282 ad Alvito e da 131 a 114 a Gallinaro». Dove, peraltro, scrive ancora Celestino, «è ancora oggi ricordata in una iscrizione incisa sulla casa Bevilacqua in Piazza Umberto I e curiosamente ripetuta sul rovescio del fondo di un cassetto di un antico mobile del dott. A. Zeppa».
Gattola scrive che si contarono 450 vittime a Sant’Apollinare, 247 a Sant’Andrea, 164 a Pignataro e 83 a San Giorgio31. Ed altre ancora ve ne furono ad Ausonia, Coreno Ausonio, Roccaguglielma e nei suoi casali.
Ad Ausonia, che a quel tempo ancora di chiamava Fratte, se nel 1634 c’erano 1.478 abitanti, nel giro di una quarantina d’anni, essi si sarebbero ridotti a meno di mille (842): insomma, tra giugno e settembre, la peste avrebbe ucciso, oltre 12 dei 14 sacerdoti presenti nella comunità, almeno settecento persone.
Giampiero Di Marco, autore di una corposa e dettagliata ricerca su quella pestilenza, scrive: «Il parroco Muzio Leo che sopravvive alla malattia ed è ancora vivo nel 1658, annota frettolosamente soltanto il nome e cognome del defunto, a volte aggiungendo il fatto che muore ab intestato e il luogo della sepoltura.
«I cadaveri sono stati in genere inumati nelle chiese di S. Angelo, S. Sebastiano a Rotondoli, S. Francesco e S. Nicola.
«Si tratta di chiesette una volta esistenti in campagna e che oggi sono scomparse o distrutte. Una leggenda popolare parla ancora di morti sepolti in una fossa comune nell’orto della chiesa di S. Angelo, dove esiste anche una cappella dedicata alle Anime del Purgatorio.
«Il primo morto sospetto di peste è Girolamo Balestra che muore il 2 giugno ab intestato e confortato dei sacramenti, mentre il 6 muore Aurelia figlia di Bartolomeo de Juliano e lo stesso giorno l’ospitaliere, o infermiere, di S. Maria del Piano (…), Domenico di Rocca»32.
Per ciò che accadde a Coreno Ausonio, invece, c’è la testimonianza di un altro sacerdote del tempo, don Francesco Ruggiero junior, il quale annota: «Cominciarono a morire di maggio, ad uno ad uno, ed essendo arrivati lì 20 giugno ne morirono tre, nel qual giorno furono seppelliti l’Arciprete Lopez e Don Francesco Ruggiero, mio zio. Da quel giorno cominciò ad avanzarsi la morte che morivano 15-18-24 al giorno… Durò tale strage fino alli 16 di agosto, nel qual giorno morirono sette persone e non più»33. Alla fine, i morti sarebbero 53734, «senza di quelli», precisa don Ruggiero, «che non erano di letto, secondo il libro delli defunti, però io credo che erano più perché molti furono sotterrati in campagna e non si trovano annotati». Il sacerdote, in sostanza, ritiene che quest’ultimi siano stati almeno 234, cifra che, sommata alla precedente, farebbe ascendere il totale dei morti a 771, la qualcosa sarebbe all’origine del notevole taglio del numero degli abitanti ridotto ad appena 314 unità dai 1085 del tempo precedente alla peste.
A Coreno Ausonio l’epidemia si sarebbe protratta tra gli inizi di giugno e la metà di agosto mentre tutt’altra cosa sarebbe accaduta a Roccaguglielma, ed in particolare a Monticelli, dove il morbo si sarebbe prolungato intorno ai sei mesi. Addirittura, secondo Cayro, il contagio «non ancor era cessato a ventiquattro Decembre mille seicento cinquantasette»35, provocando in tutto più di cinquecento morti. Peraltro, la drammatica situazione di Roccaguglielma avrebbe allarmato gli abitanti di Pico e di San Giovanni Incarico, come si è detto rimasti immuni, a tal punto che essi sollecitarono il comune signore36, ovvero «S.A.S.E. il Principe Neoburgo», perché fosse impedito «il traffico a Roccoguglielmani, ed a que’ de’ suoi Casali San Pietro, e Monticello, come infettati di contagio»37.
Sta di fatto, ricorda Giampiero Di Marco, che quando l’8 aprile 1660 l’abate di Montecassino Angelo della Noce si recò in visita a San Pietro in Curulis lo trovò quasi del tutto spopolato tant’è che secondo lo stato delle anime del 1693 i suoi abitanti si sarebbero ridotti a poco più di 30038.
Quanto, invece, al numero delle vittime, lo stesso Di Marco, anche lui scettico a proposito della durata delle peste riferita da Cayro, nell’indagare fra i registri delle chiese di Esperia per cercare di quantificarne il numero, in quello dei morti della Collegiata di Santa Maria Maggiore non è andato oltre un allegato di un paio di fogli extra sui quali erano annotati i nomi di 79 deceduti tra il 9 ottobre il 31 dicembre 1656 ed altri 8 ancora a tutto il mese di marzo del 1657. E, oltre questo, poco altro.
