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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 1-2
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di Gaetano de Angelis-Curtis
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Il 2 giugno di ogni anno l’Italia celebra la «Festa della Repubblica» in cui si commemora il giorno-anniversario della nascita della Repubblica, cioè il referendum svoltosi appunto in quel giorno del 1946 quando italiani e italiane (per la prima volta al voto), chiamati a scegliere se confermare l’impianto istituzionale esistente oppure cambiarlo, fecero prevalere, con quasi due milioni di voti in più, la forma repubblicana abbandonando quella monarchica che dall’Unità aveva retto l’Italia. Sulla base dell’esito di quel referendum, in sostanza, l’Italia ha mutato il proprio assetto istituzionale, divenendo uno Stato repubblicano, cui seguì la stesura e l’approvazione, da parte dell’Assemblea costituente, di una nuova Costituzione, entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Va precisato che dagli anni Settanta, la Festa della Repubblica non ebbe più una cadenza fissa al 2 giugno ma variabile poiché con legge n. 54 del 5 marzo 1977 veniva spostata alla prima domenica del mese finché nel 2001, per impulso dell’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, è tornata opportunamente a essere fissata temporalmente al 2 giugno, ridiventato giorno festivo.
Se la data del 2 giugno ha una valenza altamente significativa per la Repubblica Italiana, anche 160 anni fa, per una coincidenza di date fu un giorno di festa nazionale. Infatti domenica 2 giugno 1861 si venne a celebrare la prima «Festa nazionale» cioè la prima cerimonia dell’Unificazione italiana dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia sancita il 17 marzo precedente a Torino. I due eventi celebrativi traggono origine da situazioni profondamente differenti, da una parte la prima festa del Regno l’Italia, il nuovo Stato nazionale che era stato unificato sotto i Savoia, dall’altra la rievocazione del referendum popolare tenutosi nell’immediato secondo dopoguerra che, allo stesso tempo, poneva termine proprio a quell’impianto monarchico assunto 85 anni prima, aprendo così la nuova fase repubblicana. Nonostante ciò essi hanno finito per incidere fortemente sulla vita e sulle istituzioni nazionali e in tutte e due le occasioni il Paese ha inteso celebrare, e celebra tutt’oggi, gli stessi valori di unità e senso di appartenenza.
In tal senso, dunque, forse vale la pena ripercorrere le fasi che portarono alla celebrazione della «Festa dello Statuto» il 2 giugno 1861 con le implicazioni e le ripercussioni socio-religiose determinatesi anche nella diocesi di Montecassino.
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La «Festa dello Statuto» nel Regno di Sardegna
Nel Regno di Sardegna era stato re Carlo Alberto a promulgare, il 4 marzo 1848, la Carta costituzionale passata alla storia come «Statuto albertino» il quale poi transitò, pari pari nel 1861, nel nuovo Stato unitario, il Regno d’Italia, rimanendo tale, pur con modifiche, per un secolo fino all’adozione di un regime costituzionale transitorio dal 1946 al 1948.
Al fine di commemorare la concessione dello «Statuto albertino», nel Regno di Sardegna si giunse con legge 5 maggio 1851 all’introduzione di un evento celebrativo istituendo la «Festa dello Statuto» che, a partire da quell’anno, si tenne ogni seconda domenica del mese di maggio.
A distanza di poco meno di dieci d’anni, gli esiti della Seconda guerra d’indipendenza, scoppiata il 26 aprile 1859 e terminata con l’armistizio di Villafranca sottoscritto tra francesi e austriaci il 12 luglio successivo, determinarono l’allargamento dei confini nazionali sardi. Infatti il Trattato di pace stipulato a Zurigo l’11 e 12 novembre 1859 sancì la cessione da parte dell’Austria della Lombardia (con esclusione di parte della provincia di Mantova) che passava Regno di Sardegna non direttamente ma tramite la Francia. Inoltre quel Trattato disponeva il ritorno dei legittimi sovrani in quei territori da cui erano stati costretti a fuggire mentre erano in corso gli eventi bellici, sostituiti da governi provvisori (anche se nessuno dei regnanti riuscì a tornare in possesso dei propri domini)1, nonché il ristabilirsi dell’autorità pontificia nella parte settentrionale dello Stato della Chiesa. Invece le quattro legazioni della Romagna2 furono invase da due battaglioni dell’esercito piemontese e poi nelle giornate dell’11 e 12 marzo 1860 si svolse il plebiscito che approvò la loro annessione al Regno di Sardegna3.
Fin dai mesi precedenti papa Pio IX4, con due lettere apostoliche5, due allocuzioni concistoriali6 e una enciclica7, aveva provveduto a «riprov[are] e condann[are]» i «commovimenti rivoltosi, eccitati in Italia e guidati ed usufruttuati dalla egemonia che il Governo sardo si attribuì della rivolta, affine di giungere ad una faziosa nazionalità» e allo «spodestamento dei legittimi Principi della Italia centrale»8. Le proteste elevate non ebbero gli effetti sperati dal papa e il Regno di Sardegna poté ampliarsi territorialmente pure a scapito dello Stato Pontificio, anche perché, in cambio della «benevolenza» francese nei confronti delle annessioni delle regioni dell’Italia centrale, i Savoia, con un accordo ratificato il 24 marzo 1860, cedettero alla Francia la contea di Nizza e la Savoia, passate sotto la sovranità transalpina dopo plebisciti tenuti nell’aprile successivo.
L’atto di annessione delle legazioni apostoliche fu giudicato da Pio IX alla stregua di un abuso e di una spoliazione per cui, nel ribadire la necessità del potere temporale, il 26 marzo 1860, a distanza di pochi giorni dallo svolgimento dei plebisciti, con la lettera apostolica Cum Catholica Ecclesia comminò la «Scomunica maggiore sopra gli usurpatori»9 cioè a quanti «avevano direttamente partecipato all’impresa, ai loro mandanti, ai fautori, a chi vi aveva prestato aiuto, consiglio o adesione, stimolo, da sé o tramite altri»10. Quindi un anno dopo Pio IX non volle riconoscere la nascita del nuovo Regno d’Italia avvenuta il 17 marzo 1861 e il giorno successivo riaffermò, con l’allocuzione Iamdudum cernimus, preparata da tempo, che il pontefice «non poteva consentire alla “vandalica spogliazione” del suo Stato»11.
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La «Festa dello Statuto» nell’ampliato Regno di Sardegna
Nel frattempo l’approssimarsi della seconda domenica di maggio del 1860 venne a porre la questione dello svolgimento della «Festa dello Statuto». Alla fine il governo piemontese giunse a stabilire che le celebrazioni si dovessero tenere in tutto i territori sardi sia ma in quelli antichi che in quelli annessi. A tal fine avanzò la richiesta alla Chiesa che nell’ambito delle cerimonie venisse cantato l’inno del Te Deum laudamus12. Tuttavia se dal 1851 negli Stati sardi l’inno era stato cantato «senza tanti scrupoli» nell’ambito delle funzioni religiose celebrate nel corso della «Festa dello Statuto» in quanto esso rendeva grazie a Dio per la concessione della Costituzione conferita legittimamente «da chi avea diritto di farlo», non altrettanto poteva avvenire nel 1860 sia perché all’interno del Regno di Sardegna era stata attuata, nel corso dell’ultimo decennio, un’energica politica di laicizzazione mirante a diminuire i privilegi e l’influsso sociale di cui aveva goduto fino ad allora la Chiesa come l’adozione delle leggi Siccardi del 1850 che aveva portato all’arresto dell’arcivescovo di Torino mons. Luigi Fransoni13, sia perché le quattro ex legazioni pontificie rappresentavano, agli occhi del mondo cattolico, dei territori sottratti al papa, «usurpati cogli inganni e colla forza». Così le gerarchie cattoliche manifestarono una posizione di netta condanna delle richieste pervenute dai «nuovi padroni d’Italia», i piemontesi, paragonati «agli antichi persecutori della fede», opponendo un netto rifiuto a sottostare a degli atti giudicati alla stregua di «solenni violazioni della libertà di coscienza», a dei «sacrilegi», per cui «non vollero celebrar[e] in verun conto» la «Festa dello Statuto»14. Il diniego portò alla carcerazione o alla condanna «a più anni di carcere e a più migliaia di franchi di multa» di cardinali, vescovi e vicari capitolari, mentre altri «Vescovi, e Canonici, e Sacerdoti [andarono] sotto processo e parecchi Professori universitari e qualche altro pubblico uffiziale furono cassi d’uffizio»15. Dal canto suo Pio IX si mostrò «estremamente vicino ai cardinali esiliati»16 mentre fu «piuttosto duro nei confronti di quei pochi vescovi o abati che ritennero opportune le manifestazioni pubbliche di ossequio al sovrano in visita, tra il 1859 e il 1860, nelle rispettive città»17.
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Il clero meridionale e l’Unità
La situazione di conflittualità generale manifestatasi nella primavera del 1860 nelle regioni centrali d’Italia inglobate nel Regno di Sardegna si venne a ripresentare, a distanza di qualche mese, anche in quelle meridionali, in frangenti per di più acuiti dall’avvio della spedizione garibaldina dei Mille, salpati da Quarto nella notte tra il 5 e il 6 maggio, e poi dall’invasione delle regioni pontificie delle Marche e dell’Umbria da parte delle truppe piemontesi che, dopo aver sconfitto l’esercito papalino il 18 settembre a Castelfidardo, avevano incarcerato alti prelati come il vescovo di Fermo, card. Filippo De Angelis18. Dunque anche nei territori dell’ex Regno delle Due Sicilie i rapporti tra clero e autorità politiche, amministrative e giudiziarie del nuovo Stato nazionale si svilupparono, a partire dalla seconda metà del 1860, in modo non uniforme e con situazioni diversificate che oscillavano tra il forte dissenso dell’episcopato e la piena adesione, in particolare, del basso clero o di quello provinciale, con sfumature intermedie. Infatti l’arrivo di Garibaldi a Marsala e la sua risalita verso Napoli avevano finito per suscitare reazioni diverse all’interno del mondo cattolico meridionale. Così da un lato ci furono preti, frati, sacerdoti, persino il «responsabile provinciale di qualche ordine religioso» e padri riformati che risalirono la penisola assieme ai garibaldini o si misero a capo degli insorti, così come a Napoli «c’erano due o trecento religiosi rivoluzionari, dei quali solo una cinquantina appartenevano al clero cittadino». Invece nelle alte gerarchie ecclesiastiche solo una decina degli 89 vescovi titolari delle diocesi meridionali risultavano non essere ostili all’Unità e «appena quattro o cinque favorevoli»19. Si trattava del vescovo di Lecce, mons. Nicola Caputi, di quello di Boiano, mons. Lorenzo Moffa, di quello di Conversano, mons. Giuseppe Maria Mucedola e, ancor più «apertamente e platealmente» (poiché la «la tempestività nello sposare la causa italiana, gli giovò la nomina a Cappellano maggiore») di quello di Ariano, mons. Michele Maria Caputo20, nonché di quello di Alife, mons. Gennaro Di Giacomo. Questi fu il primo tra i vescovi del Mezzogiorno ad avere a Napoli, l’11 novembre 1860, un «lungo colloquio con Vittorio Emanuele II», poi l’anno successivo «invitò il clero diocesano a intervenire alle cerimonie per la ricorrenza dello Statuto» e alla morte di Cavour «celebrò un solenne ufficio funebre per l’anima dello statista». Fu nominato senatore del Regno21 così come avvenne per i vescovi di Cremona22 e Mantova23. Differentemente la maggior parte dell’episcopato meridionale, che aveva già «mostrato di non essere favorevole al regime costituzionale di Francesco II»24, manifestò la propria avversione all’instaurazione della dittatura di Garibaldi e all’emanazione dei decreti dittatoriali dell’11 settembre 1860 sulla abolizione della Congregazione dei gesuiti e sulla nazionalizzazione dei beni delle mense vescovili25. Lo stesso Garibaldi fu additato «non solo [come] un nemico, ma [come] una figura diabolica, una “anima dannata” di cui occorreva bruciare le immagini»26.
Così le alte gerarchie ecclesiastiche, contrarie a qualsiasi forma di mutamento sociale, finirono per entrare ben presto in aperta conflittualità con il nuovo Stato, e, allo stesso tempo, anche con il basso clero, schieratosi in parte con i garibaldini, e, soprattutto, con la popolazione che sperava di ottenere dei miglioramenti sociali dal nuovo assetto27. Proprio a causa di questo forte contrasto, gli episcopi furono «fatti segno a manifestazioni ostili» che si indirizzarono contro il vescovo della diocesi il quale «rappresentava, a ragione o a torto, potenzialmente o di fatto, l’avversario quasi istituzionale della rivoluzione nazionale». L’ostilità popolare, sfociata spesso in disordini che poterono contare su una «più o meno palese copertura delle autorità governative locali»28, nonché gli inviti perentori a recarsi a Napoli, indussero molti vescovi meridionali ad abbandonare per prudenza le proprie sedi29. Nel corso dei mesi di luglio e agosto, e ancor di più in settembre30, si venne a determinare una «vera e propria diaspora dell’episcopato in direzione di Napoli, Roma e Marsiglia» e in altre sedi, soprattutto quelle di estrazione territoriale dei prelati fuggiti per sottrarsi alle sommosse popolari31.
