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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 1-2
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Dopo il 10 settembre 1943 l’intensificarsi degli eventi bellici man mano che il fronte di guerra si avvicinava alla Linea Gustav determinò all’allontanamento di migliaia di civili da Cassino e dai paesi limitrofi. Inizialmente fu un esodo volontario sulle montagne circostanti, salendo sempre più di quota, che precedette il trasferimento coatto in centri dell’Italia centro-settentrionale e poi in quelli meridionali.
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10 settembre 1943: la guerra irrompe fragorosamente e mortalmente a Cassino con la città che subì il suo primo bombardamento, un martirio conclusosi con la distruzione totale. Secondo le primissime notizie il bombardamento aveva causato un’ottantina di vittime, stima, però, sicuramente al ribasso anche se il numero esatto e totale non fu mai possibile accertare. In quei frangenti ebbe inizio il primo grande afflusso di rifugiati a Montecassino e nei dintorni. In seguito ai danni provocati da quella prima incursione aerea trovarono rifugio in abbazia un centinaio di civili, di religiosi e religiose. Nel pomeriggio dello stesso 10 settembre salirono a Montecassino le Suore della Carità (la loro casa, «costruita accosto al Palazzo Abbaziale», era stata molto danneggiata)1, le Suore Stimmatine con l’orfanotrofio (una cinquantina di orfanelle)2 e tutte furono alloggiate al primo piano del Collegio. I civili trovarono riparo nella foresteria, le «donne oltreché a S. Agata furono sistemate nell’infermeria presso la farmacia», altri, come la famiglia di Mario Forlino3, si rifugiarono nei locali di S. Giuseppe. Da quei momenti la comunità monastica benedettina, oltre all’ospitalità, dovette provvedere pure al sostentamento di quel centinaio di persone per cui si ricorse alle «provviste delle Suore fatte portare» da Cassino, nonché riducendo le portate
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11 settembre 1943: giungono a Montecassino parte delle Suore Benedettine e altre persone del loro monastero (complessivamente una trentina tra coriste e converse)4. Furono alloggiate al «secondo piano del Collegio dove dimorarono come in clausura, prendendo ivi i pasti, e uscendo solo per recarsi in Chiesa, alla Messa e Vespri, la domenica e le feste solenni».
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13 settembre 1943: a Montecassino viene celebrata una Messa in suffragio delle vittime del primo bombardamento
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4 ottobre 1943: secondo bombardamento di Cassino
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10 ottobre 1943 ore 21: terzo e nuovo intenso bombardamento di Cassino in conseguenza del quale si verifica un «nuovo e molto più esteso afflusso di rifugiati a Montecassino». Così nella badia «salirono tutte le Benedettine, che avevano avuto danni sensibili al monastero, e anche i “curiales” (d. Faustino Le Donne, d. Ermanno Salvatore, fra Tommaso Nasta)». Rimasero in città un «monaco (d. Oderisio Graziosi), un converso (fra Bruno Puglisi) e un cameriere (Luigi Aceti)». Salirono sul monte un migliaio di persone che si riversarono in parte nel monastero, in parte nelle vicinanze (S. Onofrio, Albaneta, Monte Calvario). Nella masseria «La Valletta», di proprietà di Benedetto Viola, giunse la famiglia De Angelis composta dal padre, maresciallo di P.S., e dai figli Aldo e Fulvio con quest’ultimo che annotò le vicende su un taccuino5. Invece i civili giunti in abbazia furono ospitati nella foresteria che fu separata «con tramezzi in muratura dal rimanente monastero. Le donne di migliore condizione furono messe nell’appartamento cardinalizio; tutto il vasto corridoio fu occupato da giacigli e bagagli vari: anche nel corridoio della Curia stazionavano le famiglie (ci fu pure un parto in tale settore), e perfino lo scalone d’ingresso monumentale serviva d’alloggio»
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16 ottobre 1943: d. Bonifacio Fiore, maestro degli alunni monastici, con alcuni di loro, per ordine di d. Gregorio Diamare, lasciano Montecassino e a piedi, passando per l’Albaneta, raggiungono Terelle paese d’origine di d. Germano Savelli, anch’egli alunno monastico. Tutti si sistemarono in casa della famiglia Savelli. Il giorno successivo, con il camion di Montecassino, giunsero a Terelle anche le suore della Carità e le Stimmatine (in tutto una quindicina) più le orfanelle. Alcune presero alloggio anch’esse in casa Savelli, le altre monache e le bambine trovarono «aiuto e rifugio» presso le suore Adoratrici6. Pure d. Mauro Inguanez, l’archivista cassinese di origine maltese che temeva per la sua vita essendo suddito britannico7 nonché vari civili giunsero nel paesino di montagna
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19 ottobre 1943: prende avvio l’operazione di salvataggio dei beni artistici e culturali di Montecassino. Con i camion messi a disposizione dai tedeschi fu possibile portare a Roma anche religiosi e civili. D. Tommaso Leccisotti fu il primo della comunità cassinese a lasciare l’abbazia e nell’arco di una quindicina di giorni religiosi e civili poterono così essere trasferiti nella capitale8
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3 novembre 1943: la gente ricoverata da settembre è partita quasi tutta. A Montecassino rimasero circa 150 persone tra coloni, prevalentemente nelle loro case, qualche domestico e uno sparuto gruppetto in rappresentanza dell’ottantina di componenti della comunità religiosa (tra monaci professi, novizi, conversi e aspiranti monaci). Si trattava di 13 religiosi autorizzati dal comando tedesco a permanere nel monastero: il settantanovenne abate d. Gregorio Diamare, sei monaci (d. Eusebio Grossetti di a. 339, d. Martino Matronola di a. 40, d. Agostino Saccomanno di a. 34, d. Nicola Clemente di a. 33 e d. Oderisio Graziosi di a. 39), un sacerdote secolare (d. Francesco Falconio) cinque conversi (fra Carlomanno Pelagalli di a. 79, fra Pietro Nardone di a. 39, fra Giacomo Ciaraldi di a. 30, fra Romano Colella di a. 24, fra Zaccaria di Raimo di a. 30) e un oblato (Giuseppe Cianci).