C’è da dire ancora che, nel caso di Roccaguglielma, la tragedia ebbe un risvolto positivo. Infatti, soprattutto al fine di attenuare la pressione fiscale, certo barone Enrico de Gesen, riferisce Alfonso Parisse39, si sarebbe rivolto al re per chiedere un censimento in base al quale rivedere i conti della comunità in considerazione del diminuito numero degli abitanti. E dai risultati – era il 1663 – sarebbe emerso che la popolazione si era ridotta a soli 410 fuochi, cioè famiglie (di cui 185 residenti a Roccaguglielma, 156 a Monticelli e 69 a San Pietro in Curulis) a fronte dei 723 fuochi censiti nel 1595.
Ma non fu l’unica nota positiva ascrivibile al signore del tempo. Racconta, infatti, sempre Parise, che il principe Giovanni Guglielmo, suo primogenito, nel 1676 mentre tornava in Polonia da un viaggio in Terrasanta, «durante una sosta a Napoli volle spingersi fino a Roccaguglielma, di cui tanto aveva sentito parlare e anche per il piacere di conoscere personalmente il feudo dei Neoburgi»40. Accolto con i dovuti onori dalla popolazione, nonostante ciò, al principe non sfuggì che essa era ancora sofferente per i postumi delle calamità di una ventina di anni prima. Cosicché, resosi conto della pesante situazione finanziaria che gravava sulla comunità, promise che avrebbe fatto di tutto perché il padre annullasse l’oneroso credito, qualcosa oltre 175mila ducati, vantato sia su Roccaguglielma che su San Giovanni Incarico. La promessa, mantenuta, fu certificata con una lettera da Neoburgo del 10 maggio 1679. Dal canto loro, a Roccaguglielma pensarono bene di tramandare il ricordo del munifico gesto «su una lastra di ardesia murata sulla facciata della chiesa madre che guarda piazza Guglielmo»41 mentre, dal canto suo, «il roccano Domenico Antonelli, Consigliere d’onore del Principe, donò alla Chiesa collegiata la croce parrocchiale, un calice d’argento, un paramento di lana d’oro con piviale, tonacelle, pianeta e tovaglia per altare»42.
Nella tragiche vicende di quei giorni, oltre la Madonna di Loreto, anche San Rocco, il santo più invocato nell’Europa del Medioevo per debellare la peste, dovette trarre ulteriore notorietà: se ad Esperia, nella chiesa Collegiata, una statua lignea del Santo potrebbe essere la residua testimonianza della presenza di un altare dedicato alle anime del Purgatorio, ovvero proprio alle vittime della peste, a Monticelli egli beneficia addirittura di una cappella a suo nome, nome che, peraltro, avrebbe privilegiato molti dei nati nella località tra il 1656 e il 1657. Ma chiese intitolate a San Rocco sono sparse un po’ in tutto il territorio (da Acquafondata ad Alvito, da Ceprano a Pico e Pontecorvo, dove pare esistessero due chiese dedicate al Santo, una a Civita e l’altra nell’omonimo rione43, da Rocca d’Arce a Roccasecca, da San Donato Val Comino a San Giovanni Incarico, da Sant’Oliva di Pontecorvo a Sora44) come parimenti diffuse sono le statue che lo raffigurano (Aquino, Arce, Terelle).
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NOTE
1 Sora, 19 luglio 1614-29 ottobre 1676.
2 C. Celano, Notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli per i signori forastieri date dal canonico Carlo Celano napoletano, divise in dieci giornate. Napoli 1692
3 M. Lanni, Sant’Elia sul Rapido. Monografia, Tipografia Virgilio, Napoli 1873, p. 42.
4 Con bando del 20 ottobre del 1656 si disponeva che nessuno lasciasse la propria residenza ad eccezione di chi si muoveva per motivi commerciali, purché provvisti dei bollettini di sanità, o di alcuni nobili (ASN-2, fascio 36, fasc. 58), cit. in I. Fusco, La peste del 1656-58 nel Regno di Napoli: diffusione e mortalità, in «SIDeS», Popolazione e Storia, 1/2009, p. 126.
5 Ivi, pp. 115-138
6 S. De Renzi, Napoli nell’anno 1656, Tipografia di Domenico De Pascale, Napoli 1867, p. 84.
7 Ivi, p. 86.
8 Apportato alla valuta odierna, si stima che 1 ducato napoletano avesse il potere di acquisto di circa 50 euro (fonte: www.lamoneta.it).
9 A. Magliari, La Madonna di Loreto protettrice di Arpino. II edizione. Soc. Tip. A. Macioce e Pisani, Isola del Liri 1927, p. 10.