La situazione per le alte gerarchie ecclesiastiche del Mezzogiorno si era andata aggravando a causa del clima di intimidazione e di prevaricazione attuato dal nuovo governo italiano in conseguenza sia del loro manifesto attaccamento alla causa borbonica sia del divieto di celebrare funzioni religiose con il canto di Te Deum di ringraziamento. Si generò così una dura campagna di persecuzione che portò all’esilio e alla carcerazione di cardinali e vescovi per cui furono una sessantina di diocesi resesi «vacanti per l’allontanamento coatto o volontario dei titolari» nel corso del biennio 1860-1861. Nell’ex capitale il card. Sisto Riario Sforza fu espulso per ben due volte32, mentre furono imprigionati il vescovo di Foggia, mons. Bernardino Maria Frascolla, condannato a due anni di carcere e inviato a Como dove fu rinchiuso nel castello; quello di Avellino, mons. Francesco Gallo, «chiamato a Torino ad audiendum verbum»33; quello di Sorrento, mons. Saverio Apuzzo, esiliato a Marsiglia e quindi a Roma; quello di Vallo, mons. Giovanni Siciliani, trattenuto per molti mesi in prigione a Napoli. Gli arcivescovi di Benevento, card. Domenico Carafa, di Reggio Calabria, mons. Mariano Ricciardi, di Gaeta, mons. Filippo Cammarota, nonché il vescovo di Castellammare, mons. Francesco Saverio Petagna, furono costretti ad abbandonare le rispettive sedi diocesane per rifugiarsi a Roma. A Napoli ripararono gli arcivescovi di Amalfi, mons. Domenico Ventura, che vi morì, di Salerno, mons. Antonio Salomone, di Caserta, mons. Enrico de Rossi, di Potenza-Marsico Nuovo, mons. Michelangelo Pieramico, i vescovi di Anglona e Tursi, di Acerra e di Caiazzo dopo essere stati scacciati e derubati al pari dell’arcivescovo di Trani, mons. Giuseppe de’ Bianchi-Dottola, che fu costretto a vivere in clandestinità perché minacciato d’arresto. Ripararono nelle proprie città di origine i vescovi di Chieti, di Ascoli e di Cerignola34. Altre sedi raggiunsero i vescovi di Molfetta, fra’ Lorenzo Moffa, Termoli, Muro, Taranto, Andria, San Severo, Bitonto e Ruvo, Castellaneta, Tricarico, Acerenza e Matera.
In sostanza in quel primo decennio postunitario un clima di forte contrasto si era venuto a instaurare tra il nuovo Stato nazionale e la Chiesa. Vigorose furono le rimostranze del mondo cattolico nei confronti del nuovo governo italiano dovute all’«usurpazione» dei territori dello Stato pontificio con la scomunica maggiore comminata a Vittorio Emanuele, alla «tolleranza» del nuovo Stato liberale «nei confronti dell’anticlericalismo», e, ancor di più, in seguito l’emanazione dei provvedimenti di allargamento a tutte le aree man mano annesse al nuovo Stato della legge di soppressione degli ordini religiosi35 nonché delle «iniziative dirette a colpire i beni della Chiesa» con l’incameramento di molti beni ecclesiastici e con la forte tassazione dei rimanenti36. Quindi la circolare governativa emanata il 26 ottobre 1861 dal ministro di Grazia e Giustizia e «diretta a tutti gli Ordinari del regno», con cui si «stigmatizzava la loro opposizione al governo e il loro ostruzionismo come un elemento negativo che si ripercuoteva non solo sulla società, ma anche sulle condizioni della Chiesa stessa», provocò delle proteste «particolarmente vibranti» da parte dell’episcopato che giudicò l’intervento del guardasigilli alla stregua di un’«indebita ingerenza dell’autorità politica nelle questioni interne della Chiesa». In quei frangenti tutto un complesso di questioni (violazione dei diritti della Chiesa e laicizzazione della società attuata tramite la lotta intrapresa contro gli istituti religiosi, abrogazione dei concordati, frequente vacanza delle sedi episcopali, pretesa che il papa rinunziasse ad ogni sovranità temporale, sforzo di fondare una società priva di ogni ispirazione religiosa), aveva portato Pio IX a opporsi all’«assurda richiesta di una conciliazione con questo sistema»37. Ulteriori proteste, anche se risultarono improduttive, furono elevate in seguito all’emanazione del decreto dell’exequatur (1863), oppure delle leggi sulle ispezioni governative nei vari seminari (1864), sulla leva militare dei chierici (il progetto iniziale del 1864 fu solo ritardato fino all’approvazione del 1869) e sul matrimonio civile (1865)38.
Il conflittuale clima generatosi in quel primo decennio postunitario produsse una ulteriore grave questione quale quella della vacanza delle sedi episcopali. Oltre alle sedi prive dei loro titolari perché incarcerati o perché allontanatisi spontaneamente, il «mancato riconoscimento da parte di Pio IX della legittimità del governo italiano» aveva reso «molto problematica» la nomina dei nuovi vescovi in tutti quegli episcopi che si rendevano via via vacanti. Infatti nel corso del 1863 il pontefice fece una serie di designazioni di «diversi presuli nelle diocesi dei suoi ex Stati anche nell’intento di riaffermare i diritti su di esse», pur tuttavia esse non furono riconosciute dal governo e «nessuno degli eletti poté prendere possesso del palazzo episcopale». La situazione appariva «grave» in quanto «tra vescovi in esilio e sedi vacanti un centinaio di diocesi era governato da vicari generali o capitolari»39 mentre in quelle «scoperte regnava il disordine, i seminari in genere erano chiusi, le rendite della mensa vescovile sequestrate». Quindi nel 1865 Pio IX e Vittorio Emanuele II ripresero i contatti per cercare una soluzione che portò, qualche tempo dopo, «al ritorno graduale dei vescovi in esilio o a domicilio coatto» e così poterono riprendere possesso dello loro sedi «i cardinali intransigenti [e] i molti vescovi meridionali fuggiti»40. Un ulteriore accordo portò a coprire ventotto diocesi41, tuttavia il numero delle sedi vacanti continuava ad aumentare in quanto il governo nazionale non concedeva il necessario «exequatur» ai vescovi «non tanto per motivi politici quanto per ragioni economiche poiché esso incamerava le rendite delle diocesi vacanti e in quei momenti di crisi finanziaria esse costituivano una consistente entrata per l’erario»42.
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La «guerra dei Te Deum»
Il decennale clima di contrasto tra il nuovo Stato nazionale e la Chiesa sviluppatosi nel primo decennio successivo all’Unità aveva avuto il «suo clou tra il 1860 e il 1861». Dopo le allocuzioni concistoriali, le lettere apostoliche e le encicliche emanate da papa Pio IX, la Penitenzieria apostolica aveva provveduto a diramare, l’una dopo l’altra, il 16 novembre 1860 e il successivo 10 dicembre, due Istruzioni che disponevano l’«incompatibilità del magistero religioso con le istituzioni e le leggi dello Stato italiano»43. In sostanza veniva vietato ai vescovi e al clero in generale «di compiere atti che comportassero» una qualsiasi forma «di riconoscimento dei nuovi governanti» (come il giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele II, l’arruolamento nella Guardia Nazionale, l’obbedienza allo Statuto e alle leggi dello Stato poiché in contrasto con la coscienza religiosa), e inoltre si proibiva «di rendere omaggio al sovrano [nonché] di prestarsi a compiere cerimonie liturgiche per ricorrenze civili»44. Uno degli elementi di più forte conflittualità tra la Chiesa e lo Stato è rappresentato dal rifiuto opposto dalla maggior parte degli ordinari alla recita nelle cattedrali e nelle chiese, in occasione della celebrazione di ricorrenze ed eventi connessi al nuovo regime politico, di un «semplice rito» quale quello del canto dell’inno ambrosiano, rifiuto che dette origine alla «cosiddetta guerra dei Te Deum»45.
La contrapposizione toccò il suo apice in occasione della celebrazione della nuova «Festa nazionale» del 2 giugno 1861. Tuttavia il dissidio si manifestò non solo in quella occasione ma in coincidenza con i vari eventi celebrativi tenutisi tra il settembre 1860 e il giugno 1861 quando le autorità civili iniziarono a richiedere la celebrazione di funzioni religiose accompagnate dal canto del Te Deum. Tali furono, ad esempio, quelle volte a celebrare l’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli avvenuto il 7 settembre 1860, oppure a festeggiare l’annessione sancita dai plebisciti46, oppure a commemorare l’ingresso di Vittorio Emanuele di Savoia nell’ex capitale partenopea del 7 novembre 1860 con il rito religioso da compiersi in uno dei tre giorni di festa successivi al 20 novembre47, oppure a inneggiare alla proclamazione del Regno d’Italia avvenuta il 17 marzo 1861. In quest’ultima occasione, in Terra di Lavoro, la città di Santa Maria Capua Vetere celebrò, «con tutta pompa» nella mattinata del 23 marzo, la proclamazione del sovrano a Re d’Italia. Alla manifestazione parteciparono «tutti i magistrati e diversi funzionari» del locale Tribunale, i componenti della Guardia Nazionale, gli amministratori e i dipendenti comunali che, assieme a «molti del paese», si ritrovarono in chiesa dove «in forma solenne [venne] cantato l’inno ambrosiano»48. Ulteriori manifestazioni si tennero fra l’uno e l’altro avvenimento come quelle svoltesi in varie città di Terra di Lavoro in seguito alla caduta della fortezza militare di Gaeta, avvenuta il 13 febbraio 186149. Ad esempio a Capua, come riporta «La colonna di Fuoco», un «giornale religioso-politico compilato dall’associazione di mutuo soccorso degli ecclesiastici dell’Italia meridionale», quando si diffuse la notizia della resa «tutta la popolazione con trasporto indescrivibile proruppe in entusiastiche acclamazioni» con la bandiera nazionale che sventolava dalle finestre al suono delle campane. La festa popolare era poi continuata nel giorno successivo e quindi il 15 nella cattedrale fu cantato il «Te Deum che S.E. il Cardinale celebrò per rendere grazie a Dio del fausto avvenimento»50. Al pari anche a Santa Maria Capua Vetere, così come in quasi tutti i circondari della provincia, come relazionava al dicastero di Grazia e Giustizia di Napoli il procuratore del re del Tribunale il 2 marzo 1861 sulla base dei rapporti redatti dai vari giudici regi, la popolazione aveva festeggiato, «con vero entusiasmo», «la fausta nuova della resa di Gaeta. Ovunque s[i era] reso grazie all’Altissimo col canto in Chiesa dell’Inno ambrosiano, con luminarie ed altri contrassegni di gioia … benanche in soccorsi amministrati ai poveri», e, al pari, era stato «benedetto l’augusto nome del vittorioso Re d’Italia»51. Anche il genetliaco di Vittorio Emanuele II, che era nato a Torino il 14 marzo 1820, fu festeggiato con cerimonie allo stesso tempo civili e religiose. Nonostante l’11 marzo Costantino Nigra, segretario generale di Stato e coadiutore del luogotenente generale nelle provincie napoletane, avesse precisato che quella data non andasse considerata come «giorno di gala né festivo» per cui i magistrati non erano dispensati «dall’obbligo» di tenere «pubbliche udienze nei collegi giudiziari», il 16 marzo 1861 il procuratore del re del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere comunicava che «il giorno natalizio del nostro Augusto sovrano fu da tutti spontaneamente festeggiato». Infatti amministratori comunali, magistrati, alti funzionari e componenti della Guardia Nazionale, «nonostante la dirotta pioggia», si erano riuniti «in Chiesa ove solennemente fu cantato l’inno ambrosiano» mentre «moltissime case vedeansi fregiate della bandiera nazionale», così come «furono dispensati mille pani a’ miserabili, e la sera vi fu quasi generale illuminazione». Insomma anche in quest’occasione, precisava il magistrato, «fu data pubblica e novella testimonianza» del «sentito e deciso attaccamento pel Re Galantuomo»52.
Tuttavia non era stato solo l’episcopato di Capua e Santa Maria Capua Vetere ad aver autorizzato la celebrazione di feste religiose di omaggio al sovrano, prendendovi parte. Ad esempio a mons. Pietro Giannelli, nunzio apostolico a Napoli, rifugiatosi a Gaeta, nell’ottobre 1860 risultava che ugualmente l’«arcivescovo di Trani e i vescovi di Teramo e di Conversano si erano “piegati a cantare un Te Deum” e che qualche altra benedizione era stata pure carpita ai vescovi di San Severo e di Lucera» così come adesioni al nuovo governo provenivano dal «clero di piccoli comuni». A giudizio del nunzio apostolico, «somiglianti atti» si sarebbero potuti moltiplicare «fra il clero, specialmente in forza del timore»53.