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novembre 1943: riprende il pellegrinaggio di civili verso Montecassino, che trovano sistemazione nel collegio o a S. Giuseppe
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14 novembre 1943 (domenica): d. Agostino Saccomanno celebra all’Albaneta la S. Messa
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17 novembre 1943: d. Agostino Saccomanno si porta «presso la voltata di Carlino per somministrare i Sacramenti a un vecchio moribondo»
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18 novembre 1943: muoiono due sfollati, la zia di d. Girolamo Panaccione all’Albaneta e poi un uomo in una grotta
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19 novembre 1943: «la miseria e la fame aumentano ogni giorno»
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22 novembre 1943: muoiono una donna e una bambina in una grotta
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25 novembre 1943: i tedeschi rastrellano uomini e animali da lavoro (asini). «Particolarmente straziante la cattura di un pover’uomo con moglie malata e dieci figli piccoli» che però riuscì a fuggire. Anche qualche soldato «si commosse a vedere tanti strazi e dolori di povere famiglie rovinate»
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27 novembre 1943: d. Eusebio Grossetti riesce a convincere il comandante della gendarmeria tedesca ad autorizzare la permanenza a Montecassino di dieci famiglie di coloni e di otto domestici, redigendo un elenco con i loro nominativi e dichiarando che si trattava di «persone sicure e che tra loro non vi [erano] spie». Coloni e operai, con le loro famiglie, furono autorizzati a permanere in edifici adiacenti al monastero e «trovarono alloggio parte in un corridoio cieco sotto i Musei di Scienze Naturali, con un’entrata esterna situata ad ovest, parte nell’edificio chiamato S. Giuseppe a circa 70-90 m. dalle mura del Monastero»
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28 novembre 1943: i coloni si trasferiscono all’interno del monastero portando le «loro masserizie che [furono] depositate nello scalone d’onore» mentre essi si sistemarono a S. Giuseppe oppure nel sotterraneo del Collegio detto «La Conigliera»
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29-30 novembre 1943: evacuazione coatta dei civili operata dai tedeschi a Cassino e nei paesi del Cassinate. A Montecassino l’evacuazione interessò i «civili rifugiatisi nelle grotte e negli edifici adiacenti al monastero»
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10 dicembre 1943: nuova evacuazione coatta di civili da parte dei tedeschi che con vari camion portano via «parecchia gente da S. Giuseppe e dintorni» mentre i monaci cercavano con la loro «presenza di alleviare questa tristissima operazione». Tuttavia molte persone disobbedirono agli ordini poiché preferirono «darsi alla macchia per la montagna e rifugiarsi di notte» negli edifici adiacenti alla badia, «anzi altri ne sopravvenivano con la convinzione di essere al sicuro all’ombra del Monastero».
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13 dicembre 1943: il comando tedesco chiede all’abate Diamare di ridurre al minimo il numero di operai e coloni che erano stati autorizzati alla permanenza sulla base dell’elenco stilato il 27 novembre
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14 dicembre 1943: alcuni familiari portano la «salma di un bambino di 17 mesi» che viene seppellita a S. Agata. «Da due giorni si sta[va] seminando nei pressi del monastero e nell’orto» così come si stava provvedendo a sistemare la «vigna sotto il seminario»
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17 dicembre 1943: «ricomincia a venire gente a Montecassino o meglio nella zona: i tedeschi stessi l’invogliano a venire, dicendo che non sarà distrutto perché zona internazionale». Quei civili di notte si accampavano negli edifici adiacenti al monastero e di giorno «si da[vano] alla macchia per non farsi prendere dai Tedeschi». In quei frangenti, comunque, si provvedeva alla raccolta delle olive «non lungi dal monastero» mentre il granturco prodotto dai coloni veniva portato con il camion a un mulino di Piumarola per la macina
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20 dicembre 1943: tra i civili rifugiati nelle vicinanze si trovano «diversi ammalati con febbri strane», «febbri alte», con temperatura corporea di «39°-40°». Ancora molta gente cercava rifugio a Montecassino portandosi dietro animali e masserizie, trasformando il monastero nell’«arca di Noè»
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21 dicembre 1943: «Molti malati ancora con febbri alte». Ancora molta gente cercava rifugio a Montecassino portandosi dietro animali e masserizie, trasformando il monastero nell’«arca di Noè». Il camion di Montecassino continuava a fare la spola per ritirare quintali di grano
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28 dicembre 1943: nuova evacuazione coatta dei civili da parte dei tedeschi. Alle resistenze delle persone che non volevano andar via i soldati tedeschi rispondevano «con modi brutali, usando sferza e bastoni» e spingendo quei poveretti come animali. Agli spintoni si aggiunsero poi anche qualche schiaffo e qualche bastonata sulla schiena di chi «voleva prendere un po’ di roba da portarsi appresso» poiché quei «soldati disumani» impedivano di avere bagagli e «poi frugavano a loro agio nelle valigie». Si vissero «molte scene strazianti» e non fu possibile salvare dallo sfollamento un soldato dell’osservatorio, Ubaldo Dematteis, che si era aggregato a una famiglia «quasi fidanzato con una delle figlie». Invece le persone che si trovavano all’interno del monastero non furono interessate perché i tedeschi non entrarono in abbazia. Così non fu prelavata la famiglia di d. Francesco Falconio nascosta nel «forno» e rimase anche il dott. Filippo Matronola, cugino di d. Martino, incluso «nella nota degli inamovibili». Quando venne dato il segnale che il pericolo era cessato «si videro sbucare dovunque persone di ogni sorta» che raggiunsero il monastero e furono sistemati nello scalone mentre i malati furono «messi tutti nella infermeria»
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29 dicembre 1943: i tedeschi ordinano all’abate Diamare di compilare un nuovo elenco di «coloni e dipendenti» da autorizzare a rimanere a Montecassino, riducendo al minimo il loro numero (furono inclusi il dott. Filippo Matronola e l’infermiere Gennarino con la sua numerosa famiglia, installatosi già da tempo a S. Agata). «Verso sera dalla “Fossa” [venne] portato un uomo morto di polmonite acuta, presa nello sfuggire ai Tedeschi»
