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«Studi Cassinati», anno 2020, n. 3-4
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Francesco Di Giorgio, Il dopoguerra nel Lazio Meridionale: la ricostruzione, i bimbi di Cassino e Maria Maddalena Rossi, Madre della Repubblica, Centro Documentazione e Studi Cassinati-Onlus, Cassino 2020, pagg. 271, illustr. col. e b./n.; f.to cm. 17×24; ISBN 978-97592-52-5
E’ un paesaggio spettrale quello che accoglie quanto resta delle popolazioni di Cassino e dei comuni limitrofi, situati lungo la linea Gustav, al ritorno nei luoghi abbandonati qualche mese prima per sfuggire alle violenze della guerra. Distruzione quasi totale delle abitazioni e delle infrastrutture, disseminazione di bombe e mine inesplose e la necessità di far fronte alle esigenze quotidiane basilari: acqua pulita, cibo e un riparo per la notte. A ciò va aggiunto l’immancabile esplosione, sempre associata alle guerre, di malattie infettive endemiche e, non trascurabili, quelle portate dagli eserciti invasori. E poi, la fame e quel carico che grava come un peso, un’oppressione inemendabile, sulle vittime delle violenze della guerra e sui loro familiari. E che è tale per chi ha perduto fratelli, sorelle o un genitore al fronte ma che assume dolenze particolari in quanti sono stati/e obiettivi civili della violenza bellica. Di tutto ciò si racconta nel libro, Il dopoguerra nel Lazio Meridionale: la ricostruzione, i bimbi di Cassino e Maria Maddalena Rossi, importante e prezioso che Francesco Di Giorgio ci ha dato. E i suoi meriti e il suo valore vanno ben oltre quello che riuscirò a dire su quest’opera di storia.
Di Giorgio ricostruisce l’epopea straordinaria di Maria Maddalena Rossi, collocandola in quel clima di reale e concreta collaborazione tra tutte le forze politiche, sindacali, che segnò, come mai più sarebbe stato negli anni seguenti, la storia nazionale e ne evidenzia l’impegno all’Assemblea Costituente che elaborò la nostra Carta Costituzionale e l’opera di salvataggio dei bambini di Cassino e dei comuni limitrofi, su incarico della Direzione Nazionale del PCI, che, a migliaia, subivano gli effetti più drammatici del dopoguerra segnato da fame, malattie e abbandono. La sua azione si sviluppò organizzando il loro momentaneo trasferimento e ospitalità presso famiglie, per la gran parte operaie, del nord-Italia e nella raccolta e distribuzione di denaro, cibo, vestiti e ogni altra risorsa vitale per quelle popolazioni che mancavano di tutto. A questo lavoro titanico che la impegnò negli anni tra il 1946 e il 1952, Maddalena Rossi associò l’azione di sostegno, svolta tra innumerevoli ostacoli frapposti dalla Chiesa e dalla classe di governo dell’epoca, a fianco delle vittime delle violenze compiute dalle truppe marocchine inquadrate nell’Esercito Alleato. Il libro è ricco di dati che documentano con rigore l’entità dell’opera compiuta da colei che l’autore nel sottotitolo definisce Madre della Repubblica e il contributo che venne da altre straordinarie figure femminili.
Ma un altro pregio, tra i tanti, va evidenziato di quest’opera. Un valore che si presenta particolarmente cruciale, decisivo. Ed è la riattivazione, il riproporre alla riflessione storica, civile, pubblica, fatti che sono alla radice costitutiva di ciò che pensiamo, di ciò che siamo nell’oggi, nel nostro agire pubblico. E non solo.
Prendo in esame un argomento cui l’autore ha dedicato molto impegno in questa ricerca, quello delle cosiddette ‘marocchinate’.
