Achille Spatuzzi, il «miasma palustre» e la valle del Liri

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«Studi Cassinati», anno 2022, n. 1
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di Costantino Jadecola

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Achille Spatuzzi (Foto dal libro di Francesco Di Giorgio, Achille Spatuzzi, CDSC, 2018).

Era il 1869 quando a Firenze si svolse la seconda sessione del «Congresso medico di tutte le Nazioni». Tra l’altro si parlò del miasma palustre, ovvero dell’esalazione tossica conseguente fenomeni di putrefazione, tema sul quale si era soffermato il dottor Achille Spatuzzi1 originario di San Giorgio a Liri il quale aveva riferito sulle conclusioni cui era giunto esaminando la situazione dei diversi comuni della Valle del Liri, abbinando agli aspetti scientifici i risultati cui erano approdate le ricerche storiche compiute sul territorio2.

A conclusione della sua indagine lo studioso si pose una domanda: «in questo medesimo clima basso, caldo, ed umido; su questo suolo argilloso calcare misto a tracce vulcaniche; in mezzo a queste abbondanti derivazioni di acqua, con quante cause, insomma i medici comunemente riconoscono come originarie del miasma palustre; come e perché accade, che gli antichi Romani vi godevano eccellente salubrità; e nel Medio Evo vi successe terribile miasma, che ora si va man mano attenuando?».

Già, perché?

Spatuzzi, si sofferma, innanzi tutto, a delineare la topografia del territorio, la posizione dei diversi comuni presenti nella vallata o a margine di essa ma, soprattutto, le sue condizioni meteorologiche – «la media temperatura di està è 24 gradi, di autunno 12, d’inverno 7, di primavera 15» – e climatologiche caratterizzate da «dense e frequenti nebbie autunnali ed anche invernali, come le rugiade abbondanti in primavera ed està, (…) proprie di un clima basso ed umido».

A dominare la scena è il fiume Liri – nel quale confluiscono prima il Tolero, ovvero il Sacco, e poi il Melfa – che attardandosi sotto i monti tra Pico e Roccaguglielma rende carente di acqua il territorio posto tra Roccasecca e Piedimonte dove si registra solo il modesto contributo del fiumicello Sogne, altrimenti noto come Forme di Aquino. Diversa è, invece, la situazione tra Cassino e Sant’Elia ove, con il Rapido ed altri torrenti che vengono dai monti circostanti, le acque abbondano e cui si uniscono appena dopo, per confluire infine tutte nel Liri, quelle sorgenti presso Sant’Angelo in Theodice.

Né deve trascurarsi l’aspetto geologico caratterizzato «da sostanze calcari e sconnesse che le acque han rovinato dall’Appennino», oltre che dalla presenza di tufo e da uno strato superficiale di pomici, anche di sorgenti di acque solforose e minerali, come quelle di Sujo, che fanno supporre la lontana presenza di un vulcano.

Ma al di là dell’aspetto scientifico, Spatuzzi, come si è accennato, non trascura gli studi storici che si sono interessati alle vicende del passato quando qui vi erano solo quattro città, peraltro tutte in corrispondenza di corsi d’acqua: «Fregella sul Liri ad un quarto di miglio dalla confluenza del Tolero; Aquino presso il Melfa (ovvero a margine di un lago, nda), Interamna tra due fiumi Liri e Sogne e Cassino sul Vinio, ora Rapido. Volendo dai ruderi, che ancor si veggono, rilevare la posizione topografica di quelle città, osserviamo che Cassino era posta vicino al Monte tra Oriente e mezzogiorno, e le altre città collocate nel mezzo della valle sopra alti piani inclinati verso occidente, i quali sogliono essere i meglio riscaldati dai raggi del sole in questa contrada nebulosa».

Non può poi ignorarsi che a quel tempo il corso del Liri era protetto da boschi, boschi che non solo proteggevano dalle esalazioni dei vapori ma impedivano anche che i monti franassero oltre ad attenuare «l’impeto dei venti di Sud-ovest e di Nord-ovest» che, anzi, «si mutavano in aure salutari».

Insomma «luoghi di grandezza di salubrità e di delizie», dice Spatuzzi, che gli antichi romani individuavano anche uccidendo le pecore del posto per poi dedurre dallo stato della milza se vi fossero miasmi o meno e che restarono tali fino a quando essi non divennero «teatro di guerre, e poi di invasioni e devastazioni barbariche» con il conseguente spopolamento della pianura e con i fuggitivi che cercavano rifugio sulle colline e sui monti circostanti dove, pian piano, cominciarono a realizzare apparati difensivi.