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L’istituzione della «Festa nazionale»
Subito dopo l’Unità d’Italia, consacrata a Torino il 17 marzo 1861 quando Vittorio Emanuele II di Savoia divenne re d’Italia «per grazia di Dio e per volontà della nazione», fra le tante questioni che si vennero a porre vi fu anche quella di onorare l’Unificazione appena raggiunta istituendo una specifica ricorrenza celebrativa che compendiasse «in sé medesima tutte le glorie passate dell’Italia pervenuta alla sua unità sotto la monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II». Così al fine di evocare il «più memorabile evento», «sì fausto e sì portentoso», vissuto dal popolo italiano, «redento a libertà», e «costituito ormai quasi per intero in nazionale unità», fu deciso di introdurre su tutto il territorio nazionale un nuovo evento celebrativo chiamato «Festa nazionale». Quindi il ministro dell’Interno, Marco Minghetti, si premurò di depositare il progetto di legge di istituzione della «Festa nazionale» prima al Senato, il 9 aprile 1861, e quindi il successivo 24 aprile alla Camera dei deputati. In sede di dibattito furono superate le perplessità manifestate sull’opportunità di tenere la celebrazione pur in mancanza di quei territori posti ancora «sotto il gioco della teocratica o della straniera dominazione». Infatti, a giudizio dei parlamentari italiani, tali festeggiamenti sarebbero serviti a proclamare «in nuovo e più solenne modo dinanzi al mondo» il diritto dell’Italia di «farsi una e libera» poiché un diritto «quanto è più altamente proclamato, e quanto è più universalmente riconosciuto, tanto è più vicino a potersi tradurre nel fatto». Dunque l’auspicio, anche se poi non effettivamente concretizzatosi, era quello di poter celebrare la seconda «Festa Nazionale» l’anno successivo assieme ai «cotanto desiati fratelli di Roma e della Venezia». Invece nel corso del dibattito di conversione in legge del progetto furono respinte alcune proposte di modifica come quella di lasciare «ai singoli municipi la cura di festeggiare la liberazione e l’unificazione della patria comune nel giorno e nel modo che essi stimassero più acconci, lasciando in loro balìa perfino di fare o non fare la festa». Al contrario, poiché la celebrazione doveva tendere a «manifestare i sentimenti del generale patriottismo» ma, soprattutto, aveva l’obiettivo di «promuoverli» e «confermarli», essa doveva essere quanto più «concorde e solenne» si potesse, per cui ai Comuni d’Italia andava imposto di festeggiare l’Unità, ponendo le spese necessarie nei rispettivi bilanci. Per di più, al fine di far assumere alla festa un «vero carattere civile e popolare», le Amministrazioni municipali dovevano farsi carico di organizzare, in quella giornata, «pubbliche mostre di belle arti e delle industrie locali» accompagnate dalla «rassegna delle milizie e della guardia nazionale», da «esercizi del tiro a bersaglio» e da «opere di pubblica beneficenza»54.
Il progetto di legge fu licenziato dal Senato il 20 aprile55 e con la successiva l’approvazione della Camera, fu convertito nella legge 5 maggio 1861 n. 7 di istituzione della «Festa nazionale». In sede parlamentare ci si era preoccupati anche di individuare una data per la celebrazione. Il Parlamento ritenne che il nuovo evento celebrativo non dovesse tenersi in maggio, il mese in cui si svolgeva nel Regno di Sardegna la «Festa dello Statuto», poiché giudicò quella stagione come la «meno propizia per tenere delle feste popolari». Scartata l’ipotesi che si potesse tenere in una «stagione meno calda», stimò più opportuno fissarla nella prima domenica del mese di giugno56.
Il provvedimento legislativo prevedeva che alla festività venisse dato un aspetto «meramente civile» per cui non faceva riferimento alle funzioni religiose, e, a giudizio del ministro Marco Minghetti, ciò stava a dimostrare la «ferma volontà» delle nuove autorità italiane «di inaugurare il sistema della Chiesa libera in libero Stato». In tal modo, a suo giudizio, l’amore di patria non sarebbe stato un «argomento o pretesto d’ipocrisia o di scandalo» in quanto a quel clero che avesse voluto «santificare colle cerimonie religiose la gioia dei cittadini» era «lasciato il merito precipuo della spontaneità», mentre invece a coloro che «per avventura» avessero creduto «di non poterlo fare in coscienza, non sarebbero stati costretti ad orare ed a predicare» contro le proprie convinzioni57. Infatti con circolare emanata il 6 maggio, il giorno successivo alla conversione, il ministro Minghetti impose a sindaci, gonfalonieri e autorità municipali «di porgere cortese invito all’autorità ecclesiastica affinché piac[esse] ad essa di celebrare con rito religioso il grande evento che fa[ceva] di tutti i popoli d’Italia una sola famiglia»58. Tuttavia la circolare precisava che nel caso in cui «l’Autorità ecclesiastica non [avesse] cred[uto] di poter aderire a siffatto invito», andavano rispettati «scrupolosamente i sentimenti della sua coscienza» e non bisognasse «insistere» ma al diniego delle autorità ecclesiastiche si sarebbe potuto supplire «ove fosse nel territorio del Comune qualche chiesa di patronato municipale e alcun sacerdote disposto a celebrarvi la presente solennità»59.
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La celebrazione della «Festa nazionale» il 2 giugno 1861
La legge istitutiva della «Festa nazionale» aveva finito per fissarne la celebrazione nella prima domenica del mese di giugno che nell’anno 1861 cadeva il giorno 2 per cui, per la prima volta, la nuova celebrazione si tenne in quella data60.
Le alte gerarchie del mondo cattolico avevano mantenuto una linea di fermo diniego a partecipare alla «Festa nazionale» e con l’approssimarsi della data del 2 giugno le autorità ecclesiastiche emisero delle circolari con le quali si proibiva al clero «d’intromettere la religione in una festa puramente politica, pena la sospensione a divinis». Così avvenne, ad esempio, in Lombardia61, dove non mancarono casi in cui l’episcopato locale, «indegnamente provocato», si dovette mettere «in sulle difese»62, e anche nei territori dell’ex Regno di Sardegna63 e dell’ex Regno delle Due Sicilie. Quindi la Sacra Penitenzieria emanò un primo indirizzo con cui si ribadiva il divieto a cantare gli inni dando, però, una qual forma di autonomia a vescovi e ordinari in caso di «minacce», ma poi fece seguito l’«istruzione assoluta del 18 maggio» di inibizione totale.
A causa del rifiuto della gran parte del clero locale ad eccezione di «pochissimi», nella città di Napoli i festeggiamenti per la «Festa Nazionale della Unità italiana e dello Statuto» furono celebrati con il canto del Te Deum solo in tre chiese, di cui una di proprietà del Municipio, un’altra del Ministero e la terza servita dal clero regio, e cioè a S. Lorenzo64, a S. Francesco di Paola65 e a S. Giacomo degli Spagnuoli66 (con il procuratore Paolo Magoldi che definì la celebrazione che si era tenuta come «bellissima e tranquilla»)67 oltre che nella chiesa del carcere di S. Maria Apparente68. Tuttavia il card. Riario Sforza giunse, nell’ambito della diocesi partenopea, a sospendere «a divinis 25 sacerdoti che avevano preso parte alla celebrazione della festa dello Statuto senza la sua autorizzazione»69. Inoltre nel Mezzogiorno si rifiutarono di partecipare alla «Festa nazionale», ad esempio, le autorità ecclesiastiche de l’Aquila, di Campobasso, di Reggio, di Amalfi70 e di Avellino dove, come telegrafava il 29 maggio 1861 il governatore della provincia, i «preti invitati negansi intervenire festa nazionale perché avuta inibizione dal Vescovo che trovasi in Torino»71, anche se il funzionario assicurava che in città «buoni sacerdoti» avrebbero celebrato «nel Duomo ch’è di Regio patronato»72. Pure a Catanzaro, nonostante il divieto, fu celebrata nella Chiesa di S. Francesco di proprietà della Reale Arciconfraternita dell’Immacolata, dal benedettino d. Bernardo de Riso, una messa «con tutta pompa» alla presenza della magistratura che vi si era associata intervenendo in toga73.
Considerati i dinieghi, proprio la celebrazione di «una festa tutta italiana senza chiesa, senza preti, senza Te Deum» aveva fatto prospettare alle autorità nazionali la possibilità di mettere in atto eventuali azioni di ritorsione, tuttavia mai attuate74.
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La «Festa nazionale» tra Sora e Montecassino
Anche in Terra di Lavoro, dove risultavano «prive del titolare 9 sedi vescovili su 13»75, si venne a riproporre la contrapposizione tra la Chiesa e i rappresentanti del nuovo Stato nazionale. Se a Capua il card. Giuseppe Cosenza, dopo averlo già fatto alla notizia della caduta della fortezza militare di Gaeta nel febbraio precedente76, tornò a cantare il Te Deum il 2 giugno77, non pochi problemi si ebbero in altre diocesi limitrofe come quella di Sora, Aquino e Pontecorvo e quella di Montecassino.
A Sora il vescovo Giuseppe Montieri78, «sinceramente borbonico» e «irreconciliabile col nuovo regime», si era rifiutato di aderire all’invito rivoltogli dalle nuove autorità di cantare il Te Deum. Così come aveva già fatto nel 1848, non volle celebrare l’arrivo di Garibaldi a Napoli e vietò qualsiasi «segno di esultanza con luminarie ed altre simili» nella città capoluogo, anche se alla fine fu costretto a far cantare l’inno nella cattedrale79. La conflittuale situazione sociale lo spinse ad allontanarsi da Sora preferendo incominciare la sacra visita nelle parrocchie di Comuni limitrofi. Si portò a Vicalvi dove fu raggiunto da due parroci, d. Gaetano Rufo di San Donato e d. Ignazio Ferrante di Alvito che intendevano sapere come avrebbero dovuto comportarsi nei rispettivi Comuni in merito alla richiesta di partecipazione alle celebrazioni civili. Proprio a Vicalvi il 18 settembre 1860 fu raggiunto da un ordine di arresto emesso a Napoli ma riuscì a fuggire con la connivenza del comandante della Guardia Nazionale locale. Essendosi fatta la situazione pericolosa, decise di abbandonare Sora «non senza aver prima fatto sapere ai parroci della diocesi che il Papa proibiva cerimonie religiose finalizzate a rendere omaggio al nuovo governo»80. Si rifugiò inizialmente nell’abbazia di Casamari divenuta, come la certosa di Trisulti, un centro di accantonamento per i filoborbonici81, ma dal monastero cistercense dovette scappare «in seguito all’incursione dei Piemontesi guidati dal gen. Maurizio De Sonnaz che il 22 gennaio 1861» lo devastarono e incendiarono. Il vescovo Montieri raggiunse Veroli, dove arrivò alle due di notte per cui fu costretto a continuare il viaggio fino a Tecchiena accolto nel convento dei Certosini. Quindi passò a Ferentino, fermandosi nel convento dei francescani dei padri minori osservanti e il primo febbraio raggiunse Roma trovando ospitalità nella Casa generalizia dei Padri Liguorini82, da dove, come sostenevano i suoi avversari, «pretendeva di governare» la diocesi, «anzi tiranneggiarla di lontano»83, cioè continuando a impartire istruzioni al clero84 fino alla sua improvvisa morte85.
A livello delle singole parrocchie della diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo, il clero locale, stretto tra i divieti emanati dal vescovo Montieri di cantare l’inno ambrosiano nella cattedrale e nelle chiese e le intimazioni delle autorità amministrative che avevano «disposto ed ordinato il Canto del Te Deum», offrì risposte discordanti. Ad esempio anche al parroco di Fontana Liri, d. Antonio Cucumelli, era giunta la richiesta dal Municipio di celebrare una funzione religiosa ma egli non intese uniformarsi all’imposizione eccependo che il canto era stato «vietato dall’autorità Ecclesiastica ripetutamente per mezzo di circolare» e che il governo piemontese aveva lasciato piena libertà al clero. Tuttavia, come ricorda nelle sue Memorie, era a conoscenza di casi di «Preti empi e Frati apostati» che avevano provveduto «a profanare con cotesto canto varie chiese e specialmente la cattedrale di Sora»86. Invece il parroco di Santopadre, d. Nicola Casciano, il 2 giugno cantò il Te Deum. Il vescovo Montieri lo sospese e gli impose «di fare la ritrattazione» che, stando a quanto scrive d. Antonio Cucumelli, egli «fece volentieri». Tuttavia va rilevato che a Santopadre operavano anche altri due sacerdoti, d. Angelantonio Notagiacomo e d. Benedetto Scafi, «figura assai vicino al movimento garibaldino e in forte contrasto, anche personale, con il vescovo» Montieri, i quali assieme a d. Nicola Casciano inviarono a Pio IX, tramite il sindaco della cittadina Vincenzo Rodriquez, una lettera con cui chiedevano al pontefice di rinunziare al «potere temporale e mondano come è scritto nel Vangelo»87.
La questione del canto del Te Deum si presentò anche nella diocesi di Montecassino. Tormentata fu la vicenda che interessò l’ordinario, d. Simplicio Pappalettere88, eletto al cenobio cassinese nel 1858 e «accolto trionfalmente» dalla popolazione di San Germano (oggi Cassino)89 il 15 giugno quando raggiunse Montecassino per insediarsi come abate90. Poi negli anni a cavallo dell’Unificazione nazionale l’abate Pappalettere e il cassinese d. Luigi Tosti91 tennero con le nuove autorità nazionali «contatti frequenti, sia epistolari che umani»92 allo scopo di favorire i tentativi di Conciliazione tra il nuovo Stato italiano e la Chiesa93, di «parare i colpi della legge Mancini»94 onde scongiurare la perdita del monastero cassinese e la scomparsa della corporazione benedettina, tra le varie comunità religiose a rischio di soppressione a norma di quei «decreti giacobini» come li definì lo stesso d. Luigi Tosti, riuscendo pure, in quei frangenti, a proteggere la popolazione locale95.