Fu una vicenda terribile. Centinaia di donne, bambine, e anche molti uomini, furono stuprati, e molti uccisi, dai soldati marocchini che agirono in molte località del Lazio meridionale. Queste azioni delittuose ebbero, da subito, un ‘trattamento’ speciale. Fin dal termine adottato per indicare le vittime abusate: marocchinate. Ora, qui è importante ricordare che le parole non entrano nel nostro quotidiano, nel modo in cui le usiamo per indicare fatti, oggetti, emozioni, in maniera casuale, neutrale o, addirittura, priva di senso. La scelta muove, ha le sue radici, sempre in codici culturali che entrano in gioco e attiviamo più o meno consapevolmente di fronte alla realtà in cui ci troviamo ad agire. In questo caso, tutte queste componenti hanno agito con un’unica finalità oggettiva: rimuovere, occultare, cancellare fin da subito quei fatti terribili e la loro memoria. Definire ‘marocchinate’ piuttosto che ‘stuprate’ quelle donne e bambine aveva, ha l’effetto immediato di alleggerire, addolcire, sfumare fino alla dissolvenza, alla scomparsa, in definitiva, del crimine. Le stuprate non sono indicate col nome della nazionalità degli autori responsabili degli stupri di massa in Bosnia, né tantomeno quelli compiuti dai giapponesi in Cina. Eppure, qui siamo davanti ad una eccezione! Lo stesso dispositivo ha funzionato nel determinare la cancellazione di ogni memoria relativa allo stupro di circa cinquanta donne e bambine, ma anche di alcuni uomini, accaduto nei mesi in cui si svolsero analoghe violenze in altre località del Lazio meridionale, in una frazione di Terelle, alle Ottaduna. Il primo nucleo abitato che si incontra salendo per la strada provinciale da Cassino verso Terelle, appunto. Qui per due giorni, un nucleo di soldati marocchini inquadrati nel contingente alleato francese stuprò l’intera popolazione rimasta nella contrada. Una sola delle donne che aveva subito violenza ha avuto un riconoscimento economico. Di tali fatti non esiste alcuna memoria pubblica; nessuna delle tante Amministrazioni che si sono succedute in questi decenni ha ritenuto opportuno, doveroso, pensare, elaborare un momento di vicinanza, di solidarietà verso quelle vittime. Solo qualche confidenza privata, a bassa voce, avvolta da un doloroso pudore da parte delle ultime sopravvissute o di qualche familiare. Nessuna forma, anche solo simbolica, di risarcimento morale. E ciò sorprende, fino a un certo punto. D’altronde, non è senza significato il fatto che siano dovuti passare 75 anni per avere un momento pubblico, qui a Cassino, sulla immensa figura di Maria Maddalena Rossi.
L’altro tema su cui si è impegnato l’autore è quello della ricostruzione di Cassino e dei comuni maggiormente segnati dai bombardamenti. Una vicenda che fin dai primi passi assume tinte che troveremo onnipresenti in vicende analoghe lungo tutto il corso della storia nazionale, fino ai nostri giorni. Di Giorgio delinea con nettezza il ruolo che l’azione privata (ERICAS), in concorso con il potere politico al governo, svolse nel sottrarre risorse importanti all’opera di ricostruzione generando due effetti drammatici: il sostanziale fallimento della ricostruzione stessa e l’insediarsi di un modus operandi, uno stile di governo della cosa pubblica che ha svolto un ruolo decisivo nelle vicende nazionali e in quella locale lungo tutto il dopoguerra. La documentazione raccolta e presentata in appendice al libro mostra nel dettaglio la messa a punto di una strategia di predazione delle risorse destinate alla popolazione in difficoltà drammatiche che rimanda a vicende del tutto analoghe che in questi giorni occupano le cronache politico-finanziarie legate alla gestione delle autostrade italiane. Un disegno lucido e consapevole, che allora come oggi, con l’uso di strumenti giuridici, spesso elaborati dagli stessi soggetti interessati, trasferisce immense risorse pubbliche in mani private.
Da tale tessitura di fatti e vicende pubbliche e individuali in cui l’autore si muove con naturalezza e maestria non posso fare a meno di sottolineare una nota, come dire, sensuale. Nel senso che rinvia ad una percezione sensoriale che può appartenere solo a coloro che hanno avuto l’opportunità, la fortuna, dal mio punto di vista, di affacciarsi all’impegno politico nelle forme che in Italia sono esistite fino alla caduta del Muro di Berlino. Di questo ‘profumo’ che diffonde da ogni pagina del libro, la nostra generazione, quella giunta alla politica negli anni di Enrico Berlinguer, è stata probabilmente l’ultima a fare esperienza. La vicenda stessa di Maria Maddalena Rossi rende in modo superlativo il concetto che ho appena abbozzato. A quali altezze tale cornice e tale prassi, l’impegno politico, appunto, potevano condurre temi e soggetti che li incarnavano nel loro agire politico e istituzionale.