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5 gennaio 1944: nuovo ordine di sgombero totale di Montecassino emanato dai tedeschi. Il Comando Supremo del Sud aveva disposto l’evacuazione di tutti i civili, «senza alcuna eccezione». Nella mattina di quella «tristissima fra tristi giornate», giunsero tre camion per il trasbordo e prima dell’una partirono «quasi tutti i coloni», molto personale del monastero e anche la famiglia di d. Francesco Falconio
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6 gennaio 1944: altre persone sono portate via con tre camion il giorno dell’Epifania con destinazione iniziale a Ferentino. Tra pianti, dolori e disagi, e anche rabbia e imprecazioni contro i monaci da parte di quelli che ritenevano i benedettini responsabili dello sgombero, venne completata l’operazione di «evacuazione radicale del monastero e dei dintorni». Ancora una volta però parecchie persone si dettero «alla macchia» mentre altre, di nascosto, si andarono a rifugiare «nei locali sotto l’archivio, con apertura esterna», oppure alla foresteria di S. Agata. In quei frangenti si venne a porre il problema degli ammalati ricoverati nell’infermeria che, «dopo non amichevole discussione» e tra ordini e contrordini, furono autorizzati a rimanere nel monastero. Si trattava di una ventina di persone tra malati, di cui tre molto gravi, e i loro familiari che poterono rimanere solo in considerazione dell’«impossibilità del trasporto», del loro numero elevato e della gravità del male. Tuttavia fu costretto a lasciare il monastero anche il dott. Matronola e la sua famiglia. Anche l’abate e i monaci furono sollecitati a evacuare il monastero. Risolutamente mons. Diamare fece presente che essi intendevano rimanere in abbazia per «custodire il venerato Sepolcro di San Benedetto» e «non si sarebbero mossi da Montecassino se non con la violenza». Sostanzialmente rimasero a Montecassino, obbligatoriamente entro le mura, tre famiglie di dipendenti che avevano bambini «gravemente infermi» mentre gli «edifici di S. Agata (a oltre 200 m. dal monastero) e di S. Giuseppe (a 70-90 metri)», oltre al recinto dell’orto ricadevano in una «zona interdetta ai militari»
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7 gennaio 1944: «Ultimo prelevamento (“carico”) di sfollati (in prevalenza coloni) da Montecassino ad opera dei Tedeschi» che si mostrarono «più trattabili dei giorni scorsi». Dopo discussioni, ordini e contrordini gli ammalati ricoverati nell’infermeria e le rispettive famiglie furono autorizzati a rimanere in abbazia. Terminò così l’«evacuazione radicale del monastero e dei dintorni» anche se parecchie persone preferirono «darsi alla macchia», qualcuno si rifugiò nei locali sotto l’archivio, con apertura esterna, e altri da Montecassino raggiunsero Terelle10
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8 gennaio 1944: d. Eusebio Grossetti termina «di sistemare il cimitero a S. Agata, con nomi, croci ecc.» dando anche sepoltura a due salme, quella di una persona giunta il giorno precedente e quella di un «piccino» portato nella mattinata
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10 gennaio 1944: la famiglia del maresciallo di P.S. De Angelis si sposta dalla masseria «La Valletta» a S. Onofrio su cui, contemporaneamente, convergevano «molte persone». Muore una delle malate ricoverate nell’infermeria, Lucia Verrecchia, una ragazza tredicenne figlia del cuoco Orazio; d. Eusebio Grossetti di apprestò a preparare egli stesso la cassa diventando così il «becchino ufficiale»
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11 gennaio 1944 (martedì): alle nove di sera la «prima granata anglo-americana» colpisce il monastero cadendo nel chiostro d’ingresso dove provoca la rottura di vetri con le pareti circostanti crivellate
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15 gennaio 1944: la famiglia di Mario Forlino, alla ricerca di un «rifugio più sicuro», si trasferisce nelle grotte di S. Agata ma dopo tre giorni fece ritorno a S. Giuseppe a causa della «difficile convivenza» determinatasi con altre «persone asociali». Nella notte precedente molte granate erano arrivate «a S. Onofrio, ancora pieno di civili» alcuni dei quali chiesero «ospitalità nel monastero» mentre altri sfollati se ne tornarono verso Cassino «a cercare miglio rifugi».
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16 gennaio 1944: viene seppellito a Montecassino un bambino di otto anni morto a Montemaggio.
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18 gennaio 1944: bombardamento della zona «Fossa» nel corso del quale rimane uccisa una donna e molte altre furono «ferite, tra cui una bimba di 20 mesi» per cui furono trasportate a Montecassino per essere curate. Alla sera i civili sfollarono dalla località «Fossa»
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19 gennaio 1944: parecchi feriti, «alcuni assai gravi», dell’azione del giorno precedente alla «Fossa» e altrove giungono a Montecassino. Molti «residui» di Cassino, uomini e donne provenienti da «Pozzo Alvito, M. Maggio ecc. S. Onofrio» che era «molto popolato», sbucarono fuori «dalle caverne, dai boschi, dalle rare masserie, con un’unica meta agognata ma ancora impossibile: Montecassino»
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20 gennaio 1944: ancora parecchi feriti, «vecchi e nuovi», arrivano verso le 10 a Montecassino e, reputando «sicuro il monastero per la propaganda fatta dagli stessi Tedeschi», iniziano a «invadere gli edifici adiacenti» alla badia
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21 gennaio 1944: dopo l’intenso cannoneggiamento del giorno precedente a S. Onofrio, la famiglia di Fulvio De Angelis si trasferisce prima all’edificio di S. Giuseppe, che vedeva l’afflusso continuo di persone, e nella sera del 22 alla «conigliera» di Montecassino dove era già giunta la famiglia di Benedetto Viola. A Montecassino moriva il figlioletto del portinaio con d. Eusebio Grossetti che costruì una «nuova cassetta per il piccolo»
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23 gennaio 1944: ancora «fuoco violentissimo d’artiglieria» per cui ricomincia la processione di civili verso il monastero. S. Giuseppe e non solo, si andò riempiendo di nuovo e trecento persone vi si installarono mentre altre raggiunsero la conigliera che venne «ad essere ultrasaturata». Erano «stati i Tedeschi stessi» a mandare i civili a S. Giuseppe «da S. Onofrio, Monte Maggio, ecc.: [era] una vera babilonia tra i loro ordini e contrordini»
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24 gennaio 1944: granate colpiscono la «Valletta» e il «Fortino» provocando «4 morti e 3 feriti» per cui riprese la «processione dei civili che corr[evano] a rifugiarsi a S. Giuseppe»
