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«Studi Cassinati», anno 2021, n. 3
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di Alberto Mangiante
In occasione del XIV Centenario della fondazione di Montecassino i monaci cassinesi pubblicarono una raccolta di scritti in due volumi che, sotto il titolo di «Casinensia», raccoglieva una sintesi di pubblicazioni inerenti il mondo benedettino. Tra queste vi era un saggio di dom Leone Mattei-Cerasoli, padre benedettino di Cava, che spulciava in uno dei regesti prodotti nella badia di Montevergine, riguardante il periodo di governo di Giovanni D’Aragona, all’epoca abate commendatario anche di Montecassino.
Il cardinale Giovanni d’Aragona, figlio di Ferdinando I re di Napoli, era nato il 25 giugno 1456 e fin dall’infanzia era stato destinato alla carriera ecclesiastica con l’intento da parte del sovrano di avere una rappresentanza presso la Corte papale. Nella sua breve vita, morì a Roma nel 1485 a soli 29 anni, accumulò molti titoli ecclesiastici, arrivando anche al cardinalato nel 1477 con il titolo di Sant’Adriano al Foro. Successivamente nel 1483 vi aggiunse i titoli di Santa Sabina e San Lorenzo in Lucina e il 30 agosto del 1471 papa Sisto IV lo nominò abate commendatario di Montecassino con tutti gli oneri e onori che gli spettavano. In verità il suo abbaziato, oltre a usufruire delle cospicue rendite del monastero, contribuì al miglioramento della badia sotto il profilo anche artistico con, ad esempio, uno splendido coro di cui prima della guerra rimaneva il solo leggio.
Riaprì il monastero di Santa Maria dell’Albaneta, dove stabilì una scuola per oblati, e fece costruire per sé e per le persone della sua Curia una grande e splendida abitazione a piè del monte, presso l’anfiteatro della antica città di Casinum. Ma l’iniziativa più importante fu l’8 novembre 1481, quando ordinò la ricognizione dei sacri corpi dei santi Benedetto e Scolastica deposti sotto l’altare maggiore della basilica cassinese.
Il regesto di Montevergine preso in considerazione copre il periodo dell’abate Aragonese e, tra le varie questioni trattate, degne di nota sono due missive riguardanti fra Celso, un monaco cassinese nativo della città di San Germano, noto ai più come scultore e autore della statua marmorea di San Germano tuttora venerata nella nuova Concattedrale.
Nella prima missiva, scritta di manu propria e spedita dalla sua sede di Napoli il 5 febbraio del 1483, l’abate commendatario mostra tutto il suo interesse e benevolenza verso il monaco. La lettera è diretta personalmente a Fra Celso per convincerlo a rientrare in convento, garantendogli la piena incolumità. Questo vuol dire che l’allontanamento del monaco dal monastero probabilmente era dovuto a divergenze serie. È altresì da notare che Celso è appellato con il titolo di fra, titolo che spettava ai monaci che non prendevano i voti solenni ed erano addetti ai vari servizi manuali, al contrario dei monaci che prendevano tali voti e avevano il titolo di dom.
La seconda missiva, sempre del 5 febbraio, è diretta ad un certo De Grimzolo, che viene indicato come fratello di Celso, esortandolo a convincere il monaco a far ritorno in monastero garantendogli tutte le immunità sopra descritte.
La presenza a Montecassino del frate scultore è documentata fin dal governo abbaziale di Antonio Carafa. Infatti a lui viene attribuita la costruzione della seconda porta d’ingresso nello scalone di accesso (la scalinata dall’ingresso con la scritta Pax) ai chiostri monumentali, datata al 1453.
Secondo il Gattola la porta, in stile dorico con una lunetta di marmo (Fig. 1), recava originariamente la scritta «F. Celsus MCCCCLIII» e in questo caso ci troviamo nel penultimo anno di governo di Antonio Carafa.
Invece la piccola cappellina, che custodisce il Sasso dei miracoli e che fu sistemata sotto il Commendatario Giovanni de’ Medici intorno 1497, conserva al suo interno una statua di San Benedetto nell’atto di benedire con la mano destra mentre nella sinistra regge un libro aperto (Fig. 2). L’opera fu scolpita sempre da fra Celso, ma sembra anteriore rispetto alla scultura della lunetta e al tempo del Caravita recava la scritta «S. Benedictus anno domini MCCCCLXXXXVII». L’ultima volta in cui viene nominato fra Celso è nel “libro dei conti” del 1504-1507: «1506 item ducati 5 spesi per fra Celso per far fare una figura a S. Honofrio de li quali si fa debitare questo conto per essere stato fatto creditore de major summa dato esso fra Celso»1.