Ciò di cui si è sentita la mancanza in questi anni di vita intellettuale sommamente asfittica, è stata di una riflessione, condotta in primo luogo da coloro che svolsero funzioni di rilievo in ambiti cruciali per la vita del nostro paese, all’interno dei partiti o in seno alle istituzioni, che muovendo da un esame rigoroso, anche spietato se necessario, sulla propria esperienza che evitasse la cancellazione dall’orizzonte nazionale di un pezzo rilevante della storia politica e sociale del ‘900, quello della democrazia, della repubblica dei partiti, come la definiva Pietro Scoppola.
Questo lavoro va senza dubbio in controtendenza. E di ciò siamo grati a Francesco.
arch. Giacomo Bianchi
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Arturo Gallozzi (a cura di), Territorio, città e archittetura. Montecassino e Cassino, Arte Stampa Editore, Roccasecca 2020, pagg. 335, illustr. col. e b./n.; f.to cm. 21×25; ISBN 978-88-95101-81-1, € 25
Si tratta di un possente volume che testimonia l’attività di ricerca scientifica svolta nell’ambito del DART (Laboratorio di Documentazione, Analisi, Rilievo dell’Architettura e del Territorio) afferente al Dipartimento di Ingegneria civile e meccanica dell’Università degli Studi di Cassino, di cui rappresenta una sintesi divulgativa, e che è frutto di un lavoro collettaneo e miscellaneo. Collettaneo perché vi hanno partecipato innanzi tutto Arturo Gallozzi, ricercatore, che funge anche da coordinatore, e la prof.ssa Michela Cigola, docente ordinario, ideatrice, fondatrice e responsabile del DART, e quindi Marcello Zodan, professore associato, e Franco Fragnoli, dottore di ricerca, tutti dell’Ateneo di Cassino. Miscellaneo perché si compone di sette sezioni nelle quali sono trattati argomenti inerenti la città di San Germano, l’abbazia di Montecassino e la Terra di San Benedetto: le rappresentazioni del territorio; le rappresentazioni grafiche dell’abbazia cassinese, il progetto della tomba di Piero de’ Medici, note costruttive della distrutta cupola dell’abbazia e fulmini su Montecassino; gli elaborati grafici della Cassino prebellica; la ricostruzione postbellica tra elaborati grafici, disegni, sperimentazione, progettazione di edifici pubblici e residenziali; le architetture religiose dei nuovi edifici di culto; la valorizzazione dell’area archeologica e, infine, non poteva mancare un capitolo dedicato alla caratteristiche costruttive dei sacrari militari di Cassino, Montecassino, Venafro e Mignano Montelungo.
Un volume di «ampio respiro» lo definisce il Magnifico Rettore dell’Università di Cassino, prof. Giovanni Betta nella sua Prefazione, un approfondito studio di ricerca che risulta essere un «omaggio» alla città di Cassino e alla sovrastante abbazia di Montecassino, così come scrive il prof. Michele Carbonara de «La Sapienza» di Roma. Dopo aver dedicato la prima metà del volume alla città e al territorio prima che venisse devastato e distrutto dagli eventi bellici del 1943-44, la seconda parte si sofferma, come rileva molto opportunamente il prof. Carbonara, sulle vicende della ricostruzione della martoriata Cassino che non hanno consentito di creare una «moderna e vivibile città». Vengono così ripercorsi i motivi che portarono alla riedificazione di una «realtà» urbana «ambigu[a], né nuov[a] né antic[a]», frutto di un compromesso, «oltretutto incompiuto», tra varie situazioni le quali finirono per offrire «risultati poco esaltanti». La suggestiva ipotesi di lasciare l’area urbana così com’era stata ridotta dalla furia bellica (una monumentalizzazione delle macerie sostenuta anche dal sindaco Gaetano Di Biasio come monito alle generazioni successive) e costruire una città nuova «su aree libere più salubri e sicure anche se relativamente lontane dalla città antica», così come quella di edificarne una ex novo tipo quelle razionaliste nord-europee oppure quelle di nuova fondazione del fascismo nella pianura pontina, finirono per generare forti contrasti nell’opinione pubblica, sulla stampa e nella politica, scontrandosi con una «serie d’interessi economici privati» così con le necessità impellenti dei proprietari che rientrati dallo sfollamento chiedevano la ricostruzione utilizzando le vecchie fondazioni e i materiali di crollo.
