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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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di Francesco Gigante
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I Longobardi vennero in Italia nel 568 d.C.; occuparono poco a poco tutta la pianura padana, poi una parte di essi si spinse fino a Spoleto (Ducato di Spoleto), un’altra scese nel meridione (i Longobardi del sud) per stabilirsi definitivamente a Benevento (ducato di Benevento). Restarono padroni del Mezzogiorno (eccetto Napoli e le città limitrofe ove i Bizantini erano protetti dalle loro flotte) fino all’arrivo dei Normanni (1030-1050), cioè per quattro secoli e mezzo.
Cosa è rimasto di così lunga dominazione?
Apparentemente poco perché alla fine si fusero con le popolazioni locali e con i nuovi venuti, i Normanni.
Sono rimasto scioccato nel leggere un passo dell’opuscolo pubblicato dal «Corriere della Sera» di Sergio Lubello, intitolato Germanismi. L’autore, a indicare l’incidenza dell’elemento germanico sulla nostra lingua, propone al lettore questa frase: «Guardo dal balcone dell’albergo la neve bianca che ricopre il bosco ricco di colori» in cui ben sei parole su nove sono di origine germanica.
«Le parole sono anche tracce, sedimentazione e racconto della storia di un popolo», commenta l’autore. Non è mia intenzione scrivere un saggio sull’eredità dei Longobardi in Italia; me ne manca la competenza e la preparazione.
Vorrei semplicemente rispondere a questa domanda che mi tormenta da sempre: che cosa resta dei Longobardi a Cassino?
Va fatta qualche premessa di carattere storico e giuridico.
Quando Gisulfo nel 744 firmò a Montecassino la famosa donazione della «Terra Sancti Benedicti» non fece una donazione, cioè una cessione di possesso e di proprietà, ma istituì un feudo: feudatario l’abate con tutti i diritti e i doveri dei feudatari. Alla sua morte il feudo tornava libero al concedente. Perciò la prima cura del nuovo abate era di ottenere a sua volta l’investitura per garantire al monastero tutti quei beni di cui già godeva.
La situazione si complicò quando Carlo Magno, vinti i Longobardi a Pavia e mandato in convento in Francia l’ultimo loro re Desiderio, si fece incoronare anche re dei Longobardi. Il feudo di Montecassino passò così sotto la sua giurisdizione e quindi al Sacro Romano Impero.
Ma il Ducato di Benevento entrò nell’orbita del Sacro Romano Impero solo formalmente, perché riuscì a mantenere una sostanziale indipendenza.
Per conseguenze gli abati erano spesso costretti a giurare all’antico e al nuovo padrone o protettore.
Come feudo del Ducato beneventano anche Montecassino, cioè il suo territorio, fu sottoposto alla legge longobarda, anche se mitigata dalla Regola di San Benedetto.
Ne troviamo conferma sia in un riferimento esplicito del Privilegium S. Germani dell’abate Bernardo, sia in un episodio famoso, drammatico, verificatosi nelle isole Tremiti al tempo dell’abate Desiderio. Lo racconta il Cronichon nel Libro III, al cap. 25.
Nelle isole Tremiti c’era un monastero posto dal papa sotto la giurisdizione di Montecassino. Lasciava infatti molto a desiderare per la poca disciplina e per i suoi costumi.
L’abate di Montecassino, Desiderio, si reca nelle isole, e vi nomina abate Trasmondo, figlio di Oderisio, conte de’ Marsi: «Giovane d’indole sana e valido non poco per la prudenza e per studi letterari».
Tornato Desiderio a Montecassino, succede nelle isole una specie di rivoluzione in cui hanno gran parte i monaci. L’abate Trasmondo non perdona. Fa cavare gli occhi a tre dei monaci più anziani, a uno taglia la lingua. Quella condanna suscita orrore in Desiderio e a Montecassino, ma è giustificata dall’arcidiacono Ildebrando, il futuro papa, l’intransigente Gregorio VII, perché era secondo la legge, la legge longobarda s’intende.