Anche a Montecassino si venne a porre il dilemma sulla condotta da tenere in occasione della «Festa nazionale» del 2 giugno1861. Già il 5 maggio precedente a S. Germano si era verificata una situazione incresciosa quando un sacerdote, che in quel giorno ossequiava una funzione religiosa nell’ambito del mese mariano, era stato minacciato e maltrattato da «alcuni fanatici» i quali lo «arrestarono e lo portarono qua e là per le vie» della città, in quanto, differentemente rispetto al passato, aveva omesso di cantare l’inno dell’Oremus Pro rege durante la Santa messa96.
Subito dopo quel fatto l’abate Pappalettere cominciò a preoccuparsi vivamente della grave questione. Si domandava cosa sarebbe potuto succedere in seguito alla prescrizione romana di non cantare nelle funzioni religiose il «Te Deum pel Re». In sostanza «trem[ava] e teme[va]» che le disposizioni emanate dalle autorità nazionali in seguito al divieto al canto degli inni, avrebbero potuto produrre «conseguenze tristissime alla religione ed alla tranquillità spirituale e temporale» della diocesi. Anche su esortazione di un padre passionista che in quei momenti si trovava a Montecassino per fare un «corso di spirituali esercizi», Pappalettere si rivolse al procuratore generale dell’ordine benedettino e abate di S. Paolo in Roma, d. Angelo Pescetelli97, esortandolo a ottenere con urgenza un’udienza dal papa affinché il Santo padre potesse essere informato dello «stato infelice di un Ordinario e del Clero» di un territorio «dove la universalità non vede[va] nel nuovo ordine di cose che un semplice mutamento politico e nulla di religioso» e «dove la selvatichezza dei costumi porta[va] facilmente i moti popolari alla guerra civile»98.
Intanto il 14 maggio giunse all’abate Pappalettere l’invito ufficiale a prendere parte alle celebrazioni. Subito dopo si accinse a scrivere un’altra pressante lettera a d. Angelo in cui implorava «lumi e consiglio o meglio conforti», chiedendogli, «per carità», che supplicasse tutti affinché lo «togliessero da questo imbarazzo». Riferiva che a S. Germano «tutti» erano «entusiasmati» della «Festa nazionale» e informava che un suo rifiuto avrebbe potuto «mettere in pericolo non solo la [sua] persona (che sarebbe poco) ma il monastero e la Comunità». In sostanza spiegava che la partecipazione o meno alla «Festa nazionale» andava considerata alla stregua di una questione «di vita o di morte» per Montecassino. Così chiedeva alle alte sfere religiose romane di persuadersi «pure che il male che si vede nel canto di questo Tedeum è uno zero in confronto di quello che verrà col non cantarsi». In sostanza per Pappalettere la questione travalicava gli ambiti ecclesiastico-religiosi poiché andava ad assumere aspetti di natura sociale e, allo stesso tempo, di sopravvivenza della stessa abbazia benedettina in quei momenti minacciata di soppressione. Quindi, da un lato, l’insistenza dell’abate benedettino a essere informato sull’emissione di disposizioni ufficiali in merito ad azioni, comportamenti e atteggiamenti che avrebbe dovuto assumere nei confronti delle autorità civili e della popolazione in generale, e, dall’altro, lo sforzo di far comprendere al mondo ecclesiastico di Roma, così lontano dal clima che si stava vivendo localmente, la situazione in cui si era venuto a trovare l’ordinario cassinese e i rischi che correva. In quei momenti a Roma d. Angelo si stava prodigando nel reperire informazioni in merito all’emissione o meno, da parte delle autorità ecclesiastiche a Roma o della Sacra Penitenzieria, oppure di vescovi e regolari, di qualche tipo di istruzione indirizzata agli ordinari del Regno di Napoli relativamente al canto del Te Deum e all’orazione del Pro Rege nel corso delle funzioni religiose. Alla fine giunse la risposta della Penitenzieria che fu «negative alla domanda» sulla facoltà di far cantare i due inni, ma lasciava ampia autonomia all’ordinario di fare ciò che ritenesse più opportuno nel caso in cui il «governo e la popolazione facessero istanze e minacce» nei confronti del clero, arrivando anche a «sospendere il mese mariano o qualunque festa» e, se si fosse palesata la necessità, finanche a fuggire dalla diocesi. Tali indicazioni dovettero essere le sole di cui Pappalettere ebbe conoscenza. All’ordinario di Montecassino non dovette giungere l’«istruzione assoluta del 18 maggio» sempre emessa dalla Sacra Penitenzieria con la quale venivano inibite le funzioni religiose nell’ambito delle manifestazioni del 2 giugno. Così alla fine l’abate prese parte alla «Festa Nazionale» a S. Germano contando gli inni. Poi, a distanza di qualche giorno, la partecipazione alle celebrazioni divenne di dominio pubblico poiché su alcuni organi di stampa fu pubblicata la «strabiliante notizia: Un buon esempio. Monsignor Pappalettere, Abate di Monte Cassino e Vescovo di S. Germano in Terra di Lavoro, quantunque indisposto e minacciato da lettere anonime, scese dal convento, e facendo un’ora di strada a piedi, andò a S. Germano il 2 giugno a celebrare la funzione religiosa, in cui cantò il Domine, salvum fac regem ed il Te Deum». L’estensore dell’articolo commentava che tale «atto compiuto in un paese infestato tuttora da bande di reazionarii, prova[va] molto il coraggio di questo frate esemplare». Inoltre a quella corrispondenza giornalistica finirono per mescolarsi alcune voci che aggiunsero altri particolari, rilevatisi, poi, infondati. Intanto a Roma si erano levate forti critiche sulla decisione di d. Simplicio di prendere parte alla celebrazione della «Festa Nazionale» e da esse, oltre che da false accuse, dovette difendersi l’abate. Negli ambienti ecclesiastici romani, infatti, si era sparsa la notizia che proprio nel giorno della «Festa Nazionale» re Vittorio Emanuele fosse transitato a S. Germano con l’abate Pappalettere che si era «mosso ad incontrarlo e accoglierlo col baldacchino». Su quest’ultima questione, e cioè se effettivamente il sovrano fosse giunto in città accolto da Pappalettere con tanto di baldacchino, d. Angelo Pescetelli, che si autodefiniva come il «capro emissario di tutto l’ordine» benedettino ricevendo «rimproveri e mortificazioni», chiese all’abate cassinese più volte, e in forma perentoria, di fare chiarezza attraverso una «pronta e categorica risposta». Pappalettere respinse subito quella che definì la «poetica invenzione dell’incontro e del Baldacchino», ma d. Angelo lo sollecitò a chiarire la faccenda con una lettera che gli doveva essere recapitata «prima di S. Pietro», cioè entro il 29 giugno, in quanto nel giorno successivo avrebbe dovuto incontrare il papa in visita alla basilica di S. Paolo in Roma. «Fortunatamente» scrisse poi il procuratore generale, Pio IX non era più andato a S. Paolo «essendosi voluto riposare dalle fatiche del giorno prima, altrimenti» sarebbe stato costretto a «sentire qualche omelia intorno a Monte Cassino». Quando poi la lettera con la quale Pappalettere negava l’«affare del Baldacchino» giunse a Roma, d. Angelo riuscì a «smentire la turpe calunnia». Tuttavia negli ambienti ecclesiastici romani si continuava a criticare il canto degli inni da parte di Pappalettere nel corso della celebrazione del 2 giugno. «L’Abate» come scrisse d. Luigi Tosti al card. Alfonso Capecelatro, «cercò purgarsi ricordando la facoltà ricevuta di fare quel che avrebbe creduto in Domino». Infatti a sua discolpa d. Simplicio scriveva che da Roma non erano pervenuti «né fogli né comunicazione veruna» se non il «responso» della Sacra Penitenzieria che lasciava in casi particolari un’ampia forma di autonomia in sede locale99. Egli, dunque, riteneva «di essere stato fedele a quella comunicazione» e di aver fatto la cosa «più conveniente all’onore della religione ed alla salute delle anime». Si rendeva ben conto che da lontano, «in tanta disparità di condizioni morali, in tanta diversità di influenza», la sua condotta poteva apparire censurabile. «Parlando matematicamente», scriveva Pappalettere il 5 luglio, «nel determinare la risultante, che deve segnare la linea di condotta di un Ordinario, bisogna calcolare le forze oblique che sono in funzione e la disgrazia è, che chi è sul luogo ne vede tre» mentre a Roma se ne vedevano solo «due» e conseguentemente i «giudizi non po[tevano] essere identici». In sostanza per Pappalettere il clima di contrapposizione venutosi a determinare in quei frangenti non si riduceva al rapporto conflittuale tra le autorità ecclesiastiche e quelle politico-amministrative italiane, ma chi si trovava a operare in ambito territoriale doveva tenere in considerazione anche gli effetti che tale diniego avrebbero potuto generare sfociando in proteste sociali oppure nei rischi di soppressione che stava correndo in quei frangenti il cenobio cassinese100. Perciò riteneva di avere nella sua «coscienza la tranquillità che produce il giudizio del proprio operato» in quanto da un lato aveva cercato, quanto più possibile, di evitare «gli urti e la stizza» e dall’altro si era sempre dimostrato «obbedientissimo figlio della Chiesa» e «fedelissimo figlio della S. Sede», tanto da fare atto di sottomissione nel dichiararsi «obbligatissimo se Roma, giudicando la [sua] condotta di Ordinario colpevole» l’avesse ricondotto «nella pura condizione di monaco». Finalmente in una lettera del 9 luglio d. Angelo Pescetelli gli comunicava che l’«affare» del 2 giugno sul Te Deum si era «alquanto attenuato dall’essersi saputo che tutti [avevano] cantato, compreso l’E.mo Cosenza101, e solo [erano] stati esenti l’Arcivescovo di Napoli e di Catanzaro»102.
Tuttavia le vicende del 2 giugno avevano finito per amareggiare l’abate Pappalettere tanto da indurlo a maturare l’idea della rinuncia dell’incarico. Così nella lettera del 5 luglio mise a disposizione il suo mandato scrivendo al procuratore generale che gli sarebbe stato «graditissimo» se egli fosse riuscito «in penam, a far[lo] sbadiare». Un mese dopo, il 3 agosto, sempre a d. Angelo Pescetelli tornò a scrivere di essersi persuaso «che non po[teva] durare nell’ufficio di Abate». Gli avvenimenti di quegli ultimi mesi lo avevano segnato nel fisico, tanto che «ogni più leggera impressione morale» gli causava «convulsioni nervose» tali da sfibrarlo anche nel morale. Così si trovava «in un tal stato di turbamento» da renderlo «assolutamente inetto a reggere questo monastero e diocesi in questi tempi di azione». La sua intenzione era dunque quella di dimettersi, cedendo il posto a d. Carlo de Vera che gli sembrava «attissimo a governare». Capiva pure «che non sarebbe prudenza dar questo passo prima» dell’emissione del «decreto di esenzione» del monastero dalla soppressione, ma, ritenendo il provvedimento imminente, pregava d. Angelo di predisporre le cose in modo «che, venuto quello, po[tesse] compiersi il resto». Aveva resistito nel suo mandato abbaziale per tre anni «nella speranza di poter mettere in equilibrio tra i [suoi] principi e quelli della totalità» ma assicurava che, pur «mettendo giù ogni pretensione abbaziale», avrebbe comunque continuato a operare, servendo il «monastero in tutto come semplice monaco». Ancora il 15 agosto ribadiva che lo sforzo l’aveva «oppresso di spirito e di corpo», né, avvertiva, bisognava ritenere che la determinazione di giungere alle dimissioni fosse un «effetto di spirito ipocondriaco» poiché tale decisione l’aveva prima «combattuta» per molto tempo «con tutti gli argomenti razionali e sensibili», e poi l’aveva «freddamente maturata». Di nuovo il 2 settembre tornò a chiedere a d. Angelo di non scordarsi delle sue dimissioni che apparivano una «necessità pel [suo] corpo e pel [suo] spirito». Quindi il 23 settembre il procuratore generale parlò della questione Pappalettere al pontefice. D. Angelo, di fronte a Pio IX che aveva «dimostrato poca soddisfazione» per l’operato dell’abate cassinese, lo difese rifacendo la «storia del Tedeum» e delle prime indicazioni fornite dalla Sacra Penitenzieria con l’«istruzione assoluta del 18 maggio» che non era giunta a Montecassino. In merito alla questione della rinuncia alla carica, il pontefice si mostrò «indifferente, come abbandonandola all’arbitrio» dello stesso Pappalettere e dei suoi superiori.
In quei frangenti le richieste di Pappalettere di essere sollevato dall’incarico badiale non si concretizzarono. Tuttavia non trascorse molto tempo, appena due anni, e d. Simplicio fu costretto, su richiesta di Pio IX, a dimettersi. Infatti l’abate cassinese, essendo venuto a conoscenza della visita che Vittorio Emanuele II avrebbe fatto a Napoli nella primavera del 1862, indirizzò il 23 aprile di quell’anno una lettera al sovrano103. Nelle intenzioni di Pappalettere la missiva avrebbe dovuto rimanere riservata ma invece la lettera divenne di dominio pubblico104, provocando un «gran clamore» e una «penosa impressione» a Roma. Anche in questa occasione si prospettò la possibilità di provvedere al recesso dell’incarico, tuttavia in quei momenti a Roma si optò per attendere l’«opportunità», rimandando la rimozione a momenti meno turbolenti.