A tal proposito il prof. Carbonara esprime la sua critica, in modo signorile ma deciso, nei confronti di alcune scelte adottate in sede di ricostruzione che a causa di «una certa insufficienza culturale delle autorità locali e dei loro uffici tecnici» indussero a operare «frettolose demolizioni» di strutture edilizie anziché provvedere al loro recupero e al loro restauro come accaduto, ad esempio, per la «presiosa [chiesa di] Santa Maria delle Cinque Torri».
Un volume veramente prezioso che si arricchisce di una miriade di foto, tavole, documenti, piante, ricostruzioni planimetriche, disegni di progetto, prospetti ecc. (gdac).
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Rumiz Paolo, Il filo infinito, Feltrinelli, Milano 2019
Ho acquistato questo libro sicura che parlasse di Montecassino e della nostra “realtà benedettina”. Niente di più errato! Ma è un libro affascinante! L’autore, Paolo Rumiz, scrittore e viaggiatore, partendo da Norcia, compie un viaggio tra i vari monasteri benedettini europei per comprendere come il Santo, patrono d’Europa, sia riuscito con la sua Regola a riunire, dal VI secolo, un continente devastato da invasioni barbariche che minacciavano di distruggere la civiltà millenaria che costituiva la ricchezza europea.
«Troppo banale», secondo Rumiz, partire da Montecassino, così decide di visitare i monasteri del nord e centro Italia e di Europa. Non tutti interpretano in modo univoco l’«ora et labora» di S. Benedetto, (alcuni diventano Cistercensi), ma in tutti l’autore trova ospitalità, quella ospitalità, per ogni pellegrino, che il Santo raccomandava ai suoi con la Regola. Per tutti le ore di preghiera sono presenti nella giornata ma il lavoro si presta ad interpretazioni variegate. In alcuni conventi è solo manuale in altri è teso alla conservazione della cultura. Il nostro autore è accolto a Viboldone, il monastero lombardo femminile che si ispira a S. Scolastica (è vero che la madre dei due santi gemelli morì nel partorirli?); visita il monastero di Marinberg, il più alto d’Europa (sorge a 1335 metri), in val Venosta; si reca in quello di San Gallo in Svizzera, dove monaci viaggiatori portarono manoscritti irlandesi e testimonianze di vita italiana. Rumiz è accolto nella rigorosa Abbazia di Cîteaux, in Francia, dove nacque l’ordine dei Cistercensi; va in quella di Niederalteich in Germania dove alcuni monaci, autorizzati dalla congregazione, dicono Messa con rito ortodosso, visita tanti altri monasteri, ognuno con la sua peculiarità ma tutti uniti dalla Regola e dall’essere e sentirsi europei. Il denominatore comune, comunque resta l’accoglienza e l’«ora et labora», quello che permise ai seguaci di Benedetto di unire l’Europa.
Rumiz chiosa: «La fede di quei monaci cristianizzò orde indomabili con la sola forza della Parola. Noi che mostriamo i denti solo a naufraghi e poveracci ne saremmo capaci?……».