Cosicché, rocche e castelli costruiti «nei luoghi ove la fortuna aveva balestrato uomini sventurati» presero il posto delle antiche città edificate nella valle dai Romani secondo criteri ben precisi ed idonee collocazioni topografiche. Peraltro, questi nuovi abitati, essendo stati fabbricati «sotto l’impero della necessità della fuga e del bisogno della difesa erano fatti di case modeste, circondate da alte mura dei castelli e di torri, appena divisi da violetti angusti, e di deficiente influsso della luce, come la scarsezza dell’acqua erano inevitabili».

Ma a soffrire del nuovo stato di cose furono anche i boschi, in gran parte distrutti, ed i corsi d’acqua che, alterati nel loro defluire, alterarono i naturali percorsi e generarono stagni e pantani «esalanti miasma palustre» cui si abbinarono, almeno durante le guerre barbariche, anche quelli imputabili ai cadaveri umani, e non, rimasti sul terreno mancando chi si prendesse cura della loro sepoltura.

Poi, con i Longobardi, per la valle sembrò aprirsi una pagina nuova della quale si resero ben presto conto coloro che a suo tempo si erano rifugiati sui monti e cominciavano ormai a risentire i disagi di quella vita: ripresero allora la via della pianura ed a rianimarla in uno con la costruzione non solo di case ma anche di castelli come Sant’Apollinare (817), per volere dell’abate Gisulfo di Montecassino, o Pontecorvo (856), edificata da Rodoaldo castaldo di Aquino.

Ma questa valle, che sembra avere quasi un’attrazione fatale per le guerre, non poteva non essere oggetto delle attenzioni dei Saraceni che, per una quarantina di anni, la fecero da padroni; appena dopo, però, specialmente grazie a Montecassino, riprese la fioritura di nuovi aggregati urbani.

L’abate Aligerno, oltre a favorire la coltivazione delle terre dell’Abbazia, fondò Sant’Angelo in Theodice, Sant’Ambrogio, Sant’Andrea, San Vittore ed altri castelli ancora. L’abate Mansone, dal canto suo, fondò Roccasecca in bella posizione sull’Asprano ma priva di acqua al punto che, «nel dare al Castello il nome di Roccasecca faceva vanto della propria ignoranza». In compenso, fondò anche Sant’Elia, dove invece, le acque abbondavano. Né più felice fu la scelta del luogo dove Guglielmo Glossavilla ubicò Roccaguglielma che per due mesi d’inverno priva i suoi abitanti del beneficio del sole tant’è che, mezzo chilometro più in basso ed esposto al sole, venne ben presto formandosi, in prossimità del monastero di San Pietro in Curulis, l’abitato da cui poi avrebbe preso il nome ed ancora più giù, verso valle, quello di Monticelli. Così Castrocielo, posto sulla cima dell’omonimo monte, che seguì la medesima sorte generando da un lato Colle San Magno, sui monti, e dall’altro Palazzolo, verso la pianura. Infine, se Piedimonte era già di per sè in buona posizione, tornò invece a rivivere anche Aquino.

Intanto si registrava «una certa diminuzione di cause morbose nelle epoche tranquille per effetto di quella prosperità che accompagnava gl’interessi economici e morali di consolidamento feudale» anche se persistevano, ma «senza essere avvertite, le più funeste condizioni anti-igieniche della vita» per via della «posizione topografica dei Comuni edificati nei tempi più prosperi del Medio-Evo» e caratterizzati, come si è detto, da strade strette ed anguste e da case basse ed umide e dove l’unica eccezione è costituita dal palazzo «del superbo Barone», i cui alti recinti soffocavano la ventilazione ed impedivano la luce mentre le chiese, dal canto loro, erano destinate ad ospitare le sepolture dei cadaveri.

Esaminando la situazione del suo tempo, grazie al contributo dei medici dei diversi comuni, Spatuzzi, mentre esclude il carattere predominante di una atmosfera infettante, registra però ancora «taluni fomiti del miasma da putrido nella disposizione poco aerata degli abitati, nella trascurata nettezza, ed in altri usi anti-igienici consimili» unitamente a «tracce di stagni e melme esalanti miasma palustre» che, ancorché diminuite e limitate, restano, comunque, molto nocive. Se Rocca d’Evandro e Sant’Ambrogio, «con l’abolizione delle risaie si sono liberati dal miasma», la campagna prossima a Cassino, in particolare tra S. Elia e Cervaro, nonostante fossero state impedite coltivazioni che favo- rivano la putrefazione vegetale, arginati i corsi d’acqua e prese altre iniziative, «troppo spesso si allaga e forma stagni ove si vedono le alghe». Lievi fomiti di miasma palustre si registrano ancora presso Isoletta e a Sant’Oliva (Pontecorvo) mentre è decisamente più grave la situazione «sotto Palazzolo», tra Piedimonte e, ancor più, Roccasecca tant’è che quest’ultima fu tra i luoghi più flagellati durante l’epidemia colerica del 1867 insieme a Villa Santa Lucia che era, in sostanza, «la più riparata dai venti».