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25 gennaio 1944: intensa attività di lancio di granate (definita come una «americanata: circa 10.000») che colpiscono Montecassino e le zone circostanti per cui «continuò a rifugiarsi gente» attorno alla badia
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26 gennaio 1944: le bombe cadute nel monastero feriscono alcuni civili
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27 gennaio 1944: «a parecchi malati è risalita la febbre» e pure d. Eusebio Grossetti si mise a letto con «40° di febbre»
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28 gennaio 1944: «ancora e sempre gente che viene [a Montecassino] a chiedere il pane»
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31 gennaio 1944: «A S. Giuseppe continua l’afflusso di gente dalle masserie e da Cassino. Solo a S. Giuseppe vi saranno un 300 persone». In quei drammatici frangenti tra gli sfollati si alternavano decessi e nascite, morte e nuova vita. A Montecassino fu battezzato Benedetto Pittiglio di Francesco nato qualche ora prima in un nascondiglio sotto l’archivio che era stato utilizzato per nascondervi gli uomini per farli sfuggire alle retate dei tedeschi. Nell’angusto ambiente dove si era rifugiata la famiglia Pittiglio, giuntavi a metà gennaio, si trovava pure la famiglia di Tommaso Miele (i coniugi e due figlie). Negli stessi momenti a Monte Maggio si celebravano le esequie di un ragazzo diciottenne morto alla Valletta
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1 febbraio 1944: molte persone provenienti da Cassino, dalla piana e da Pozzo Alvito, costrette ad abbandonare i loro rifugi dai tedeschi, giungono a Montecassino e nelle vicinanze. Nel sottopassaggio dell’orto dell’abbazia trovarono ricovero un «centinaio di persone» mentre S. Giuseppe era «strapieno di gente». Fu somministrata l’Estrema unzione a un anziano ricoverato a S. Giuseppe. Tra i rifugiati c’erano le famiglie Di Murro e De Rosa (Fernando con il padre Antonio, la madre e il fratello Umberto). La famiglia De Rosa non riuscì ad accedere in quell’occasione all’interno del monastero per cui decise di ridiscendere al convento di S. Giuseppe. Lì trovarono una gran massa di persone «affluiti da ogni dove: da San Giorgio a Liri, Ausonia ed Esperia; da Sant’Apollinare e Sant’Ambrogio sul Garigliano, da Cervaro, da Vallerotonda; da Aquino, Villa Santa Lucia e Colle S. Magno», tutti scappati dai proiettili e dai bombardamenti, «inseguiti dalla morte. E tutti percossi da freddo, fame e paura». Nell’immenso stanzone all’interno dell’edificio al pian terreno e in quello superiore «giacevano pacchi, coperte, suppellettili e arnesi di ogni genere» nonché una lunga distesa di materassi e c’erano bambini «vociferanti dappertutto». All’esterno un «via vai di persone» che si prodigavano nell’«allestire fornelli improvvisati»
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4 febbraio 1944: il convento di S. Giuseppe è ripetutamente colpito. I rifugiati avrebbero voluto entrare nel monastero per cui tentarono di sfondare, inutilmente, il portone dell’abbazia per mettersi al sicuro
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5 febbraio 1944: intenso bombardamento su S. Giuseppe con il crollo del tetto che provoca alcuni feriti. «Un esercito di sbandati» con alla testa donne e bambini, salì arrancando verso la badia e un centinaio di persone si accalcò davanti al cancello. «Alcune decine di donne» bussarono al «portone di giù: piangendo imploravano asilo e anche minacciando. Il P. Abate per salvare vite umane ha fatto aprire loro11. Ma dietro a loro s’[era] riversata una quantità enorme di gente». Era stato d. Odorisio Graziosi a eseguire l’ordine dell’abate Diamare, spalancando il portone con «tutti i profughi assedianti [che] scoppia[rono] in una calorosa ovazione al suo indirizzo». Gran parte delle persone trovò «asilo» nello scalone che risultò «zeppo fino al massimo di civili» per cui ai due portoni di accesso, inferiore e superiore, furono poste a guardia due famiglie di fiducia «con ordine di non far entrare altra gente all’interno». Anche la famiglia di Mario Forlino trovò rifugio lungo lo scalone dove si viveva in condizioni «igieniche precarie», in uno spazio divenuto insufficiente a ospitare tante persone, tanto che esse erano costrette a rimanere sedute le une accanto alle altre e solo ai più anziati «era stato riservato il privilegio di stare seduti con le spalle appoggiate alle pareti». Molte altre persone trovarono sistemazione nella falegnameria posta sotto la Biblioteca monumentale, dove erano «oltre trecento: uomini, donne, bambini di varia età» distesi sul pavimento gelido. Oltre alla famiglia De Rosa c’erano quelle dei Colella, dei Vitto, dei Gallozzi, dei Ricci,
dei Vettraino, oltre a profughi di Villa Santa Lucia, di Piedimonte, contadini dell’Albaneta o commercianti napoletani. Si riempirono anche le «sale della portineria, della Posta il corridoio della Curia». Complessivamente la «popolazione ricoverata all’interno» dell’abbazia venne stimata in 800 persone, mentre altre duecento si trovavano nella conigliera. In tutti era «ritornata la sfiducia» e prevaleva la «paura». I profughi passavano il tempo a «spidocchiarsi, a macinare il grano per alimentarsi e sopravvivere». C’era pure a chi venivano amputati gli arti colpiti e chi moriva. In sostanza mons. Diamare aveva finito per aprire «con generosità le porte del monastero ai civili in fuga, assicurando loro – per quanto poteva – un’ospitalità degna del grande cuore di S. Benedetto»12. Tuttavia l’interno dell’abbazia non era così sicuro come ritenevano gli sfollati perché anche quel millenario luogo era fatto oggetto di cannonate. I monaci si erano sgolati per far capire a quelle persone che comunque non si trovavano «al sicuro e che assolutamente non dovevano girare per i chiostri. Fiato sprecato!». Infatti a distanza di qualche ora sul monastero caddero «parecchie» granate che provocarono la morte di alcuni civili. Fra essi Antonio De Rosa, il padre di Fernando, colpito mentre attingeva l’acqua dalla cisterna del Chiostro centrale, così come due donne morirono per lo spostamento d’aria nel Chiostro del priore, quindi un ragazzo in quello del Bramante. In quei frangenti mons. Diamare aveva anche autorizzato l’installazione a S. Agata di un posto di pronto soccorso per militari tedeschi e così un tenente medico si prodigò per visitare anche i malati all’interno del monastero, sostituito poco dopo da un capitano medico13
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6 febbraio 1944: allo scalone muore un anziano già infermo. A causa delle numerose granate cadute su Montecassino i cadaveri delle vittime del giorno precedente furono deposti nella Cappella di S. Rosa e rimasero insepolti
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7 febbraio 1944: anche Gino Salveti giunge a Montecassino dove ritrovava alcuni «amici: Umberto De Rosa», Nino Morra e la sua famiglia, Battista ed Elvira Vitto14