Quindi a inizio del 1863 Pappalettere accettò l’invito delle nuove autorità nazionali a recarsi a Torino. Decise di intraprendere il viaggio per discutere di «gravi e importanti affari» al fine, cioè, di «far comprendere al Governo la vera posizione e le angustie del Clero», nonché di risolvere la questione di S. Severino di Napoli, che Montecassino rischiava di perdere, oppure di impedire che i monasteri di Montecassino e Cava de’ Tirreni venissero privati degli archivi. Per un mese, dal 16 marzo alla metà di aprile 1863 soggiornò nell’allora capitale dove incontrò esponenti del governo e del parlamento e per due volte vide il card. Filippo De Angelis105 battagliando per ottenere la sua liberazione e per fargli riavere le rendite, nonché si prodigò per il ritorno di alcuni vescovi napoletani nelle loro sedi e per ottenere la grazia di alcuni prelati condannati con sentenze di tribunali. Dopo l’incontro avuto con il ministro di Grazia e giustizia, Conforti, gli sembrò che il guardasigilli fosse «ben disposto» al rientro di alcuni vescovi. Soprattutto, però, riuscì a ottenere l’emanazione di un provvedimento «di rispetto verso la religione» che si concretizzò nella circolare del 24 marzo 1863 riguardante gli Oremus nella quale «indirettamente [si] ricordava agli ecclesiastici il dovere di sottostare obbediente alla Suprema Autorità della Chiesa in questa materia».
Raggiunse anche Milano, dove la sera del 4 aprile incontrò Alessandro Manzoni106, poi lasciò Torino e il 19 o 20 aprile giunse a Roma. Il 30 fu ricevuto, «con modi affettuosi» dal cardinale Antonelli, quindi il 5 e l’11 maggio dal card. Sisto Riario Sforza, arcivescovo di Napoli, in quei momenti esule a Roma107. Nel frattempo si stava avvicinando la celebrazione della terza «Festa nazionale» che due anni prima gli aveva causato tanti fastidi. Pur trovandosi fuori della diocesi volle assumersi ogni responsabilità al fine di tutelare il priore di Montecassino. Così, in una lettera del 25 maggio, scrisse le istruzioni alle quali d. Carlo de Vera si sarebbe dovuto attenere «nel modo di condursi verso i municipi» che avessero avanzato la richiesta dello svolgimento di funzioni religiose nella giornata celebrativa. Ricordando che lo Stato italiano aveva dichiarato «quella festa meramente civile» anche se con la possibilità di unirvi quella religiosa, precisava che «la Suprema Autorità della Chiesa, cui solo appartiene il diritto di prescrivere, determinare, modificare e proibire le funzioni ecclesiastiche [aveva] inibita la funzione ecclesiastica per la circostanza in parola». Aggiungeva che bisognava obbedire a tale disposizione «senza giudicare», anche perché le stesse autorità nazionali, «mostrando giustizia e senno», avevano riconosciuto il diritto della Suprema Autorità della Chiesa con la circolare del 24 marzo 1863 sugli Oremus, alla cui emissione aveva contribuito lo stesso Pappalettere nel corso del suo soggiorno torinese. L’assunzione della responsabilità di diniego di celebrare funzioni religiose nella diocesi di Montecassino nel corso della «Festa nazionale» fu l’ultimo atto compiuto da Pappalettere nella sua qualità di ordinario diocesano e di abate di Montecassino poiché, di lì a poco, si compì il suo «dramma». Quello stesso 25 maggio scrisse una lettera di «piena sottomissione ed obbedienza» al papa e quando il giorno successivo il cardinale penitenziere gli riferì che il pontefice gli avrebbe concesso «ogni assoluzione e sanatoria a condizione» che si fosse dimesso, immediatamente Pappalettere gli consegnò la sua rinunzia. Quindi il 29 fu ricevuto in udienza particolare da Pio IX. Il papa gli disse di sapere che con le sue «amicizie» presso le autorità governative aveva «[fatto] del bene alla Chiesa in generale ed anche ai particolari, fra i quali al buon Cardinale de Angelis», ma accettò le dimissioni108 e, per di più, gli ingiunse di non far ritorno a Montecassino, imponendogli di rimanere a Roma109. Pappalettere sperava che la permanenza in città si risolvesse in breve tempo, invece la «dimora romana», che gli «riusciva fisicamente e moralmente gravosa», «si prolungò per vari anni e Pio IX fu inflessibile non ostante le insistenti richieste». Infatti solo nel 1869 poté far ritorno a Montecassino110. Poi nel 1877 Pio IX approvò la nomina regia di d. Simplicio Pappalettere alla prelatura palatina del Gran Priorato di San Nicola di Bari e proprio nella città pugliese si spense l’8 maggio 1883111.
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NOTE
1 Infatti nel Ducato di Parma e Piacenza, governato da Roberto I di Borbone-Parma (con la madre Luisa Maria reggente) si tennero, il 14 e il 21 agosto 1859, due tornate del plebiscito che approvarono l’annessione al Regno di Sardegna con 63.167 voti a favore e 504 contro. Tuttavia esso non ebbe valore ufficiale e la decadenza della dinastia dei Borboni di Parma fu sancita, all’unanimità, dall’Assemblea parmense l’11-12 settembre 1859. Nel frattempo, il 21 agosto, un’analoga Assemblea del Ducato di Modena e Reggio, governato da Francesco V d’Asburgo-Este, aveva deliberato all’unanimità l’annessione delle province modenesi al Regno di Sardegna. Quindi l’11 e 12 marzo 1860 si tenne il plebiscito nel Granducato di Toscana governato da Leopoldo II d’Asburgo-Lorena, che dette 366.571 a favore dell’annessione, 14.925 per la creazione di un Regno separato e 4.949 nulli.
2 Nel 1816 papa Pio VII aveva provveduto a suddividere amministrativamente lo Stato Pontificio in 18 delegazioni apostoliche di cui una speciale (quella della Comarca di Roma) mentre quattro, che erano quelle romagnole (Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna), prendevano il nome di legazioni in quanto governate da un cardinale. Poi nel 1850 la riforma amministrativa di Pio IX riservò il titolo di legazioni alle cinque regioni che componevano lo Stato Pontificio (Romagne, Umbria, Marche, Marittima e Campagna, e circondario di Roma).
3 Nel plebiscito si ebbero 426.006 voti a favore, 756 per la creazione di un Regno separato e 750 nulli.
4 Pio IX, al secolo Giovanni Maria Mastai Ferretti, era nato il 13 maggio 1792 a Senigallia, nella Marca di Ancona. Ordinato sacerdote nel 1819, svolse per un biennio azione diplomatica in Cile e in Perù. Fu consacrato vescovo nel 1827 inizialmente presso la diocesi di Spoleto e poi, dal 1832, in quella di Imola. Nel 1839 fu nominato cardinale e il 16 giugno 1846 fu eletto papa. Morì a Roma il 7 febbraio 1878. Il suo pontificato, durato oltre 31 anni, è stato il più lungo della storia della Chiesa cattolica dopo quello di San Pietro. Nel 2000 è stato proclamato beato.
5 Il pontefice con la lettera apostolica Qui nuper del 18 giugno 1859 aveva notificato «al mondo il latrocinio già consumato delle Legazioni», riaffermando la condanna con la Cum Catholica Ecclesia promulgata il 26 marzo 1860.
6 Nell’allocuzione Ad gravissimum pronunciata nel Concistoro del 20 giugno 1859 il papa «descrisse e lamentò gli oltraggi, di cui era fatta segno la Santa Sede, e ne dichiarò gli autori incorsi nelle pene canoniche comminate dai Concilii e specialmente dal tridentino». Ancora tre mesi dopo, cioè il 26 settembre, in un’altra allocuzione concistoriale, Maximo animi nostri dolori, il pontefice riconfermò le condanne per la «pretesa annessione».
7 Nell’enciclica Nullis certe verbis, del 19 gennaio 1860, il pontefice ribadì le condanne ed espose «con severe parole i gravi motivi che lo avevano indotto a recisamente rifiutare le vie di componimento a lui proposte, con una lettera sotto il 31 dicembre del precedente anno, dall’Imperatore dei Francesi» («La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VII, Roma 1860, p. 397). Infatti alla fine del 1859 era stato pubblicato in Francia un opuscolo ispirato da Napoleone III e intitolato Le pape e le congrés, con cui si invitava il «papa ad accontentarsi di un piccolo territorio attorno a Roma, rinunziando alle altre province: “Plus le territoire sera petit, plus le souverain sera grand”». Pio IX definì pubblicamente l’opuscolo «un insigne monumento di ipocrisia» ritenendo «non a torto, che il moto unitario, una volta avviato, non si sarebbe fermato alle porte di Roma». Infatti proprio per la grande forza di attrazione esercitata da Roma sul nuovo Regno non sarebbe stata ipotizzabile una soluzione che prevedesse una sua esclusione dal nuovo Stato unitario (G. Martina, Storia della Chiesa, vol. 3, L’età del liberalismo, Ed. Morcelliana, Brescia 1995, pp. 238, 243). Nel febbraio 1860 anche il vescovo di Molfetta, fra’ Lorenzo Moffa, si scagliò contro l’opuscolo giudicandolo «pieno zeppo di contraddizioni» e ritenendolo «assai funesto al papa-re ed agli altri principi sovrani» nonché «molto dannoso agli stati della Chiesa ed a tutta la società ecclesiastica e civile» (B. Pellegrino, Leali o ribelli … cit., pp. 32-33).
8 «La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VII, Roma 1860, pp. 537-538, La sovranità temporale dei romani pontefici.
9 La scomunica colpiva i governanti «subalpini» e, in generale, tutti i responsabili, dell’annessione delle legazioni. Per Vittorio Emanuele II si trattava della seconda delle tre scomuniche comminategli da papa Pio IX. La prima l’aveva ricevuta con l’allocuzione Cum saepe del 26 luglio 1855 con cui il pontefice «fulminava la scomunica maggiore su quanti avevano proposto, approvato, sanzionato la legge» Rattazzi (la n. 878 del 29 maggio 1855, detta anche legge dei conventi) che sanciva l’abolizione nel Regno di Sardegna degli ordini religiosi ritenuti privi di utilità sociale e l’esproprio dei beni degli enti soppressi con incameramento in una Cassa ecclesiastica appositamente costituita. La terza scomunica fu inflitta con l’enciclica Respicientes ea omnia del 1° novembre 1870, dopo la Breccia di Porta Pia e l’occupazione di Roma, definita «ingiusta, violenta, nulla e invalida», a casa Savoia, vale a dire sia al sovrano che ai suoi successori e, insieme a loro, a chiunque partecipasse alla politica italiana (G. Martina, Pio IX 1851-1866, vol. 2, Ed. Pontificia Università Gregoriana, Roma 1985, pp. 58-59). Un problema venutosi a porre in quei frangenti fu quello relativo alla somministrazione dei sacramenti, in punto di morte, al re e ai politici italiani scomunicati. Quando nel giugno 1861 morì all’improvviso Cavour, il frate francescano che lo confessò e, senza avergli chiesto una preventiva ritrattazione pubblica, lo comunicò, fu sospeso a divinis. Invece quasi vent’anni dopo quando il re fu in punto di morte, Pio IX inviò un sacerdote a impartirgli l’assoluzione. Vittorio Emanuele II poté così ricevere i sacramenti e il 9 gennaio 1878 morì in grazia di Dio, precedendo di circa un mese lo stesso pontefice che scomparve il 7 febbraio.
10 G. Martina, Storia della Chiesa, vol. 3, … cit., p. 238.
11 G. Martina, Pio IX … cit., p. 94.
12 Il Te Deum laudamus («Noi ti lodiamo Dio»), o più brevemente Te Deum, è un inno legato, nella Chiesa cattolica, alle cerimonie di ringraziamento. Una tradizione ne attribuisce la composizione ai santi Ambrogio e Agostino e per tale motivo è chiamato anche «inno ambrosiano».
13 Mons. Luigi Fransoni (1789-1862) aveva invitato il clero piemontese a disubbidire alle leggi Siccardi che concernevano l’abolizione dei privilegi del clero nel Regno di Sardegna sancendo l’abolizione del foro ecclesiastico, del diritto di asilo e della manomorta (cioè sulla non assoggettabilità a tassazione delle proprietà immobiliari degli enti ecclesiastici). L’arcivescovo torinese fu processato e subì la condanna a un mese di carcere, scontata nel forte di Fenestrelle. Poi fu esiliato a Lione dove morì («La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VIII, Roma 1860, p. 503).
14 Ivi, p. 751.
15 «La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VII, Roma 1860, pp. 260-261, I processi pei Te Deum non cantati e la libertà di coscienza. Lo stesso periodico cita vari casi di ecclesiastici arrestati in Lombardia, in Toscana, a Piacenza e nello stesso Piemonte e portati a Torino. Quindi raggiunsero il confino nell’allora capitale piemontese l’arcivescovo di Pisa, Cosimo Corsi arrestato il 13 maggio 1860 per essersi rifiutato di incontrare il re, nonché il vescovo di Piacenza, mons. Antonio Ranza che nel luglio era stato condannato dal tribunale, assieme a dieci canonici, a quattordici mesi di reclusione per antipatriottismo (sia perché si era allontanato dalla città in occasione della visita del re sia perché non aveva celebrato la «Festa dello Statuto»). Il vescovo di Urbino, Alessandro Angeloni, era detenuto nelle carceri di Pesaro, invece il vicario generale di Bologna, mons. Ratta, era stato condannato a tre anni di carcere e L. 2.000 di multa mentre il vescovo di Parma, Felice Cantimorri, era fuggito prima in Austria e poi a Roma (Ivi, pp. 105-108).