10 Nel contesto dell’emergenza provocata dal coronavirus, nella seconda metà del mese di marzo 2020 sui cosiddetti social si è diffusa la voce, poi risultata falsa, di un pellegrinaggio della statua della Madonna di Loreto sui cieli d’Italia con il conforto di una vecchia immagine che ritraeva la stessa statua all’interno di un P72A dell’Aeronautica Militare scattata, però, tempo prima nella base di Sigonella, in Sicilia.
11 R. Jacovacci, Da Fregellae a Ceprano. La storia del mio paese, Ceprano 1970, p 194.
12 P. Cayro, Storia sacra e profana d’Aquino e sua Diocesi, Presso Vincenzo Orsino, Napoli 1808, p. 292.
13 Grégoire Le Grande, Dialogues, I: Texte critique, bibliographie et cartes par A. de Vogüé; II (Livres I-III): Texte critique et notes par A. de Vogüé, Traduction par P. Antin; III (Livre IV): Texte critique et notes par A. de Vogüé, Traduction par P. Antin, Index et tables, (= Sources Chrétiennes 251, 260 e 265), Paris 1978-1980, Libro II, capitolo III, 8, 1-2.
14 V. Fenicchia, Bibliotheca Sanctorum, Volume IV (pp. 262-263), Roma 1964.
15 L. Fabiani, La Terra di San Benedetto, Volume III, Montecassino 1980, p. 12.
16 E. Gattola, Historia, p. 749.
17 L. Fabiani, op. cit., p. 16.
18 B. Scafi, Notizie storiche di Santopadre, Tip. di Carlo Pagnanelli, Sora 1871, p. 33.
19 Ibidem.
20 A. Spatuzzi, Saggi di topografia e statistica medico-storica (Effetto sulla Valle del Liri), Tipografia della Gazzetta di Napoli, Napoli 1871, p. 40.
21 Ivi, p. 22.
22 R. Bonanni, Monografie storiche. F.R.E.S.T. Fabbrica Registri e Stab. Tipografico, Isola del Liri 1926, p. 202.
23 G.G. Grossi, Lettere istorico-filologiche-epigrafiche e scientifiche illustrative delle antiche città de’ Volsci indi Lazio Nuovo. Volume II. Ristampa dell’Edizione di Napoli 1816 (presso Domenico Sangiacomo) a cura della Sezione di Arce dell’Associazione Nazionale Carabinieri, 1996, pp. 158-159.
24 Dal Catalogo Sismico dell’Istituto Nazionale di Geofisica.
25 P. Cayro, op. cit.
26 R. Jacovacci, op. cit., p. 194.
27 Non si cita San Pietro in Curulis perché in quel tempo non ricade nella Diocesi di Aquino ma è sotto la giurisdizione spirituale dell’abbazia di Montecassino.
28 P. Cayro, op. cit.
29 Scoperta da Gennaro Morra, questa memoria di Ludovico Valla sulla peste di Venafro del 1656, fu pubblicata su Almanacco del Molise 1975 di Enzo Nocera (anche per la successiva citazione).
30 D. Celestino, …Venti secoli sulla collina. Edizioni centro Studi Cominium – P. M. Iacobelli, Casalvieri 1980, p. 54 (anche per le successive citazioni).
31 E. Gattola, op. cit., p. 746.
32 G. Di Marco, Terra di Lavoro nell’anno della peste, Arte tipografica, Napoli 2002, p. 287.
33 G. La Valle, Storia di Coreno, Edizione a cura di Giuseppe Parente, Comune di Coreno Ausonio 1984, pp. 53-69 (anche per la successiva citazione).
34 I nomi di 528 di essi sono pubblicati nel citato libro di Giuseppe La Valle secondo «la mesta e lunga nota» redatta dal sacerdote don Carlo Luca. Quanto ai nove nomi mancanti, la cosa potrebbe attribuirsi a qualche foglio andato disperso. Il curatore della pubblicazione evidenzia poi l’inesattezza in cui sarebbe incorso don Ruggiero secondo il quale le prime vittime della pestilenza ci sarebbero state a maggio quando, invece, dal citato elenco il primo morto, Alessandro Di Siena, risulta registrato il 5 giugno.
35 P. Cayro, op. cit., pp. 292-293.
36 Sia la terra di Roccaguglielma e suoi casali che quella di San Giovanni Incarico e Pico, già della famiglia Della Rovere e poi della famiglia Farnese, dal 1636 era sotto la giurisdizione del re di Polonia Ladislao VII.
37 P. Cayro, op. cit., pp. 292-293.
38 G. Di Marco, op. cit., p. 293.
39 A. Parisse, Memorie di un vecchio Castello, Tipografia di Casamari 1961.
40 Ivi, p. 172.
41 Ibidem.
42 Ivi, p. 173
43 M. C. Carrocci, Pontecorvo sacra, Archivio storico di Montecassino, Studi e documenti sul Lazio meridionale, 10, 2010, p. 245.
44 Fonte: Web.
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