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9 febbraio 1944: muore per malattia il maresciallo di P.S. De Angelis, rifugiato alla conigliera. Un capitano medico tedesco visita i malati e diagnostica a d. Eusebio Grossetti il paratifo. Nel pomeriggio alcune persone che stavano attingendo alla cisterna ubicata nel cortiletto dietro la Biblioteca monumentale rimasero colpite dall’azione di artiglieria anglo-americana, tre furono i morti e un ferito
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10 febbraio 1944: ritorna il capitano medico tedesco a visitare gli ammalati. Nella sera nei pressi della cisterna (chiamata il «pozzo della morte») furono colpiti un uomo e una giovane donna. Il primo morì subito, l’altra il giorno dopo
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12 febbraio 1944: la situazione va peggiorando ora dopo ora. Le granate e le bombe che giungevano a Montecassino, sparate dall’uno e dall’altro schieramento, «aumenta[vano] in modo impressionante» facendo danni sempre più seri e importanti alle strutture e il monastero, stretto all’interno di un «cerchio di fuoco», appariva sempre più «diroccato, squarciato, zappato». Per i monaci la situazione era «aggravata» dalla presenza della massa di civili accolta all’interno dell’abbazia, popolazione che, terrorizzata, impaurita, affamata, diventava sempre più difficile da «controllare». I monaci si prodigavano nel benedire le vittime civili dei bombardamenti e, allo stesso tempo, nell’impartire il battesimo ai bambini nati in quei difficili frangenti (tre l’11 febbraio, due il giorno dopo). Nel contempo aumentavano le difficoltà per reperire le derrate alimentari per sfamare tutti e «specialmente acqua». Anche le condizioni atmosferiche erano sempre più difficili: faceva freddo, nevicava, tirava vento
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13 febbraio 1944 ore 15.45: muore d. Eusebio Grossetti. Se ne andò «tranquillo senza smanie e agitazioni» per il tifo contratto in quei frangenti in seguito all’assistenza prestata ai malati e alle tumulazioni cui dovette provvedere
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14 febbraio 1944: aerei anglo-americani lanciano dei volantini firmati «La quinta Armata», indirizzati agli «Amici italiani». Con essi si invitavano uomini e donne ad «abbandonare subito» il monastero che sarebbe stato bombardato15. Mentre continuavano a cadere bombe e granate alcuni giovani (Fulvio De Angelis, Antonio Miele e Nino Morra), «con gravissimo pericolo della vita», riuscirono a recuperare i volantini, portandoli all’abate Diamare impegnato con la comunità monastica a celebrare le esequie di d. Eusebio. Nino Morra, nel tentativo di informare i tedeschi, si avviò per la strada dell’Albaneta ma dovette rientrare nel monastero dopo essere stato fatto oggetto di mitragliamento. Fallì pure un secondo tentativo fatto sventolando una bandiera bianca. Solo verso sera fu possibile «accostare due carristi» tedeschi con i quali si riuscì a concordare un incontro con un ufficiale tedesco alle 5 del mattino seguente
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15 febbraio 1944, ore 5: un ufficiale tedesco, il tenente Deiber, si presenta in abbazia e fu portato a conferire con l’abate16. A suo giudizio il volantino era stato lanciato «per intimorire e per propaganda». Comunque riferì che i suoi superiori avevano disposto l’apertura della mulattiera che scende da Montecassino sulla Casilina attraverso S. Rachisio e il Colloquio in un arco di tempo che andava dalla mezzanotte alle cinque del giorno seguente
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15 febbraio 1944, ore 9.00: l’abate Diamare fa distribuire a tutti i profughi dei «ritagli di focaccia», mandando la sua «Benedizione» a centinaia di «derelitti» che erano in piedi in tutti gli anfratti e nei rifugi dell’abbazia in «attesa di ricevere il segnale da parte dei tedeschi per poter abbandonare l’Abbazia» in un «momento di tregua» delle operazioni belliche al fine di «poter tentare l’esodo di massa dal Monastero minacciato di distruzione». Un segnale che non giungerà mai
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15 febbraio 1944, ore 9.25: ha inizio il bombardamento17. Le esplosioni scuotono fortemente le strutture, le «spesse mura … sussultano in modo spaventoso». Molti, ricoverati nella falegnameria, «nella posta, portineria, forno ed anche quelli del frantoio vecchio» decisero di abbandonare i loro ricoveri e «pazzi dal terrore» uscirono all’aperto ma in «parecchi cad[dero] colpiti nel viale»
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15 febbraio 1944, ore 11.15: termina la prima parte del bombardamento. L’abate Diamare e altri monaci fecero un giro di perlustrazione. Alcune famiglie li implorarono di farli entrare nel loro rifugio e «pazze dal terrore» vi si introdussero
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15 febbraio 1944, ore 13.26: ha inizio la seconda parte del bombardamento18. Varie persone, fra cui i fratelli De Angelis, nella pausa tra un’ondata e un’altra erano riusciti ad allontanarsi dalla conigliera gremita di gente e fuggire attraverso S. Giuseppe cercando di raggiungere S. Rachisio ma il nuovo intenso bombardamento li costrinse a tornare indietro rifugiandosi di nuovo nella conigliera. Invece altre persone che erano uscite per cercare di soccorrere chi era rimasto intrappolato nei locali sotto le cappelle, rimasero sorprese dal nuovo bombardamento e morirono
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15 febbraio 1944, ore 13.50: ha termine il bombardamento. La biblioteca era scomparsa al pari della sottostante falegnameria, «interamente sepolta sotto la gran mole delle macerie». Dopo le prime ondate tra le pietre vi si era formato miracolosamente un piccolo varco da cui si poteva uscire faticosamente, solamente uno alla volta, così poche furono le persone che riuscirono a uscire prima della ripresa del bombardamento dando così avvio all’«agonia dei sepolti vivi». I crolli avevano diviso in due parti anche il rifugio dove si trovava il padre abate e d. Martino Matronola che vi rimasero bloccati. Salvi così come gli altri monaci in altri ricoveri, con difficoltà, rimuovendo massi, tutti riuscirono a uscire all’aperto, nel chiostro della palestra. Alcuni (d. Oderisio, d. Nicola, d. Falconio e fra Zaccaria) «che [erano] proprio sconvolti» si congedarono dal padre abate. Con mons. Diamare rimasero due monaci benedettini (d. Martino Matronola e d. Agostino) e quattro fratelli conversi (tra cui fra Romano, fra Pietro, fra Carlomanno19). Si andarono a rifugiare nella cappella della Pietà e attraversando lo scalone e le cappelle inferiori trovarono «ancora molta gente: alcune centinaia». Fernando De Rosa, la madre e due anziane zie (ma non il fratello Umberto che aveva trovato la morte nella biblioteca) riuscirono a raggiungere lo scalone che, nonostante la «valanga di polvere», gli squarci nelle mura e nel soffitto, aveva resistito ai bombardamenti salvando molte persone. Mario Forlino e i suoi familiari decisero di uscire all’aperto dirigendosi verso le grotte di S. Agata. Sul sentiero, tra «nuvole di polvere e fumo acre», incontrarono altri paesani e anche soldati tedeschi sbandati20