È il periodo dell’aggregazione di Montecassino alla Congregazione di Santa Giustina che, in seguito, prenderà il titolo di Congregazione Cassinese.
Abbiamo così un periodo abbastanza documentato sulla permanenza del monaco nel monastero, anche se l’unico punto oscuro rimane il motivo per cui il commendatario D’Aragona fa reintegrare, con tutti i previlegi che gli spettano, il monaco scultore. Si può presumere che fra Celso si sia allontanato dal monastero a causa di alcune controversie con il nuovo governo commendatario subentrato dopo la rinuncia dell’abate Carafa.
Comunque a Montecassino e a San Germano il frate scultore ha lasciato varie opere, mentre si ignora se abbia lasciato delle opere anche nella località dove si era ritirato, località di cui al momento non abbiamo nessuna notizia.
Le opere di fra Celso sono tutte incentrate su figure sacre. In particolare la prima opera che conosciamo, il San Benedetto della Cappella di Santa Croce2, attualmente conservata nel museo abbaziale, mostra una figura scolpita molto grossolana, mentre la figura di San Benedetto, che si trova presso la cappellina del Sasso dei Miracoli (Fig. 2), presenta dettagli più aggraziati nella figura e nelle vesti. Ma l’opera che più si avvicina a un modello classicheggiante è la lunetta dello scalone monumentale in cui sono raffigurati San Benedetto sbarbato, con indosso la cocolla, e Santa Scolastica che presenta alla Vergine e al Bambino un uomo, molto probabilmente l’abate Antonio Carafa (Fig. 1). L’opera mostra una ricercatezza nei dettagli e la Madonna con il Bambino rivelano una certa maestria nei volti e nel panneggio delle vesti.
Per la Collegiata di San Germano fra Celso scolpisce la statua del Vescovo capuano, titolare della chiesa, seduto in cattedra con la destra benedicente (Fig. 3). Sulla base è incisa la data MCCCCLXXXIII e sulla stola, che scende fino ai piedi, reca lo stemma aragonese, omaggio al cardinale che lo aveva riabilitato consentendogli il ritorno a Montecassino.
La statua denota, a differenza della prima opera che abbiamo descritto, una certa padronanza dello scalpello, specialmente nei dettagli del volto.
Il Guglielmelli nella sua descrizione della vecchia basilica lo pone «in cornu evangeli di detto altare vi sta una cappella fatta a nicchia con la statua di marmo, che la chiamano di San Germano e nella somma del nicchio, dove sta collocata detta statua, proprio nel cornicione per dirittura, qual è di marmo si leggono scritte le parole, che rimemorano l’anno che correva in quel tempo hoc modo “ANNO DOMINI MCCCCLXXXIII”».
Dopo la ricostruzione della nuova chiesa nel 1774, la statua trova un’adeguata sistemazione a sinistra del presbiterio, in un apposito spazio delimitato dalla continuazione della balaustra dell’area presbiteriale. Distrutta la chiesa con i bombardamenti del 1944, la statua fu recuperata, divisa in due tronconi, nello sgombro delle macerie e, con la ricostruzione della nuova chiesa, fu sistemata all’esterno (Fig. 4). Ci volle tutta la tenacia e la perseveranza di don Vincenzo Matrundola per farla restaurare e risistemarla nel posto originale in chiesa.
Ci sono altre opere che prima della guerra abbellivano la Collegiata che forse possono essere assegnate alla mano dello stesso fra Celso. Parlo, ad esempio, dei due angeli reggicero che adornavano la figura di San Germano e il bassorilievo raffigurante la Madonna con il Bambino tra due angeli musicanti (Fig. 5) che nella descrizione del Guglielmelli era sistemato sopra la porta della sagrestia e nella nuova chiesa fu invece collocato presso la cosiddetta Porta della Rosa della Collegiata. Le opere sono state recuperate nei vari scavi che dal 1946 al 1970 si sono succeduti nell’area della chiesa e sono conservate attualmente presso il monastero di Montecassino. Credo che dopo tanti anni dal loro ritrovamento e restauro sia prassi ormai consolidata che manufatti, anche se di minore importanza, siano giustamente ricollocati nel luogo di origine per far sì che non si perda purtroppo anche la memoria storica del luogo.
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NOTE
1 A. Caravita, I codici e le arti a Montecassino, vol. 3.
2 Conosciuta più popolarmente come «le tre cappelle».
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