Mariella Tomasso
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Gaetano de Angelis-Curtis, Giovanni Moretti. Il sindaco di Esperia che denunciò le «disumane offese di scellerati invasori», Centro Documentazione e Studi Cassinati-Onlus, Cassino 2020, pagg. 137, illustr. col. e b./n.; f.to cm. 17×24; ISBN 978-88-97592-51-8
Cassino 12 novembre 1946, settantaquattro anni or sono, nel corso della riunione dell’assemblea dei sindaci che componevano l’«Associazione dei Comuni dalle Mainarde al mare» (voluta fortemente da Gaetano Di Biasio allo scopo di sovrintendere alla ricostruzione delle aree martoriate dalla guerra), prese la parola il sindaco di Esperia Giovanni Moretti il quale tenne una relazione «accorata, particolareggiata, terribile». E cosa ebbe a dire nel suo intervento tanto da sconvolgere e commuovere l’«intera platea» dei presenti? Giovanni Moretti rimarcò con forza un aspetto ben noto alle autorità politiche e sanitarie italiane e straniere, ben conosciuto dagli amministratori e dalle popolazioni di tutti i Comuni del Lazio meridionale ma che era stato quasi rimosso, quasi dimenticato, sopraffatto da bisogni ed esigenze vitali. Ci volle il suo coraggio perché una questione connessa con il passaggio del fronte bellico che aveva tormentato e tormentava ancora tornasse a essere considerato in tutta la sua gravità. Si trattava delle violenze sessuali patite a opera dei soldati coloniali francesi del Cef (Corps Expéditionnaire Français) dalle donne del suo paese (ma non solo), definite «marocchinate». Ci volle il suo coraggio per denunciare la gravissima situazione di emergenza sanitaria e umana che continuava a vivere la popolazione di Esperia e di altri paesi del territorio. Riferì così le tristissime vicende che attanagliavano Esperia di cui era ben a conoscenza. Nato a Monticelli di Esperia il 23
marzo 1893, Giovanni Moretti era un apprezzato, stimato e noto avvocato che operava tra pretura di Pontecorvo, Tribunale di Cassino e sezione di Sora. Aveva preso parte sia alla Prima guerra mondiale come ufficiale di complemento, sia alla Seconda guerra mondiale raggiungendo il grado di maggiore. Dopo essere stato congedato fece ritorno a Esperia presumibilmente nel corso del 1945. Nel suo paese d’origine poté rendersi conto della difficile situazione che stavano vivendo i suoi concittadini e soprattutto della drammatica vicenda delle violenze sessuali. Divenuto sindaco nella primavera del 1946 iniziò ad adoperarsi per l’attuazione della ricostruzione materiale e il ripristino delle attività produttive locali ma soprattutto si spese con tutte le sue forze (purtroppo per un breve periodo, solo un triennio perché si spense il 19 giugno 1949) per risollevare moralmente, fisicamente ed economicamente le migliaia di donne di Esperia, e non solo, che avevano conosciuto uno dei lati peggiori della guerra, quello delle violenze sessuali, degli stupri subiti da chi era stato tanto atteso e accolto come un liberatore.
Così egli colse la prima occasione pubblica nella quale si trovava in veste di sindaco, quell’Assemblea del 12 novembre 1946, per denunciare la gravità, la drammaticità delle «disumane offese» perpetrate da «scellerati invasori» con parole che, per la loro crudezza e durezza deflagrarono nella riunione con forte impatto sugli altri sindaci i quali non si aspettavano tali rivelazioni. Non si limitò a chiedere il sostegno morale, a sollecitare l’invio di aiuti in medicinali e specialisti, ma si rivolse ai giornalisti che seguivano i lavori e chiese loro di «gridare forte» i fatti accaduti «per la salvezza del popolo di Esperia». Infatti a quell’incontro era presente anche il direttore del settimanale «Il Rapido» il quale pubblicò sul numero della rivista uscito il 28 novembre, oltre al resoconto della riunione, due articoli dedicati al Commovente intervento del sindaco di Esperia e alle Donne “Marocchinate”. Proprio questi articoli fecero da cassa di risonanza e riuscirono a porre la questione nell’opinione pubblica nazionale e internazionale nonché a livello parlamentare.
La redazione de «Il Rapido» fu subissata di telefonate da parte di molti altri periodici che inviarono a Esperia dei loro redattori, dei loro giornalisti a svolgere inchieste per far conoscere, per far sapere a tutta l’Italia cosa fosse successo in quel martoriato lembo di terra.