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15 febbraio 1944, ore 20.00: il tenente Deiber, l’ufficiale tedesco del mattino, torna a Montecassino per informare l’abate che era stata chiesta una tregua per consentire lo sgombero da Montecassino dei monaci e dei civili. Poiché gli automezzi non potevano raggiungere il monastero a causa dello sconvolgimento delle strade bisognava scendere a piedi a valle. L’ufficiale chiese quindi all’abate se poteva dichiarare per iscritto che al momento del bombardamento non erano presenti soldati tedeschi nel monastero. La dichiarazione, in lingua italiana e in lingua tedesca fu firmata dall’abate sull’altare della Pietà e fu «rilasciata senza alcuna imposizione e pressione perché corrispondente a realtà». Di suo pugno l’abate scrisse: «Attesto per la verità che nel recinto di questo sacro Monastero di Montecassino non vi sono stati mai soldati tedeschi. Vi furono soltanto per un certo tempo tre gendarmi al solo scopo di far rispettare la zona neutrale, che si era stabilita intorno al Monastero; ma questi da circa venti giorni furono ritirati»21
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16 febbraio 1944: a partire dalle ore 13.25 le macerie del monastero benedettino furono fatte oggetto di nuovi bombardamenti da parte di aerei alleati22. Nella notte e poi all’alba quasi tutta la popolazione sopravvissuta abbandona le macerie del monastero. Tra buche, avvallamenti, voragini e cadaveri di civili, i superstiti riuscirono a scendere verso valle, raggiungendo, attraverso S. Rachisio e la «Pietà», Villa S. Lucia e poi Roccasecca. Invece lo sconquasso totale del territorio non permise ad alcuni sopravvissuti (i De Rosa, Morra, Ricci ecc.) di individuare la mulattiera per Villa S. Lucia. Finirono infatti per sbagliare e per errore imboccarono un viottolo che li riportò a Cassino, «nella fornace della battaglia», dove trovarono rifugio tra le prime macerie della città ritrovando come «redivivi» una famiglia di sventure. Rimasero nel «bunker» per una settimana finché non furono individuati da soldati tedeschi che li portarono con un autocarro, non senza difficoltà per i continui bombardamenti, fino ad Arce da dove proseguirono per Roma dove Fernando De Rosa, che trovò rifugio nel traforo Umberto I, fu testimone dell’attentato di Via Rasella che portò all’eccidio delle Fosse ardeatine. In abbazia era rimasta la ridotta comunità religiosa assieme a tre famiglie di coloni, ad alcune persone anziane, ad «alcuni bambini abbandonati dagli stessi genitori, qualche ferito grave, e quattro o cinque uomini validi». Continuava a far freddo e a tirare vento così come proseguiva intensamente l’azione di bombardamento da parte dell’artiglieria. I sopravvissuti si raggrupparono «stretti attorno al piccolo altare di S. Benedetto allo scalone» con anziani e bambini che continuavano a morire come avvenne per la signora Boccia di Cassino assistita dalla figliuola
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17 febbraio 1944, ore 7.30: in questa giornata «limpidissima» i sopravvissuti si apprestano a lasciare ciò che restava del millenario monastero. Attraverso uno spiraglio del portone uscì per primo l’abate Diamare che portava un «grande crocifisso di legno depositato nella cappella della Pietà». Si avviò sulla strada sconvolta e distrutta ma non riuscì a procedere. D. Martino lo sorresse da un lato e prese il Crocifisso, mentre dall’altro lato fu sostenuto da Caterina Pittiglio, una «buona donna», colona del monastero e moglie del portinaio. Uscirono tutti gli altri e si formò un «mesto corteo» formato «forse una quarantina in tutto» disposti in colonna con malati e bambini che proseguivano come potevano. Passarono davanti alle rovine di S. Giuseppe e di S. Agata sotto cui imboccarono la mulattiera “Anzino”, «ancora in buono stato». Avviatisi per S. Rachisio ai bambini fu detto di non piangere ma pregare, invece alcuni feriti gravi e difficilmente trasportabili vennero abbandonati mentre un aereo da ricognizione alleata, una «cicogna», volteggiava sulle loro teste. Due soldati tedeschi alla vista di tale «strano corteo» rimasero «stupiti e forse commossi»
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17 febbraio 1944, ore 10: i sopravvissuti raggiungono un posto di soccorso nei pressi della Chiesa del Colloquio. A gruppetti di 3 o 4 furono avviati verso Villa S. Lucia
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17 febbraio 1944, ore 16,30: un’autoambulanza giunge alla Chiesa del Colloquio e preleva l’abate Diamare, d. Martino Matronola e tre donne di Cassino (la signora Morone, la figlia e un’altra signora). A gran velocità percorse la Casilina tra sobbalzi e pericoli mentre degli aerei continuavano a scaricare altre bombe su Montecassino23. Arrivati a Roccasecca l’abate e d. Martino furono trasbordati su una vettura che li portò prima al quartiere del generale Günther Baade posto nella montagna e poi, a sera, a Castelmassimo di Veroli al quartier generale del comandante generale Frido von Senger und Etterlin.
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Il numero di persone morte nel bombardamento del 15 febbraio è rimasto imprecisato, né fu mai possibile calcolare le vittime che furono però centinaia. Secondo l’arch. Giuseppe Poggi, che partecipò alle primissime fasi di rimozione delle macerie all’interno del monastero coordinando i lavori eseguiti da un centinaio di prigionieri tedeschi inviati dagli alleati per rimuoverle, si presumeva alla ricerca, risultata vana, di corpi di soldati tedeschi per dimostrare la loro presenza a Montecassino, sarebbero morte circa 170 civili di cui solo una cinquantina poté essere identificata. Invece secondo altre fonti il numero si attesterebbe tra le 300 e le 500 persone.
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La conclusione dell’omelia tenuta da dom Donato Ogliari nella messa del 15 febbraio 2021 è riservata al ricordo delle oltre duecento persone che morirono sotto le macerie. Cittadini che avevano trovato rifugio nel monastero credendo di essere al sicuro: «impegnandoci costantemente sulle vie della concordia e della pace e percorrendo queste vie con decisione» (www.abbaziamontecassino.org).