16 G. Martina, Storia della Chiesa, vol. 3, … cit., p. 126.
17 Ad esempio il pontefice «si irritò vivacemente» con l’arcivescovo di Firenze, mons. Gioacchino Limberti che «il 16 aprile 1860, cedendo alle pressioni di una parte del capitolo, tenne in cattedrale una cerimonia in onore di Vittorio Emanuele, presente a Firenze, e il 22 ricevette di nuovo in duomo il sovrano per la posa della prima pietra della nuova facciata e gli rese poi omaggio alla testa di una deputazione del clero». Alle rimostranze provenienti da Roma per aver accolto «con onore chi era colpito dalla scomunica maggiore» e per aver seguito una «linea diversa e opposta a quella [dettata] dal Capo della Chiesa», mons. Liberti «si affrettò a rivolgere a Pio IX una lunga risposta, in cui, pur cercando delle attenuanti (ritardo nel ricevere le istruzioni, pressioni delle autorità, dissensi nel capitolo consultato, qualche dubbio giuridico data l’assenza di scomuniche nominali, riduzione delle cerimonie allo stretto indispensabile), esprimeva tutta la sua angoscia e chiedeva perdono. Ai primi di maggio giunse al vescovo la risposta pontificia, redatta in latino per dare maggiore solennità ed efficacia al rimprovero. Pio IX non solo non accettava le scuse avanzate, ma «ricordava al presule la gravità dello scandalo dato, esortandolo a riparare comportandosi in modo degno della sua dignità episcopale». Anche a Lucca mons. Giulio Arrigoni fece visita al sovrano il 30 aprile 1860 anche se in forma privata e «non come arcivescovo … ma nella doppia qualità di suddito lombardo (di nascita)», essendo bergamasco, «e toscano» (G. Martina, Pio IX … cit., pp. 126-127).
18 Il card. Filippo De Angelis (1792-1877) era stato il principale antagonista di Giovanni Mastai Ferretti nel conclave che aveva portato Pio IX al soglio pontificio con il pontefice che invece aveva potuto contare in quell’occasione sul sostegno del cardinale fermano Tommaso Bernetti (1779-1852), già segretario di Stato Vaticano. Quando nel settembre 1860 Vittorio Emanuele II giunse nelle Marche, ne visitò i capoluoghi ma non Fermo in quanto la città restava ancora una roccaforte del potere papalino (B. Ficcadenti, Una vicenda della rivalità municipale sorta con l’Unità d’Italia, Argalia, Urbino 1973). Il 28 settembre 1860 il card. De Angelis fu arrestato perché, secondo l’arcivescovo di Torino, mons. Luigi Fransoni, le autorità piemontesi, conoscendo quanto fosse «capace di difendere la causa di Dio e della Chiesa», vollero impedire «che la fortezza» dell’alto prelato potesse rianimare «vieppiù quella del suo Clero» («La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VIII, Roma 1860, p. 503). Dopo l’arresto in capo a un’ora «fu condotto a Macerata per essere deportato a Torino» («La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VIII, Roma 1860, p. 252). Nell’allora capitale fu «per oltre sei anni … rilegato sacrilegamente» («L’unità cattolica», 28 settembre 1869 cit. in M. D’Addio, Politica e Magistratura, Giuffré editore, Milano 1966, p. 810). Venne «rinchiuso nella casa dei Signori della Missione» dove fu raggiunto, nel febbraio 1861, dal vescovo di Avellino, mons. Francesco Gallo («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 133).
19 L. Barletta, La vita religiosa, in Storia del Mezzogiorno, vol. XII, Il Mezzogiorno nell’Italia unita, Editalia, Roma 1994, pp. 389-390.
20 Michele Maria Caputo (1808-1862) godeva di una «reputazione di borbonico» per cui l’«improvvisa adesione alla dittatura garibaldina» sembrerebbe esser stata «dettata soprattutto da paura». Dopo essersi rifugiato a Napoli in seguito a un’insurrezione contadina fomentata da reazionari e sfociata nell’assassinio di una trentina di proprietari liberali, avrebbe incontrato Garibaldi per poi «fare atto di adesione al nuovo ordine di cose». Fu nominato Cappellano maggiore ed emanò una lettera pastorale ricevendo un «monitorio dalla Congregazione del Concilio» che la giudicava «ridondante di errori, di contraddizioni e massime ingannatrici». Sollecitato a lasciare l’incarico di Cappellano maggiore «usurpato al legittimo titolare Pietro Naselli, arcivescovo di Nicosia, rientrando nella sede di Ariano o presentandosi a Roma», mons. Caputo rimase fermo sulle proprie convinzioni e il 17 settembre 1861 fu scomunicato dalla Santa Sede (Caputo Michele Maria, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 19, Roma 1976, pp. 277-280).
21 Gennaro Di Giacomo (1796-1878) fu nominato senatore il 24 maggio 1863 e intervenne al Senato il 7 dicembre 1864 nel corso della discussione sul progetto di legge per il trasferimento della capitale da Torino a Firenze e poi il 18 marzo 1865 in tema di ordinamento matrimoniale. Nonostante le sue reiterate affermazioni di attaccamento alla dottrina e al magistero della Chiesa e quindi il voto favorevole sul dogma dell’infallibilità papale nel corso del Concilio Vaticano I, i suoi rapporti con la Santa Sede non migliorarono in quanto continuò a essere criticato per le sue partecipazioni alle sedute del Senato dopo l’occupazione di Roma. Pio IX nel 1873 gli comunicò la nomina di un coadiutore e vicario apostolico nella diocesi di Alife invitandolo a non tornare nella sua sede, «si trattava in sostanza di una vera e propria destituzione» con il vescovo che si trasferì a Caserta «ove dimorava ospite del sovrano» (G. Panico, Di Giacomo Gennaro, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 40, Roma 1991, pp. 19-20).
22 Giuseppe Antonio Novasconi (1798-1867), vescovo di Cremona, fu nominato senatore il 29 febbraio 1860. Il prelato si pose il problema sull’opportunità di prendere parte «all’apertura del Senato nella storica legislatura che fra i suoi primi atti attribuì a Vittorio Emanuele il titolo di re d’Italia». Alla sua richiesta Pio IX «ordinò che si rispondesse “Consultat conscientiam suam”» e il vescovo comprese che Roma preferiva la sua astensione per cui non partecipò alla seduta inaugurale della proclamazione del Regno d’Italia del 17 marzo e neppure mai alle successive. Tuttavia fu l’unico vescovo del nord Italia a celebrare la «Festa Nazionale» del 2 giugno 1861, così come accolse in cattedrale Vittorio Emanuele e incontrò Cavour e Garibaldi per cui fu oggetto di violenti attacchi da parte de «La Civiltà Cattolica». Cercò di mediare con le autorità del Regno d’Italia ma non rinunciò a denunciare la politica anticlericale del nuovo governo nonché mantenne un atteggiamento «di lealtà verso lo Stato e di difesa della libertà della Chiesa» (E. Apeciti, Novasconi Giuseppe Antonio, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 78, Roma 2013, pp. 795-797).
23 Giovanni Corti (1797-1868), vescovo di una diocesi che risultava, a quei tempi, divisa a metà tra Regno d’Italia e impero asburgico, era di sentimenti liberali per cui subì i «rimproveri del papa per non aver proibito ai parroci della parte italiana la celebrazione della Festa dello Statuto». Fu nominato senatore del Regno il 5 novembre 1866.
24 B. Pellegrino, Leali o ribelli, Congedo editore, Galatina 2011, p. 54 n. 109, p. 45. Nel tentativo di salvare il Regno, il 25 giugno 1860 re Francesco II aveva provveduto a ripristinare la Costituzione concessa nel 1848 (mai formalmente abolita, ma solo disattesa). Tuttavia la svolta costituzionale aveva finito per provocare una netta contrarietà nell’episcopato meridionale.
25 Con i vari decreti dittatoriali emanati fu imposto il versamento alla Corona dei «benefizi» con l’ordine di perquisire senza ostacolo o limitazione di sorta tutti gli archivi delle Curie, di vietare la riscossione delle decime sacramentali e di eguagliare in tutto il clero agli altri cittadini.
26 L. Barletta, La vita religiosa …cit., p. 389.
27 M. Lupi, Vescovi/1: dal 1848 alla fine del secolo, in www.treccani.it/enciclopedia.
28 B. Pellegrino, Leali o ribelli … cit., pp. 48-49.
29 Ad esempio tutti i vescovi pugliesi, fra i quali quello di Foggia mons. Bernardino Frascolla, furono costretti a «precipitosamente abbandonare le loro sedi sotto l’incalzare di sommosse popolari» con gli episcopi di Foggia, Bovino e San Severo che «furono devastati dalla folla inferocita» (T. Iermano, Frascolla Bernardino Maria, in «Dizionario Biografico degli Italiani», vol. 50 Roma 1998, pp. 309-311).
30 B. Pellegrino, Leali o ribelli … cit., pp. 36-37.
31 Ivi, pp. 45-48.
32 Il card. Sisto Riario Sforza (1810-1877), arcivescovo di Napoli, dopo il primo allontanamento dalla città partenopea avvenuto il 21 settembre 1860, si rifugiò in Francia, a Hyères, tra Marsiglia e Tolone, presso la famiglia. Tornato a Napoli, ne fu nuovamente espulso il 31 luglio 1861 per riparare tra Roma e Terracina fino al rientro definitivo nell’ex capitale nel 1866.
33 A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione 1860-1861, Società Editrice Napoletana, Napoli 1981, p. 183. Dal febbraio 1861 mons. Gallo fu «rinchiuso» a Torino «nella casa dei Signori della Missione», dove raggiunse il card. Filippo De Angelis, rimanendo in esilio fino al 1866 («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 133).
34 F. Riccardi, Piemontesi a caccia di … tonache, in «Studi Cassinati», a. X, n. 2, aprile-giugno 2010, pp. 84-87.
35 I provvedimenti sabaudi di soppressione degli ordini religiosi, entrati in vigore nel Regno di Sardegna il 29 maggio 1855, vennero introdotti nel resto d’Italia tra la fine del 1860 e l’inizio del 1861: in Umbria con decreto dell’11 dicembre 1860 n. 206, nelle Marche con decreto del 3 gennaio 1861 n. 705, nei territori peninsulari dell’ex Regno delle Due Sicilie con decreto del 17 febbraio 1861 n. 251 del luogotenente generale del re nelle provincie napoletane. In quest’ultimo caso il provvedimento era stato redatto dal guardasigilli Giovanni Battista Cassinis e prevedeva l’individuazione delle corporazioni religiose da sopprimere, salvo eccezioni da determinare per legge, e l’istituzione di una Cassa ecclesiastica per l’amministrazione dei beni degli ordini aboliti. Tuttavia Pasquale Stanislao Mancini, allora consigliere per gli Affari ecclesiastici nella Luogotenenza a Napoli, rese quel decreto molto più penalizzante per la Chiesa con i «decreti Mancini» che determinarono la rottura aperta con la Chiesa (A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione … cit., pp. 183-184).
36 L. Barletta, La vita religiosa … cit., p. 395.
37 G. Martina, Pio IX … cit., pp. 93-94.
38 M. Lupi, Vescovi/1: dal 1848 … cit.
39 «Su 230 diocesi presenti nell’allora territorio italiano, 43 erano vacanti e 56 avevano il vescovo in esilio» (Ibidem).
40 La circolare del 22 novembre 1867 riconosceva nella loro carica quei vescovi che si erano rifiutati di giurare e si erano rifugiati a Roma (ciò consentì, ad esempio, a mons. Michelangelo Celesia, ex abate di Montecassino, di potersi insediare nella diocesi di Patti a distanza di sette dalla sua nomina).
41 Di esse otto erano piemontesi, fra cui quella di Torino abbandonata a se stessa dall’esilio di Fransoni nel 1850, «due liguri, una lombarda, una emiliana, quattro toscane, otto dell’ex Stato Pontificio, due del Mezzogiorno e due di Sicilia» tra cui quella di Catania affidata all’ex abate benedettino, card. Giuseppe Benedetto Dusmet (M. Lupi, Vescovi/1: dal 1848 … cit.).
42 Ibidem.
43 E. Wulzer (a cura di), Note sul brigantaggio postunitario e sulle sue incidenze nella Valle di Comino, Associazione Culturale «Cominium», Atina 2003, p. 50, n. 25.
44 L. Barletta, La vita religiosa … cit., p. 389.
45 M. Lupi, Vescovi/1: dal 1848 … cit. Nell’ex del Regno delle Due Sicilie si era già avuta una sorta di guerra del Te Deum a inizio del 1848. Dopo l’annuncio del 29 gennaio e la concessione della Costituzione del successivo 10 febbraio, il sovrano Ferdinando II ordinò che l’11 febbraio nella cappella reale a Napoli e in tutte le parrocchie venisse intonato il Te Deum come inno di ringraziamento per l’atto sovrano. Non tutti i vescovi però si adeguarono oppure non vollero essi stessi celebrare il Te Deum nel capoluogo della propria diocesi (come il vescovo Montieri a Sora). Un secolo più tardi, in contesti profondamente differenti, il canto del Te Deum aveva perso ogni connotazione di conflittualità sociale e politica. Il 20 agosto 1945 l’abate di Montecassino mons. Gregorio Diamare, che pure aveva avuto modo di sperimentare personalmente le atrocità della guerra che avevano pesantemente interessato il Cassinate e la millenaria badia di Montecassino con le distruzioni conseguenti, scrisse una lettera al clero della Diocesi cassinese per sollecitare parroci e sacerdoti a promuovere lo svolgimento, «in un giorno festivo dopo la celebrazione della S. Messa, e possibilmente dinanzi a Gesù sacramentato solennemente esposto», di «pubbliche funzioni di ringraziamento al Signore [per la fine della guerra], col canto del Te Deum» (cfr. l’articolo di M. Dell’Omo, Ricordo di Gregorio Diamare, vescovo e abate di Montecassino, a 75 anni dalla morte. Pastore coraggioso in mezzo alla tempesta, in questo stesso numero alle pp. 95-100).