Il fatto che l’abate era un feudatario; il fatto che la legge era quella dei Longobardi; il fatto che tanti abati avevano nel sangue il sangue longobardo, tutti questi fattori spiegano perché spesso, gli abati, si comportavano più da monaci guerrieri che da padri dei monaci e dei sudditi come comanda la Regola.
Vedi la violenza con cui l’abate Richerio represse la rivoluzione dei santangelesi.
Ciò premesso, ricostruito il quadro storico, abbordiamo la domanda che ci siamo posti: cosa è rimasto a Cassino della lunga dominazione longobarda? Parlo, beninteso, della Cassino pre guerra. Sorriderete forse se dico che tutta Cassino, cioè la vecchia San Germano, fu longobarda o espressione della civiltà longobarda. I barbari, predoni di Zotone che aveva causato la prima distruzione di Montecassino, s’erano evoluti a opera della chiesa e per l’influsso della civiltà bizantina della vicina Napoli.
La corte del duca di Benevento non mancava di decoro e di splendore. «Questo Arichi per primo si fece chiamare Principe di Benevento, mentre fino ad allora quelli che regnavano a Benevento si chiamavano duchi. Infatti si fece incoronare da vescovi e si pose sulla testa la corona e ordinò che nei suoi documenti si scrivesse a chiusura “scritto nel nostro sacro palazzo”» (Chronicon, Libro I, cap. 8).
Non solo. Arichi, aggiunge il cronista, eresse in Benevento un tempio ricchissimo e bellissimo che chiamò con vocabolo greco «Santa Sofia» (Santa Sapienza).
Questo amore del bello, del sacro, del maestoso non poteva non trovare consonanza e corrispondenza negli abati di Montecassino che spesso erano parenti degli stessi duchi, vedi Gisulfo, vedi Atenolfo, vedi lo stesso Desiderio.
Vediamo questa escalation:
Anno 778 – Theodemar costruisce un gioiello unico di Chiesa: Santa Maria delle cinque torri;
Anno 790 – Gisulfo innalza una grande basilica su 24 colonne intitolandola al S. Salvatore (i due abati scelgono come località le sorgenti del Gari perché il luogo è ameno, dice il cronista, ma soprattutto per l’«abbondanza dei materiali. I resti riutilizzabili, evidentemente del Forum novum. Desiderio comperò a Roma le colonne della basilica di Montecassino, le 24 colonne del S. Salvatore, il cronista non dice che furono acquistate; erano già disponibili in loco!);
Anno 883 – l’abate Bertario decide addirittura di costruire una città nuova intorno alle due bellissime chiese e al monastero adiacente. Ma i lavori già iniziati sono interrotti e mandati in rovina dall’irruzione dei Saraceni;
Anno 1011 – riprende il progetto l’abate Atenolfo, di origine nobile, dice Leone Ostiense, cioè longobardo. La nuova città voleva chiamarla Eulogimenopoli il martire Bertario, trafitto dai Saraceni sull’altare di S. Salvatore, poi prevalse il nome di S. Germano, da una reliquia di questo santo portata dall’imperatore di ritorno da Capua, di cui il santo era stato vescovo. E il nome di S. Germano resterà fino al 1863, quando per decreto regio tornò alla città il nome di Cassino. Ma già prima che sorgesse la città, anno 960, Aligerno costruisce la Rocca Janula a difesa del territorio e del monastero.
Questo fervore di opere, questi gioielli ci lasciò la civiltà longobarda. Andò tutto distrutto dalle bombe alleate e dal furore dei combattimenti dell’inverno del ‘43 e della primavera ’44. Ma il monumento più prestigioso di questa stagione gloriosa fu lo stesso Montecassino.