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Bibliografia di riferimento:
Eusebio Grossetti, Martino Matronola, Il bombardamento di Montecassino. Diario di guerra, in Faustino Avagliano (a cura di) Montecassino 1997, pp. 15-105 (fino al 29 gennaio 1944 il Diario fu redatto da D. Eusebio Grossetti e poi, in seguito alla sua grave malattia, fu continuato da d. Martino Matronola. I fogli del Diario furono rintracciati tra le rovine di Montecassino relativamente, però, a soli tre periodi: 9-25 novembre 1943, 3-22 dicembre 1943 e 29 dicembre 1943-14 febbraio 1944, con d. Martino che posteriormente si apprestò a colmare le lacune riferendo gli avvenimenti nella «sostanza»)
Armando Carotennuto, Annotazioni, in E. Grossetti, M. Matronola, Il bombardamento di Montecassino … cit., pp. 157-166
Fulvio De Angelis, Memorie di guerra, in E. Grossetti, M. Matronola, Il bombardamento di Montecassino … cit., pp. 143-156
Tommaso Leccisotti, Diario, in E. Grossetti, M. Matronola, Il bombardamento di Montecassino … cit., pp. 107-141
Angelo Pantoni, Relazione, in E. Grossetti, M. Matronola, Il bombardamento di Montecassino … cit., pp. 9-12
Fernando De Rosa, L’ora tragica di Montecassino, Ed. Sigraf, Pescara 2003
Mario Forlino, Memorie di guerra, 2a ed., Cdsc-Onlus, Cassino 2004
Mariano Dell’Omo, Un memoriale inedito scritto nel 1945 dal futuro abate Martino Matronola sulle vicende di Montecassino prima e dopo il bombardamento (1943-1944), in «Studi Cassinati», a. XIX, n. 1, gennaio-marzo 2019
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NOTE
1 Le Suore della Carità si trovavano nell’ala sinistra del Palazzo badiale che era stata fatta appositamente costruire da d. Gregorio Diamare e che occupavano dal 6 dicembre 1936. L’immobile, come ricorda il loro Diario, andò «tutt[o] giù, dalle fondamenta: ma Suore, donne, ragazzi, bambini tutti salvi!», usciti a fatica dalle macerie strisciando e «facendo leva con le braccia e il dorso contro le macerie» (O. Tamburrini, Istruzione e carità a Cassino tra Otto e Novecento, Archivio Storico di Montecassino, Montecassino 2004, pp. 103-104).
2 Come ricordato dal Diario tenuto dalle Stimmatine, le suore durante il bombardamento si erano rifugiate nello scantinato del loro immobile che fu solo lambito dalle bombe. Invece i palazzi vicini, in cui si trovavano molti bambini, furono distrutti e quando le madri tornarono dal mercato, dove erano andate a fare la spesa, «non trovarono né figli e né case» (Ivi, p. 80).
3 Mario Forlino (1.1.1924-14.2.2015), ferroviere, inquadrato nella milizia ferroviaria dal 6 giugno 1942, era rientrato a Cassino da Orte subito dopo l’8 settembre 1943. Della drammatica esperienza vissuta appena ventenne assieme ai genitori e al resto della famiglia ha lasciato un toccante ricordo intitolato Memorie di guerra.
4 A Montecassino morì il 25 ottobre 1943 Donna Benedetta, al secolo Assunta Tomasso, monaca di clausura benedettina giunta con le consorelle in abbazia (P. Tomasso, Diario di guerra, a cura di M. Tomasso, Cdsc-Onlus, Cassino 2015, p. 32).
5 Quelle Notazioni sugli avvenimenti occorsi nella zona circostanti l’abbazia e nell’abbazia stessa, furono riassemblate a Torre del Greco nel novembre 1945 dallo stesso autore che le inviò a d. Tommaso Leccisotti a Roma (cfr. anche l’articolo di Fulvio De Angelis, Cassino e Montecassino simboli della ricostruzione, ora in «Studi Cassinati», a. XII, n. 4, ottobre-dicembre 2012, pp. 300-306).
6 Erano le suore Adoratrici della comunità di Acuto installatesi a Terelle nel 1939.
7 Testimonianza di d. Germano Savelli in E. Montanaro, Tra le pieghe della memoria, 2a edizione, Amministrazione Comunale di Villa S. Lucia, Cassino 2017, pp. 186-191.
8 Nel primo viaggio del 19 ottobre, prese posto con d. Tommaso, nello stesso camion, d. Vincenzo Mori, mentre con un secondo automezzo partirono d. Giuseppe Pizzuto, ex priore di Montevergine, d. Bernardo Rabasca, il comm. Giuseppe Anzino, che attendeva al restauro di pittura della chiesa, con la moglie. Giunsero a Roma, fra gli altri: il 20 ottobre d. Carlo, d. Paolo, d. Placido, fra Valentino e tre collegiali; il 21 ottobre d. Adeodato, d. Faustino, d. Ermanno, le monache, le Suore di Carità (ospitate a Roma dalle Suore della Buona Stampa a Grotta Perfetta), le Stimmatine e le orfanelle (ospitate a Roma dalle suore Missionarie francescane di Maria); il 22 ottobre d. Angelo Pantoni, d. Francesco Vignanelli, d. Simplicio, fra Stefano, fra Alberto, fra Giuseppe; il 23 ottobre d. Ambrogio, d. Roberto Vicario e due collegiali; il 24 ottobre d. Bonifacio Fiore con tre alunni, d. Luigi de Sario, fra Andrea Rossini, fra Michele di Cola, fra Germano; il 25 ottobre fra Vittorino Vavusotto, fra Bruno Puglisi, d. Gabriele Spiridioni; il 26 ottobre d. Anselmo Lentini; il 30 ottobre d. Mauro Inguanez; il 3 novembre d. Gaetano Fornari priore, d. Emanuele Munding (di Beuron), d. Michele, d. Girolamo e d. Enrico studenti, d. Angelo Pellerito novizio, Di Stefano, fra Tommaso, fra Pio, fra Bonito, fra Filippo, Giuseppe Senes intagliatore, Gaetano Miele falegname antico converso, d. Salvatore Martino ex parroco di Acquaviva di Isernia, inabile ricoverato a Montecassino. I religiosi furono accolti, nella quasi totalità, nel Collegio di S. Anselmo oppure nell’abbazia di San Girolamo o in quella di S. Paolo.
