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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 1-2
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Leggo e rileggo la diatriba sorta tra il professore Gigante e il professore Pistilli circa il passo dantesco Quel monte a cui Cassino è nella costa («Studi Cassinati», a. XX, nn. 3-4, luglio-dicembre 2020, pp. 193-197). Data la mole culturale dei due “contendenti”, non posso certo entrare nel merito, non ne sono in grado, ma devo dire che ho attinto avidamente non solo dalle loro esaurientissime dissertazioni, capolavori di cultura e chiarezza, ma anche dalla sottile, rispettosa, signorile ironia con cui si “battibeccano”.
Resto ammirata da come ognuno sa esprimere, senza mai scadere nell’offesa, le proprie opinioni contrastanti, confutando quelle dell’altro con eloquente maestria, in maniera garbata e puntigliosa. Sotto sotto si percepisce una stima reciproca, ma è divertente come si punzecchiano: da vecchi amici in confidenza e pur di diversa opinione. Il risultato è, come conclude Gigante, che si è provocata una riflessione su una parte della nostra storia, ma anche, come chiosa Pistilli, che in ogni dibattito c’è sempre qualcosa di positivo. Io, nel mio piccolo, ho riflettuto e approfondito su quanto segue: forse Dante ha visitato Montecassino. Non è dimostrabile perché non è documentato; la storia, si sa, va fatta sui documenti. Però è probabile, perché nel 1294 Dante era ambasciatore di Firenze presso il Regno di Napoli e potrebbe aver visitato il monastero rinomato, in quanto si trovava sul suo cammino. E qui potrebbe essere venuto a conoscenza di un manoscritto riguardante l’aldilà, tema assai sentito in quel periodo anche a livello popolare, ma certamente in nuce nella sua mente. La letteratura predantesca sull’aldilà è vastissima. Ma tra le fonti di Dante, oltre a Platone, alla cultura araba, a Plutarco, a Virgilio, a S. Paolo, a S. Patrizio, a S. Brandano, è citato Alberico, nato in un paese a noi vicino, Settefrati, nel 1101. Questi, da bambino, durante una malattia, aveva avuto una visione particolare, che un monaco cassinese trascrisse quando, a guarigione avvenuta, fu offerto come oblato al monastero. Alberico, nel sonno, aveva fatto un viaggio ultramondano, guidato da S. Pietro, per vedere le pene inflitte ai peccatori e le gioie concesse ai giusti. Ci sono troppe analogie con la Divina Commedia, con una miriade di somiglianze e affinità per quanto riguarda le pene, persino la legge del contrappasso e l’incontro con S. Benedetto, per non pensare che Dante abbia preso spunto dal manoscritto conservato nell’Archivio di Montecassino, che a quel tempo non l’avrà certo divulgato.
Anna Maria Arciero
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Ringrazio l’amica Arciero per le espressioni lusinghiere che non possono che farci piacere. Le questioni che ha sollevato, si riferiscono al dibattito sulla “Cassino” dantesca ed il suo rapporto con l’antica Casinum. È vero che ho scritto che non si può dire che Dante Alighieri avesse visitato i luoghi di San Benedetto e che nulla ce lo fa presumere, ma è solo perché non ne abbiamo notizia certa, mentre per supposizioni, anche condivisibili, come le sue, c’è spazio abbondante.
Inoltre sì è vero che la visione di Alberico vada vista in stretta connessione con la Commedia dantesca, tanto da considerarla un modello d’ispirazione del sommo poeta. Va avvertito però che lo stesso Alberico ha fruito di visioni precedenti analoghe, che, seppure con le dovute distinzioni, fanno capo a molti secoli prima in un crescendo di combinazioni che hanno condotto a mano a mano all’impostazione del triplice aldilà. E “visitatori” dell’aldilà ve ne sono stati tanti. Per esempio tra precursori di Dante ricordiamo tra gli altri, solo per ricordarne alcuni: – Platone nell’ultimo libro della Repubblica, con la visione del soldato Ero di Armenia; oppure il Fedone, dello stesso Platone, con la triplice visione che fa dell’altro mondo; – Plutarco con la narrazione della favola di Tespesio; – la leggenda dei tre monaci orientali, S. Teofilo, S. Sergio e S. Igino con le loro descrizioni visionarie dell’aldilà; – la visione di S. Paolo; – la leggenda di S. Brandano, monaco, e il viaggio tra isole fantastiche, che richiama un po’ il viaggio di Luciano di Samosata, di area greco romana; – il purgatorio dell’irlandese S. Patrizio.
Un ottimo studio al riguardo è quello di Alessandro D’Ancona, I precursori di Dante, Sansoni 1874, il quale scrive: «la Divina Commedia era già, dunque, in embrione e in abbozzo, prima che la mano di Dante le desse forma immortale nel suo poema», p. 98.
Lo stesso Dante, da impareggiabile studioso qual era, afferma che due soli uomini erano discesi negli inferi prima di lui: Virgilio e S. Paolo; ma non ha certamente ignorato i suoi tanti precursori, tra i quali Alberico da Settefrati, il più prossimo a lui per tempi e per ispirazione. È credibile che a quel tempo la visione alberichiana non fosse stata ancora divulgata, come dici tu; tuttavia non dimentichiamo che la maggior parte di quelle visioni furono partorite all’interno di monasteri, dove i testi, anche manoscritti, circolavano alla grande, grazie anche al lavoro certosino (sic) degli amanuensi.
La stessa Divina commedia, annovera un gran numero di versioni manoscritte, veri e propri rompicapi di illustri dantisti. Nel medioevo inoltre le visioni dell’aldilà erano materia di credenze popolari molto diffuse e circolavano in ogni latitudine del mondo cristiano. Certo, seguendo le considerazioni di Anna Maria Arciero, è molto probabile che Dante abbia letto Alberico a Montecassino, e non ho difficoltà a condividerlo. Tuttavia, ed è questo che ho voluto dire, nulla è mai certo senza documenti inconfutabili.
Per concludere – tornando alla questione di partenza –, anche ammesso che l’Alighieri avesse fatto visita a Montecassino, non è detto che abbia messo perfettamente a fuoco la situazione storico-topografica dell’antica Casinum: la sua citazione di Cassino è tratta esclusivamente dai diari di Gregorio Magno, senza farsi carico di dove e come fosse collocata la città romana. Posso certamente sbagliarmi, ma è questa la mia convinzione.
Quante cose avrebbe dovuto fare il Nostro nella supposta visita, certamente di passaggio? Studiare la storia della città romana, studiare la visione di Alberico, addottorarsi sulla figura di S. Benedetto, e così via. Con un po’ di senso pratico, senza rincorrere cavilli e supposizioni, resta credibile che egli si sia affidato semplicemente al testo del biografo di San Benedetto senza porsi altri problemi, che non erano pertinenti al suo lavoro.
Emilio Pistilli
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