L’abbazia di Desiderio distrutta dal terremoto del 1349, ricostruita, ristrutturata varie volte nei secoli, ricostruita ancora una volta dopo la devastazione della guerra, è ancora sotto i nostri occhi, è ancora visibile oggi: un enorme rettangolo che si allunga da ovest ad est, con la Basilicata al nord sulla tomba di San Benedetto, le celle e le residenze dei monaci a mezzogiorno, i vari servizi dove li volle il grande abate.
Dovette tagliare la cima del monte Desiderio per ottenere una superficie sufficientemente ampia e livellata, impiegando tanta manodopera perché non disponeva né di seghe elettriche, né di martelli pneumatici, né di tritolo; ma riuscì a costruire un complesso monumentale, unico per il tempo. Sì Montecassino di oggi ci ricorda ancora quel tempo. E Desiderio era parente stretto del duca di Benevento.
Siamo stati grandi proprio al tempo dei Longobardi.
Vorrei chiudere questa carrellata con una nota personale che piacerà forse ai lettori perché nuova e inattesa.
C’è una stradetta a Cassino che serve poche famiglie, ignota alla stragrande maggioranza dei cittadini, che porta ancora dopo tanti secoli il nome di un longobardo. È stata sempre oggetto della mia curiosità e del mio interesse.
Da ragazzetto accompagnavo spesso mia madre quando andava a lavare i panni al grande lavatoio pubblico di «Porta Paul[e]» (così lo chiamavano le donne e così era conosciuto) alimentato da una ricca sorgente che sgorgava nei pressi delle abitazioni dei fratelli Fardelli, a nord di Viale Bonomi, a cinquanta metri sotto la Clinica San Raffaele.
Quel nome mi restò impresso.
Quando fui studente e imparai un po’ di storia, lessi che l’apostolo Paolo venne a Roma per il processo d’appello e per essere martirizzato; mi ricordai di quel «Porta Paul[e]» e mi venne di pensare che forse Paolo era passato per Cassino, vi aveva creato una prima piccola comunità di cristiani ed era passato da quella porta. Traducevo il dialettale «Porta Paul[e]» in «Porta Pauli».
Grande fu la mia sorpresa quando da sindaco dovetti correre sul posto per una questione di fogne. Lessi sul cartellino, all’ingresso della via: «Via Porta Paldi».
Mi rivolsi al collaboratore che mi accompagnava, forse il geometra Gentile, e gli dissi: «Per caso non è che all’ufficio tecnico vi siete sbagliati e avete scritto “Porta Paldi” invece di “Porta Pauli”?». «No» – mi rispose il prezioso collaboratore – «è così dall’anteguerra, è tradizione!». Al sentire «tradizione» mi fermai stupito e domandai: «Chi sarà stato quel personaggio così importante da meritare tanto lungo ricordo?». Scoprii tanto tempo dopo, leggendo e traducendo il Chronicon di Leone Ostiense, che Paldo è un nome longobardo e quasi certamente è quello che di cui si parla nel Libro I al cap. 4, a proposito della venuta a Montecassino dell’abate Petronace, mandato dal papa a ricostruire il monastero dopo la distruzione dei Longobardi di Zotone.
«È noto che l’aiutarono in moltissimi in quest’opera fino alla restaurazione del sito, sia direttamente che per i parenti, tre nobilissimi uomini di Benevento, Paldo, Taso e Tato, fratelli germani».
Probabilmente i tre fratelli abitarono giù a Casinum; ogni mattina uscivano da quella Porta, salivano a lavorare al monastero e tornavano stanchi la sera, come hanno fatto centinaia di operai e di tecnici per ricostruire il monastero devastato dalle bombe alleate.
Poiché erano gentiluomini e generosi avranno aiutato anche gli abitanti del posto, meritando il loro grato ricordo.
C’era una porta; doveva esserci anche una cinta di mura. Era quella della vecchia Casinum o del borgo medievale?
Custodiamo gelosamente quel nome, perché è il nome di un benefattore, non di un oppressore e perché è carico di tanta storia.
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