9 Nato a Vercelli l’11 marzo 1911, era entrato diciottenne a Montecassino. Decoratore e restauratore di quadri, affreschi e miniature, dopo l’8 settembre 1943 aveva iniziato una nuova e intensa “attività” nel monastero, prodigandosi in soccorso di soldati sbandati e dei civili rifugiati nell’abbazia o nelle vicinanze e riducendosi, come egli stesso scrisse alla famiglia, «a fare l’infermiere e il becchino» (Febbraio 1944, in «Echi di Montecassino», gennaio-giugno 1974, a. II n. 4, p. 12). Infatti dette sepoltura ai civili morti in quei frangenti, costruì le casse mortuarie e sistemò il «cimitero a S. Agata con nomi, croci, ecc.». Tra il 9 novembre 1943 e il 28 gennaio 1944 tenne un diario la cui redazione venne poi portata avanti da d. Martino Matronola. Dal 20 gennaio, infatti, le sue condizioni di salute andarono peggiorando velocemente. Il 13 febbraio l’abate Diamare «gli amministr[ò] l’Estrema Unzione … gli impart[ì] l’assoluzione apostolica in articulo mortis» e alle 15.45 d. Eusebio morì forse per aver contratto il paratifo «per l’assistenza prestata ai malati». La salma, «rivestita degli abiti monastici» venne vegliata per ventiquattro ore e alle due del pomeriggio del 14 febbraio, tra lo «scompiglio» provocato dal sopraggiungere di alcuni giovani con i volantini che annunciavano l’imminente bombardamento di Montecassino, venne tumulata nella cappella di Sant’Anna.
10 P. Grossi, Terelle, I. Sambucci ed., Cassino 2003, p. 115.
11 Subito dopo la guerra fu girato un film dal titolo di Montecassino, tratto dal libro-documento di d. Tommaso Leccisotti, uscito in prima nazionale il 20 novembre 1946 e successivamente riproposto con il titolo Montecassino nel cerchio di fuoco per la regia di Arturo Gemmiti. Tra il narrativo e il documentario racconta le vicende che precedettero la distruzione dell’abbazia e quelle della ricostruzione. Per le riprese furono utilizzate delle comparse di Cassino. Fra le varie scene c’è anche quella in cui viene ricostruito quanto realmente accaduto nella mattina del 5 febbraio 1944 con l’assembramento di gente che voleva rifugiarsi nel monastero. Tra le persone inquadrate innanzi al portone di Montecassino c’è pure una «mamma che, sollevato in alto un bimbo, gridava e bussava. Quella donna era la signora Mattei, moglie di Alfredo Mattei, capostazione di Cassino e quel bimbo era Enzo Mattei», poi sindaco di Cassino (A. G. Ferraro, In ricordo di Enzo Mattei, in «Studi Cassinati», a. XIII, n. 3, luglio-settembre 2013, pp. 176-178).
12 B. D’Onorio, Gregorio Diamare Abate di Montecassino nel cinquantenario della morte (1945-1995), Cassino 1995, p. 8.
13 Probabilmente si trattava del maggiore Puppel, ufficiale medico del I battaglione MG paracadutisti (L. Cavallaro, Cassino 1944, Mursia, Milano 2004, p. 132).
14 G. Salveti, Cassino, tanto tempo fa …, F. Ciolfi ed., Cassino 1993.
15 Sul volantino era scritto: «Amici italiani, ATTENZIONE! Noi abbiamo sinora cercato in tutti i modi di evitare il bombardamento del monastero di Montecassino. I tedeschi hanno saputo trarre vantaggio da ciò. Ma ora il combattimento si è ancora più stretto attorno al sacro recinto. È venuto il tempo in cui a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il monastero stesso. Noi vi avvertiamo perché voi abbiate la possibilità di porvi in salvo. Il nostro avvertimento è urgente: lasciate il monastero. Andatevene subito. Rispettate questo avviso. Esso è stato fatto a vostro vantaggio. LA QUINTA ARMATA».
16 L. Cavallaro, Cassino 1944 … cit., p. 127.
17 Circa 140 bombardieri B17 (per alcune fonti 137, per altre 142 o 144) sganciarono 287 tonnellate di bombe da 250 chili ad alto esplosivo e 66,5 tonnellate di bombe incendiarie da 50 chili. Le formazioni, costituite da 36 fortezze volanti ognuna, si abbatterono su Montecassino in cinque ondate successive distanziate da 20 minuti l’una dall’altra. Nelle pause tra un’ondata e un’altra, il bombardamento aereo era intervallato dal cannoneggiamento e mitragliamento dell’artiglieria (L. Cavallaro, Cassino 1944 … cit., p. 129). Il bombardamento fu seguito dai più alti gradi militari alleati da Cervaro, mentre cineoperatori e fotografi militari si erano appostati su Monte Trocchio e nelle alture circostanti per documentare le fasi della distruzione. Il bombardamento doveva rimanere segreto ma molte persone ne erano a conoscenza tanto che vari medici e infermiere giunsero in torpedone da Napoli per “assistere allo spettacolo” portandosi coperte e cibo come a un picnic.
18 Ottantasette bombardieri medi (47 B-25 Mitchell e 40 B-26 Marauder) sganciarono 100 tonnellate di bombe ad alto esplosivo. Contemporaneamente furono lanciate 266 granate da parte dell’artiglieria pesante americana (L. Cavallaro, Cassino 1944 … cit., p. 129).
19 Fra Carlomanno Pelagalli non giunse mai a Roccasecca. Si avviò con gli altri superstiti lungo la mulattiera ma fece ritorno tra le rovine di Montecassino in cui si aggirò per qualche settimana accudito dai paracadutisti tedeschi che avevano occupato le macerie del monastero, fino alla sua morte avvenuta il 3 aprile 1944.
20 Mario Forlino dopo essersi salvato dal bombardamento di Montecassino si allontanò dall’abbazia assieme al fratello Benedetto dividendosi dai genitori e dal resto della famiglia. Prostrato, debilitato, ammalato di polmonite, raggiunse Alatri, si arruolò volontario nella MVSN e riuscì a uscire indenne da vari mitragliamenti e attacchi aerei, a sopravvivere alla estrema penuria di cibo e acqua, alle minacce dei soldati sia tedeschi che alleati. Fu uno dei primi a raggiungere l’abitato Cassino ormai divenuto un cumulo di macerie e in cui giacevano soldati morti ancora insepolti o tumulati frettolosamente con una croce anonima. Solo tempo dopo seppe che la famiglia era stata sfollata a Pisticci, in provincia di Matera, dove poté rivedere la madre e la sorella mentre il padre era morto a Roccadarce.
21 Il 17 febbraio l’abate ribadì quanto aveva dichiarato per iscritto il 15 febbraio in due conversazioni radio, la prima rilasciata presso il Quartier generale tedesco del XIV Corpo d’Armata corazzato a Castelmassimo, presso Veroli, e la seconda all’Eiar a Roma.
22 Furono sganciate ventiquattro tonnellate di bombe.
23 Anche nel pomeriggio del 17 febbraio le macerie del monastero benedettino furono colpite da bombe.
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