46 In Terra di Lavoro il plebiscito si svolse il 21 ottobre 1860 e a causa degli scontri armati ancora in corso si tenne in soli 89 dei 238 Comuni che costituivano la provincia. Dette come esito 70.296 voti favorevoli e 1.320 contrari (cfr. F. Riccardi, Quel maledetto imbroglio del plebiscito del 1860. La Terra di Lavoro non votò per i Savoia, in «Studi Cassinati», a. VII, n. 2, aprile-giugno 2007, pp. 73-75).
47 A Napoli, dopo giorni di incessante pioggia, riferiva il periodico la «Gazzetta di Genova», la sera del 20 «finalmente vi furono le luminarie tanto desiderate». Tuttavia «l’effetto fu molto minore alle promesse. Scarsi e poveri i lumi ed in gran parte spenti» («La Civiltà Cattolica», a. XI, vol. VIII, Roma 1860, p. 756).
48 Archivio di Stato di Napoli, Carte della Luogotenenza, Ministero di Grazia e Giustizia, Corrispondenza con diverse autorità giudiziarie (1817-1861), f. 2280.
49 Dal 7 settembre 1860, il re Francesco II, sua moglie e la corte napoletana si erano rifugiati a Gaeta e l’assedio della città era iniziato il 9 novembre 1860. Dopo Gaeta caddero, nel marzo 1861, le due ultime due fortezze borboniche, quella di Messina e di Civitella del Tronto.
50 «La colonna di Fuoco», anno I, n. 5, in Archivio di Stato di Napoli, Carte della Luogotenenza, Ministero di Grazia e Giustizia, Corrispondenza con diverse autorità giudiziarie (1817-1861), f. 2280. Arcivescovo di Capua era il card. Giuseppe Cosenza (1788-1863) che quattro mesi più tardi celebrò con il canto del Te Deum nella «Festa Nazionale» del 2 giugno.
51 Ibidem.
52 Anche a Lucera era stato un giorno di festa con luminarie, trofei, banda musicale e «limosine ai poveri» (Ibidem).
53 B. Pellegrino, Leali o ribelli … cit., p. 55.
54 Altre proposte emerse in sede di dibattito riguardarono l’obbligatorietà alla partecipazione da parte degli alunni delle scuole, «perché la scolaresca è il fiore e la speranza dei popoli», nonché quella della magistratura, anche se il senatore Montanari espresse la sua disapprovazione non sapendo intendere «come i Magistrati in corpo ed in toga potessero partecipare ad una mostra di belle arti, d’industria» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 630).
55 La discussione in Senato si svolse il 15 aprile sulla base di una relazione svolta dall’ufficio centrale, composto dai senatori De Foresta, Jacquemoud, Di S. Martino, D’Adda e Montanari, relatore (Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Documenti 1° periodo dal 18 febbraio al 23 luglio 1861, VIII legislatura, Tip. Eredi Botta, Torino 1861, pp. 218-220). L’approvazione si ebbe con «72 voti favorevoli e 7 contrarii su 79 senatori». Nella corrispondenza pubblicata da «La Civiltà Cattolica» si precisava che i «sette voti contrari apparten[evano] a certi senatori, che, per essere tranquilli in coscienza, vota[vano] sempre, e a priori, contro tutte le leggi proposte in senato» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 630).
56 Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Documenti 1° periodo dal 18 febbraio al 23 luglio 1861, VIII legislatura, Tip. Eredi Botta, Torino 1861, pp. 218-220. Secondo il resoconto pubblicato su «La Civiltà Cattolica» il motivo di tale spostamento va ricondotto a una «questione atmosferica». Poiché nel mese di maggio pioveva o minaccia di piovere, e infatti nel giorno di festa di ogni anno era venuta «giù l’acqua a catinelle», si giunse alla decisione di spostare al mese successivo la celebrazione ogni anno («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 630).
57 Atti Parlamentari, Camera dei deputati, Documenti 1° periodo dal 18 febbraio al 23 luglio 1861, VIII legislatura, Tip. Eredi Botta, Torino 1861, pp. 218-220. La discussione in Aula faceva seguito alla relazione prodotta da un’apposita Commissione composta dai onorevoli Acquaviva, Menichetti, Leopardi, Mureddu, Atenolfi, Negrotto, Baracco, Ferrari e Macchi, relatore.
58 Anche da Napoli Silvio Spaventa precisava che lì dove appariva certo il rifiuto delle autorità ecclesiastiche, le Amministrazioni comunali dovevano astenersi dall’invitarle «per evitare collisioni» (A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione … cit., p. 233). Secondo «La Civiltà Cattolica» il pragmatismo adottato nella circostanza dalle nuove autorità nazionali stava a significare che esse iniziavano a rendersi conto dell’impossibilità di «vincere la coscienza sacerdotale» per cui «batte[vano] in ritirata» e «grida[vano] contro i Te Deum» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 133).
59 Il periodico gesuita commentava che la «malaugurata» circolare Minghetti elevava i sindaci dei Comuni a rango di vescovi cercando «qualche chiesa e qualche prete che nella prima Domenica di Giugno si prestasse a cantare» (Ivi, p. 751).
60 A giudizio de «La Civiltà Cattolica», la conversione dell’«antica festa dello Statuto» nella nuova «Festa dell’Unità italiana» aveva fatto divenire «illecita» la sua celebrazione religiosa «anche nelle antiche province dello Stato», cioè nei territori dell’ex Regno di Sardegna, «giacché era un ringraziare il Signore per l’iniquità fortunata, per la spogliazione del Vicario di Gesù Cristo» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 751).
61 Ad esempio il vicario capitolare di Milano, mons. Carlo Caccia, fin dal 10 maggio aveva indirizzato al clero una circolare in cui dichiarava di «non potersi prestare ad alcuna funzione religiosa» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, p. 752).
62 Il diniego manifestato dal vicario della diocesi milanese, mons. Caccia, offrì l’occasione a rivoluzionari, repubblicani e socialisti, «che in Milano sovrabbonda[va]no», di «tumultuare». A una nota della Giunta municipale meneghina che, senza tener conto della circolare già emessa, lo sollecitava a partecipare, egli, obbligato dal «più stretto dovere di coscienza … a non dipartir[si] dalla linea di condotta già adottata anche da altri reverendissimi Prelati, sì delle antiche che delle nuove province», ribadiva il diniego confermando quanto già espresso. Tuttavia «molti canonici del Capitolo Metropolitano di Milano» dichiararono che «avrebbero prestato il loro concorso a solennizzare la festa nazionale, se un ordine del loro superiore, l’Ill.mo Mons. Vicario Capitolare, non vi avesse opposto un formale divieto». Quando ciò divenne di dominio pubblico, la «plebe assodata cominciò a tumultuare». Domenica 19 maggio, giorno di Pentecoste, «certa gente, che non suole usare alle Chiese, recavasi in Duomo, dov’era Monsignor Caccia e gridava: Adesso lo finiamo». Il Vicario Capitolare trovò riparo prima in sagrestia, dove proruppe l’«onda di popolo» e poi in una «camera, dove stette chiuso per più di un’ora … Monsignore protetto dalla forza ebbe salva la vita e abbandonò Milano. Continuarono però le dimostrazioni contro la Curia, s’inferocì eroicamente, contro lo stemma arcivescovile, che fu abbassato, e posta in suo luogo una bandiera tricolore; e si obbligarono a sfrattare i principali officiali dalla Curia medesima. Solo sei Canonici seppero star fermi ed uniti al proprio superiore» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, pp. 753-754).
63 Quasi tutti i vescovi delle diocesi settentrionali finirono per pubblicare una circolare simile a quella emessa a Milano. Così fecero il «Vescovo di Saluzzo, quel di Casale, di Novara, di Cuneo, di Mondovì, d’Ivrea; gli Arcivescovi di Vercelli e di Genova, il Vescovo di Bergamo, di Brescia, di Ventimiglia, il Vicario Capitolare di Torino, quelli di Milano, d’Asti, di Fossano, d’Alba». Solo il vicario capitolare della diocesi di Sarzana dette, inizialmente, l’autorizzazione alla celebrazione religiosa, salvo, poi, ritirarla (Ivi, p. 752).
64 A S. Lorenzo la predica fu tenuta da un giovane prete, d. Achille Maione, il quale, a giudizio del periodico gesuita, pronunziò «tali e tante bestemmie, che parecchi dell’alta magistratura» abbandonarono la chiesa e lo stesso luogotenente, Ponza di S. Martino, se ne lamentò con il sindaco della città («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. XI, Roma 1861, pp. 119-120).
65 Nella chiesa di S. Francesco di Paola poiché non c’erano preti disposti a celebrare, la messa fu officiata da un religioso piemontese (Ibidem).
66 La messa fu celebrata da un «tal D. Gaetano Postiglione» che «in un breve sermoncino invitò al sangue, alla vendetta, al sacrilegio» mentre i pochi convenuti, dipendenti dei ministeri intervenuti «per timore del soldo», rimassero «inorriditi» (Ibidem).
67 Archivio di Stato di Napoli, Carte della Luogotenenza, Ministero di Grazia e Giustizia, Corrispondenza con diverse autorità giudiziarie 1817-1861, f. 2280.
68 Poiché tutti i preti lì detenuti si rifiutarono di celebrare la messa, «ad onta delle staffilate di che minacciavanli il Custode e l’Ispettore», la funzione religiosa fu celebrata da due preti non appartenenti alla diocesi napoletana, di cui uno già condannato e l’altro «imputato per gravissimi delitti comuni» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. XI, Roma 1861, pp. 119-120).
69 Pasquale Stanislao Mancini colse l’occasione per erogare un sussidio ai sacerdoti sospesi, mentre il luogotenente «concesse 17 pensioni a ecclesiastici benemeriti della causa nazione e modesti sussidi a sacerdoti liberali» (A. Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione … cit., pp. 188, 232).
70 Oltre ad avere la sede diocesana vacante in quanto l’arcivescovo Ventura era fuggito a Napoli, nella città costiera, come riferiva la rivista gesuita, i poveri avevano rifiutato il pane che le autorità nazionali intendevano distribuire in occasione della Festa del 2 giugno ritenendolo un «pane scomunicato» («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. XI, Roma 1861, p. 123).
71 Cfr. nota n. 33.
72 Archivio di Stato di Napoli, Carte della Luogotenenza, Ministero di Grazia e Giustizia, Corrispondenza con diverse autorità giudiziarie 1817-1861, f. 2280.
73 Ibidem.
74 Secondo «La Civiltà Cattolica», il governo nazionale avrebbe voluto «gastigare» il mancato intervento del clero alla «Festa nazionale» con una «rappresaglia» proibendo, cioè, alla magistratura, alle Università e al corpo insegnante di partecipare alla Festa del Corpus Domini del 30 maggio successivo. Quando poi i ministri di Grazia e Giustizia e quello dell’Istruzione si accorsero della «bassezza» e della «contraddizione» della loro disposizione, emisero una nuova circolare con cui consentivano la partecipazione delle autorità civili a tale celebrazione religiosa («La Civiltà Cattolica», a. XII, vol. X, Roma 1861, pp. 752-753).
75 E. Wulzer (a cura di), Note sul brigantaggio postunitario … cit., p. 50, n. 25.
76 Cfr. nota n. 49.
77 Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere (1860-1863), in «Pio IX. Studi e ricerche sulla vita della Chiesa dal Settecento ad oggi», a. IV, n. 2, maggio-agosto 1975, pp. 220-221.
78 Nato il 18 novembre 1798 a Trevico, in provincia di Avellino, era stato nominato vescovo della diocesi di Sora il 23 settembre 1838 insediandosi il primo novembre successivo.
79 A cantare il Te Deum nella Cattedrale parrebbe essere stato d. Gaetano Rufo, parroco di San Donato Val di Comino, il quale rivolto ai sacerdoti officianti avrebbe affermato «Ahimé, ahimé, contro la forza la ragion non vale» (T. Vizzaccaro, Atina e Val di Comino, Lamberti ed., Cassino 1982, pp. 223-224).
80 C. Jadecola, Al tempo dell’Unità tra regnicoli e papalini, Philia litografica, Castrocielo 2011, p. 24. In una circolare di qualche giorno prima il vescovo aveva scritto che «niuno [aveva] il diritto di violare l’altrui libertà, niuno [poteva] obbligare a offendere Dio» e nel caso in cui lui e i sacerdoti avessero avuto «a soffrire» a causa della risposta «negativa», avrebbero «ringrazia[t]o ulteriormente Gesù Cristo» (C. Marsella, I Vescovi di Sora, Tipografia Vincenzo D’Amico, Sora 1935, pp. 250-251).