Il quotidiano «Il Messaggero» mandò il giornalista Corrado Calvo che il 29 novembre 1946 pubblicò un primo articolo in prima pagina dal titolo Martirio delle donne di Esperia mentre un secondo articolo intitolato Non possiamo rimaner soli senza sentirci doppiamente umiliati apparve il giorno successivo, 30 novembre.
La mobilitazione della carta stampata italiana e straniera riportò l’attenzione della questione anche negli ambienti politici del tempo, con deputati che presentarono interrogazioni parlamentari.
In seguito all’«impressionante campagna» di stampa avvita da «Il Rapido» le vicende connesse all’uragano che si era scatenato a partire da Esperia per proseguire nei vari Comuni posti lungo tutto il confine tra le province di Frosinone e di Latina, e che aveva visto ‘protagoniste’ moltissime donne, di tutte le età, dalle giovanissime alle anziane (e non solo le donne), travalicò la ristretta cerchia locale e degli ambienti burocratico-ministeriali.
In breve tempo si concretizzò una straordinaria solidarietà morale e materiale di persone che inviarono a Esperia aiuti in denaro e beni.
Poco dopo anche il Comando militare francese, come sorta di atto di ammissione delle responsabilità, seppure tardivo e insufficiente, si rese disponibile a corrispondere degli indennizzi una tantum alle vittime che avevano subito «danni non di combattimento» da parte delle truppe francesi. Tuttavia si aprì una successiva stagione di proteste e polemiche sulla questione del riconoscimento e pagamento delle indennità per le violenze. Quindi ne seguì un’altra quando le donne violentate chiesero la corresponsione della pensione in qualità di vittime civili di guerra con malumori e malcontenti prodottisi nell’occasione che sfociarono in plateali manifestazioni di protesta. Fu soprattutto l’on. Maria Maddalena Rossi, presidente dell’Udi (Unione Donne Italiane) e parlamentare del Pci che si fece carico della questione delle «marocchinate». Il 14 ottobre 1951 si svolse a Pontecorvo una «affollatissima» manifestazione di protesta nel corso della quale 500 «delegate», in rappresentanza di tutte le donne violentate, per la prima volta parlarono pubblicamente delle violenze subite, senza più vergognarsi. Seguì una interpellanza parlamentare sempre a firma di Maria Maddalena Rossi che fu discussa il 7 aprile 1952, in seduta notturna data la scabrosità del tema. Nonostante la dettagliata relazione dal punto di vista sociale, sanitario, assistenziale e umano esposta dall’on. Rossi che «con grande coraggio» portò nell’Aula del Parlamento il «tema della specificità della violenza sessuale» dimostrando che «non [era] equiparabile a una semplice menomazione fisica e quindi non valutabile secondo i normali canoni pensionistici», alla fine non si giunse al riconoscimento del trattamento di pensione vitalizia per quelle donne. Solo nel 2015, a distanza di 71 anni da quei fatti, un organo istituzione italiano, quel la Corte dei Conti, riconobbe il diritto a una donna violentata il 22 maggio 1944 a essere risarcita dallo Stato italiano.
La questione delle «marocchinate» rimase viva nell’ambito della letteratura e della cinematografia. Nel 1957 Alberto Moravia dette alle stampe il romanzo La Ciociara che fu portato nelle sale cinematografiche tra anni più tardi. Sessanta anni fa, dunque, usciva il film di Vittorio De Sica interpretato da Sofia Loren che nel 1962 le valse l’Oscar quale migliore attrice protagonista.
Gli aspetti biografi di Giovanni Moretti, quelli relativi a Esperia tra guerra e dopoguerra, quelli militari dello sfondamento della Linea Gustav e delle violenze sessuali a opera dei soldati coloniali francesi del CEF, quelli sanitari dei primi interventi, quelli concernenti indennità, indennizzi, risarcimenti, manifestazioni, proteste, il ricordo nel mondo scientifico, letterario, cinematografico e nelle tracce materiali e tanto altro sono presenti in tale volume che è stato premiato con menzione speciale nell’XI edizione del «Premio FiuggiStoria-Lazio Meridionale e Terre di Confine 2020» tenutasi il 26 settembre 2020 a Fiuggi (vedi p. 250).
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