Laddove, è il caso di Roccaguglielma, Pico e di alcune zone di San Giovanni Incarico, Pontecorvo e Cassino, dove, oltre all’umidità, si registra uno scarso ricambio d’aria ed una scarsa illuminazione solare, «si veggono forme di scrofolismo glandolare torpido», una particolare forma di infezione tubercolare localizzata alle linfoghiandole del collo, mentre casi di «scrofola eretistica», si registrano a San Pietro in Curulis e «specialmente a Roccasecca».

Sempre l’umidità, secondo Spatuzzi, spingerebbe gli abitanti di Pontecorvo, «a far grande uso di vino e di liquori spiritosi», usanza che coinvolgerebbe anche «i più agiati» che «assistono sempre alla campagna, e vanno ogni giorno a caccia» e le cui conseguenze sarebbero la «pletora addominale e gli emorroidi predominare sulla gotta». Piedimonte, posto, come si è detto, in buona posizione topografica, dove le comuni malattie polmonari sono rare, così come tisi, tubercolosi e scrofola, è, però, «un paese dove i delitti di sangue sono frequentissimi, e perciò non mancano le eccessive agitazioni e patemi di spirito. Io», scrive Spatuzzi, «ho osservato colà donne divenute tisiche, mentre per i mariti fuggiaschi avevano sofferto gravi patemi di spirito, e se volessi anch’io far deduzioni esagerate potrei dire che per me i fattori principali della tubercolosi sono i gravi perturbamenti nervosi».

Ma, allora, cosa fare, si chiede Spatuzzi, per eliminare le diverse cause all’origine dei problemi che affliggono gli abitanti della valle?

«Se nella vallata tra Cassino, S. Elia e Cervaro si arginassero i corsi di acqua e si cercassero i modi opportuni di regolare i torrenti, si eviterebbero alcuni stagni accidentali che ancor si formano. Se all’abolizione delle risaie si aggiungessero per Rocca d’Evandro e S. Ambrogio dei boschi, che li riparassero dall’eccessivo influsso dei venti; se verso S. Oliva, Isoletta e più sotto Palazzolo si desse corso a poche acque impantanate, il miasma palustre sparirebbe. Se a Roccaguglielma, a Pico e negli abitati ove domina la scrofola si consigliassero i più agiati a far casine nei luoghi soleggiati delle loro terre, e si trovassero modi come incoraggiare e coadiuvare i poveri ad uscire dai funesti tugurii, e trasferire la loro dimora in campagna», ovvero se si invitassero tutti coloro i quali abitano sulle alture a scendere a valle per bonificarla, popolarla e coltivarla, se si sollecitassero gli artigiani a diventare contadini, «anziché il contrario», «se gli asili e le scuole per i fanciulli fossero in ogni parte disposte in modo da giovare all’educazione morale e fisica», ebbene, questi ed altri accorgimenti potrebbero concorrere «a quella rigenerazione del popolo che l’azione amministrativa dovrebbe governare e promuovere».

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NOTE
1 Medico originario di San Giorgio a Liri, dove nacque il 10 settembre 1835, insegna presso l’Università di Napoli e dal 1873 lavora presso l’ufficio di igiene del Comune di Napoli, ufficio del quale diverrà primo dirigente dal 18 agosto 1887. Tutto ciò, però, non gli impedirà di avere frequenti contatti con il territorio di origine tanto che avrà incarichi presso il Comune di San Giorgio e rappresenterà il collegio di Esperia dal 1865 al 1898 al Consiglio provinciale di Caserta. Se, come politico, il nome di Achille Spatuzzi rimane legato alla realizzazione della strada Cassino-Formia, come medico-ricercatore la sua attività è testimoniata da una bibliografia di grande spessore culturale e scientifico e dalle relazioni svolte in importanti congressi scientifici internazionali. Morì a Napoli il 19 marzo 1920.
2 A. Spatuzzi, Saggi di Topografia e Statistica medico-storica (Esempio sulla Valle del Liri). Tipografia della Gazzetta di Napoli, Napoli 1871.

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