81 E. Wulzer (a cura di), Note sul brigantaggio postunitario … cit., p. 50, n. 24.
82 E. M. Beranger, Riflessioni sull’opera “Appunti e ricordi ossia brevi memorie del sacerdote Antonio Cocumelli già canonico di Roccaguglielma ed abate curato di Civitella Roveto, ora Arciprete parroco dell’insigne collegiata e parrocchiale chiesa di Santo Stefano protomartire di Fontana Liri” in «Quaderni Coldragonesi» 5, Comune di Colfelice 2014, p. 87.
83 «La Campania», a. 1, n. 25, Napoli 28 giugno 1862.
84 Nel maggio 1862 il parroco di Alvito continuava a recitare le preghiere ordinate da Montieri «in luogo dell’oremus pro rege prescritto dai nuovi governanti» (E. Wulzer, a cura di, Note sul brigantaggio postunitario … cit., p. 35).
85 Si sentì male nel salire le scale del Vaticano e il 12 novembre 1862 «moriva povero e solo» (C. Marsella, I Vescovi di Sora … cit., pp. 252-253). Dopo la morte di Montieri la diocesi rimase vacante per ben dieci anni e solo nel 1872 mons. Paolo De Niquesa poté insediarsi nella sede sorana.
86 Le Brevi memorie erano state vergate, come scriveva, in «epoca funestissima in cui in Italia cominciò la rivoluzione, e si usurparono le prime Province del Patrimonio di S. Pietro» nonché «furono imprigionati arcivescovi e vescovi furono esiliati cardinali furono arrestati Parrochi e Canonici». Conosceva gli sconvolgimenti verificatisi nel corso del 1860 e 1861 e sapeva che si era iniziato «a molestare il Clero per il Canto del Te Deum» (E. M. Beranger, Riflessioni sull’opera “Appunti e ricordi … cit., pp. 77-90).
87 La lettera fu pubblicata da «Il popolo d’Italia», 28 luglio 1862, n. 207 p. 815. Si può verosimilmente ritenere che il testo della lettera sia stato redatto da d. Benedetto Scafi in quanto la questione del potere temporale dei papi si ritrova, sviluppata e articolata, nel suo volume intitolato Notizie storiche di Santopadre che il sacerdote pubblicò nel 1871 presso la Tip. Carlo Pagnanelli di Sora. Nel volume d. Benedetto si scagliava contro il potere temporale scrivendo che il pontefice «o non avrebbe dovuto accettare un regno terreno a imitazione del divin Capo e Maestro Gesù Cristo», oppure l’«accettazione non doveva servire che a portare ad atto quelle sante massime evangeliche di perfetta carità». Nel volume appare degna di nota pure la critica serrata alla Corte pontificia in merito all’applicazione della pena di morte, poiché la «missione della legge è di rendere migliore l’uomo, non già di distruggerlo» o condannare al rogo le persone e così confidava nell’abrogazione da parte del nuovo Stato unitario per cui si mostrava fiducioso che «quello che non si è saputo dare dalla Roma teocratica, si farà quanto prima dalla Roma italiana» (C. Jadecola, Don Benedetto Scafi. Una tonaca per l’Italia, in «Studi Cassinati», a. XI, n. 2 aprile-giugno 2011, pp. 136-140). Anche il monaco cassinese d. Luigi Tosti era contrario alla pensa di morte. Scriveva infatti nell’estate 1861, in un momento di brigantaggio imperversante che aveva causato la fucilazione di due contadini di San Germano, probabilmente manutengoli: «Questa pena di morte è un demonio che non arriva ancora a snidarsi dalle società incivilite!» (T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., p. 209).
88 D. Simplicio, al secolo Giuseppe, Pappalettere era nato a Barletta il 7 febbraio 1815. Nel 1836 venne ordinato sacerdote a Montecassino. Fu docente di filosofia e dal 1845 si occupò del seminario dell’abbazia cassinese. Dal 1846 ricoprì l’incarico di vicario generale, cui sommava il titolo di priore. Subì, assieme a d. Luigi Tosti e al fratello d. Michele Pappalettere, direttore della Tipografia di Montecassino, le conseguenze della reazione borbonica dopo le vicende rivoluzionarie della primavera del 1848 con arresti e obbligo di dimora a Napoli. Nel 1852 fu nominato abate cancelliere della Congregazione benedettina e come tale andò a risiedere a Subiaco, poi l’anno successivo passò a Roma in qualità di abate del monastero di S. Paolo e quindi nel 1858 a Montecassino (A. Ciampani, Pappalettere Simplicio, in «Dizionario biografico degli italiani», vol. 81, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2014, pp. 261-263).
89 Il Consiglio Comunale tenutosi il 23 maggio 1863 all’unanimità deliberò di abbandonare la denominazione medievale di San Germano per riacquisire quella più antica di Cassino. Il deliberato consiliare ottenne l’autorizzazione sovrana con Regio Decreto 26 luglio 1863 n. 1425 (G. de Angelis-Curtis, Le variazioni della denominazione dei Comuni dell’alta Terra di Lavoro, Cdsc-Onlus, Cassino 2013, pp. 112-121).
90 D. Luigi Tosti in quel giorno così scriveva a mons. Alfonso Capecelatro: «L’hanno tutti veramente osannato. Ben tredici carrozze gli uscirono incontro a nove miglia di distanza. Banda spari e molto popolo … Il solo Priore [d. Carlo de Vera] e Michelino [Pappalettere, fratello di don Simplicio] andarono ad incontrar l’Abate. I religiosi tutti in Convento, col pensiero e con le campane incontro all’Abate. Che volete? Tutto ha sommerso la rivoluzione francese ma sono certi luoghi come Montecassino che non si arrendono alle rivoluzioni. Comandano sempre con le loro memorie. L’ingresso dell’Abate in San Germano non era quello del primo Barone del Regno di una volta, ma pure quella spontanea uscita di carrozze, quella festa, quel popolo diceva che qualche cosa degli antichi Abati avanzava … L’ingresso nel monastero fu più liturgico» (T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., p. 205).
91 D. Luigi Tosti (1811-1897) di nobile famiglia napoletana, nel 1819, giovanissimo, entrò nel cenobio cassinese. Fu tra i più importanti storici italiani. A soli diciotto anni iniziò a scrivere la Storia di Montecassino, terminata nel 1842, nella quale manifestò le tendenze neo-guelfe poi formulate da Vincenzo Gioberti. Al pari di d. Simplicio Pappalettere aveva patito le conseguenze della reazione borbonica dopo il 1848 (M. Rosi, a cura di, Tosti Luigi, in Dizionario del Risorgimento nazionale dalle origini a Roma capitale. Fatti e persone, vol. III, Vallardi, Milano 1933, p. 468).
92 Furono ricevuti in udienza a Napoli dai vari luogotenenti delle province meridionali che si avvicendarono e cioè da Luigi Farini a fine 1860, da Eugenio di Savoia-Carignano il 12 marzo 1861 e quindi da Gustavo Ponza di S. Martino. Incontrarono Costantino Nigra, segretario generale di Stato, il quale tra il marzo e il maggio 1861 intrattenne con i due cassinesi una fitta corrispondenza, poi videro il ministro dei LL.PP Ubaldino Peruzzi e il guardasigilli Vincenzo Miglietti.
93 Immediatamente dopo l’Unità d’Italia d. Luigi Tosti operò un primo tentativo concialiatorista che, tuttavia, già a fine aprile 1861 può considerarsi «chiuso». Di fronte all’intransigenza espressa da Pio IX il 18 marzo 1861 con l’allocuzione «Iamdudum cernimus», d. Luigi Tosti, «genuflesso innanzi al non possumus», si fermò non volendo rompere «il vincolo di soggezione al Vicario di Cristo». Come egli stesso scrisse «io son cattolico, e per un cattolico il Papa è un dogma. Se Pio IX avesse detto nolumus, sarei andato a toccare questa parola, perché informata di una volontà; ma il non possumus è gravido di un dovere, e i doveri si adorano e non si toccano … il silenzio e l’adorazione non è innanzi al dovere, ma innanzi al Papa» (T. Leccisotti, Uno dei tentativi di conciliazione del 1861, in «Archivio storico per le province napoletane», a. II, LXXXXI, Società napoletana di Storia patria, Napoli 1963, pp. 425, 428). A tale primo tentativo ne fecero seguito altri due e cioè un «disegno di pace» vagheggiato nel 1868 e quindi, nel 1887, un altro progetto di conciliazione con l’allora presidente del Consiglio, Francesco Crispi, portato avanti con l’approvazione di papa Leone XIII ma poi sconfessato (A. Capecelatro, Commemorazione di d. Luigi Tosti abate cassinese, Montecassino 1898, pp. 67, 80).
94 Cfr. nota n. 35.
95 «In tempi difficili e di penose transizioni» l’abate «fu scudo e difesa per la popolazione» di San Germano e, operando «con finissimo accorgimento, riuscì a mantenere l’ordine pubblico» e a preservare la città «da invasioni saccheggi e devastazioni» (T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., pp. 205, 208).
96 Il sacerdote era d. Benedetto Retta e le intemperanze anticlericali nel corso della messa serale furono dovute a cinque componenti della Guardia Nazionale di S. Germano. I cinque, accusati di aver provocato disordini nella chiesa e di aver ingiuriato, furono sospesi dalla milizia cittadina (Archivio di Stato di Caserta, Prefettura, Gabinetto, b. 237, f. 2128).
97 D. Angelo Pescetelli (1809-1885), ordinato sacerdote nel 1831, insegnò diritto canonico nel collegio romano di S. Anselmo e poi, per più anni, nell’università di Modena. Fu quindi priore e poi, nel 1846, abate di S. Pietro di Modena. Divenuto inviso al duca della città emiliana, passò a S. Pietro in Perugia e nel 1852 fu nominato procuratore generale della congregazione cassinese. Nel 1858 fu eletto abate di S. Paolo a Roma, sostituendo d. Simplicio Pappalettere passato a Montecassino. Nel 1860 riprese anche la carica di procuratore generale della congregazione (T. Leccisotti, Uno dei tentativi di Conciliazione … cit., p. 421).
98 T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., p. 214.
99 Le prime disposizioni vaticane furono «contraddittorie» in quanto limitavano il divieto al solo Stato Pontificio (G. Martina, Pio IX … cit., p. 132).
100 Alla precisa domanda posta dal card. Capecelatro, don Luigi Tosti rispose che a Roma era «dispiaciuto» il canto del Te Deum e si «mormorò». Tuttavia, a suo giudizio, l’abate Pappalettere era giunto a celebrare la «Festa nazionale» allo scopo di scongiurare la soppressione di Montecassino salvaguardando la giurisdizione spirituale e le rendite (T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., p. 219 n. 19).
101 Cfr. nota n. 76.
102 T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., pp. 220-221. Sulla vicenda del canto del Te Deum nel Mezzogiorno cfr. note nn. 63-72.
103 Non era la prima volta che Pappalettere si rivolgeva a Vittorio Emanuele II. L’aveva già fatto nel 1861 cogliendo probabilmente l’occasione per «invocare anche aiuti per l’asilo di S. Germano». Anche successivamente «nel giugno del ‘62 intercedeva per le monache di S. Scolastica, appellandosi direttamente al Re» (T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., p. 236, n. 39bis).
104 Il quotidiano «La Nazione» di Firenze nel n. 152 del 1° giugno 1862 la pubblicò integralmente e poi fu ripresa da altri giornali.
105 Cfr. nota n. 18.
106 T. Leccisotti, A proposito di un autografo manzoniano, in «Archivio Storico Pugliese», a. XVI, 1961, Casa ed. Cressati, Bari 1961, pp. 111-112.
107 Cfr. nota n. 32.
108 Il successore di d. Simplicio Pappalettere fu d. Carlo de Vera. Il decreto di sostituzione fu esecutoriato dal procuratore generale della Corte di appello di Napoli, e il regio exequatur e la pubblicazione della nomina si ebbero nell’agosto 1863.
109 Cfr. G. de Angelis-Curtis, Don Simplicio Pappalettere e le dimissioni da abate nel 1863, in «Studi Cassinati», a. XIII, nn. 1-2, gennaio-giugno 2013, pp. 96-103.
110 Il 21 aprile 1869 il prefetto di Terra di Lavoro trasmetteva al ministero di Grazia e giustizia e dei culti a Firenze l’istanza prodotta da d. Simplicio Pappalettere, ex abate di Montecassino, tesa a ottenere il «godimento della pensione» che era stata «accordata dalla legge ai suoi confratelli nel mese di giugno» dell’anno precedente. Il prefetto precisava, forse per giustificare il ritardo di quasi un anno della redazione della richiesta, che Pappalettere era «testé ritornato da Roma», aggiungendo che nella città capitolina «era stato trattenuto per ordine del Papa, contro la sua volontà». Specificava, infine, che conosceva «personalmente il sig. Pappalettere» e pertanto si permetteva di «raccomandare a codesto Ministero l’accennata istanza, e mi lusingo che sarà favorevolmente accolta». Il 14 maggio 1869 il ministero chiedeva che, «nello intento di evitare inutili ulteriori reclami», l’istanza fosse corredata dai «prescritti dall’articolo 15 del regolamento 21 luglio 1866» relativamente, cioè, «alle sue fedi di nascita, di professione religiosa, di ordinazione al sacerdozio e di pertinenza all’ordine» (Archivio di Stato di Caserta, Prefettura, Gabinetto b. 42, f. 531, Domanda di pensione dell’ex abate di Montecassino sig. Simplicio Pappalettere).
111 T. Leccisotti, Pio IX e il «caso» dell’Abate Pappalettere … cit., pp. 270-273 e n. 70.
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