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«Studi Cassinati», anno 2022, n. 1
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di Giovanni Petrucci
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Caro Maestro Dante è da moltissimi anni che mi rimprovero per non averti mai scritto. Tu sai come ti volevo bene e come ero rapito dalla tua arte, dal tuo ingegno e dalla immensa capacità di saper vivere questa vita. Nonostante quella ferita che ti cagionò tante pene: il tuo nobile intervento di ragazzo, per un nobile ideale di noi tutti, non affiorava mai durante le nostre conversazioni.
Il fatto è che non riuscivo e non riesco ancora oggi ad unificare intorno ad un sol nucleo gli stilemi della tua arte. Solo il comune collega Giuseppe Tucci, da esperto, ad una mostra mi fece capire i particolari che la sostanziavano.
Giudizi:
Mario Lepore, Galleria Montenapoleone, 1964: «Il pittore Dante D’Andrea ordina per la prima volta una personale a Milano. Si presenta al pubblico e alla critica con un buon bagaglio di esperienza artistica e già noto in campo nazionale, perché ha esordito nel 1946 e da allora ha allestito alcune personali a Napoli, a Roma e in altre città, ha partecipato a numerose mostre collettive tra le quali parecchie di risonanza italiana, ha ottenuto premi e riconoscimenti di rilievo. Napoletano, ha compiuto la maggior parte degli studi nella sua città: prima all’Istituto d’arte – dove ha avuto per maestri artisti del valore di Viti, Casciaro, Striccoli, Chiancone -, poi, diplomatosi, ha frequentato per u anno l’Accademia di Roma, sotto un insegnante del calibro di Carlo Siviero, e successivamente quella di Napoli, avente come docente un pittore di chiara fama quale è Giovanni Brancaccio. La guida di bravi ed esperti docenti, di vario temperamento, orientamento e cultura, mentre gli ha giovato ad approfondire l’arte e le proprie possibilità, non gli ha snaturato inclinazioni e gusti personali. Continuata la sua formazione artistica a Roma, dove ha soggiornato per un certo tempo, qui ha assorbito i riflessi di quella Scuola romana che negli anni frale due guerre ebbe un suo posto nella pittura italiana e il cui influsso ancora non è spento. Taluni accenti di quella lezione si riscontrano appunto, come gusto di certe intonazioni e di certi accordi cromatici, come interpretazione di valori espressivi, nelle opere meno recenti di D’Andrea. Ma successivamente, stabilitosi l’artista a Cassino, anche per il contatto diretto con la natura della zona dove opera, ai confini tra Lazio e Campania, i contributi romani sono stati assorbiti – tuttavia lasciandogli una bella sensibilità alla finezza tonale – e la tavolozza gli si è arricchita. D’altra parte, il suo nativo fondo partenopeo – pur sempre riscontrabile in lui – è emerso maggiormente. Dal punto di vista pittorico esso lo porta a impiantare il dipinto su una base grafica, talora nettamente accusata, con andamenti lineari e ritmici estrosi, eleganti, veloci, che hanno – come specialmente si può vedere nei suoi disegni – una lontana origine nella tradizione settecentesca partenopea, con tuttavia una rielaborazione attuale in senso espressionistico e impressionistico insieme. Ma, oltre alla grafia, napoletana è la sua vena narrativa, non dialettale, intendiamoci, ma portata alla rievocazione fra l’arguto e il patetico, il naturalistico e il fantastico, l’accento popolaresco svelto e efficace e la contemplazione romantica. Figure infantili, paesi dell’entroterra tirreno e spiagge, pesci, conchiglie sono i motivi che predilige fra gli spettacoli offertigli dalla natura. Suscitano in lui un’eco vibrante che, con immediatezza della sensazione e comunicativa effusività tutta individuale, egli trascrive sulla tela in termine di grafia e di colore sempre intonato anche nelle note alte. Una pittura rapida e fresca – che talora, sotto alcuni aspetti, fa venire in mente De Pisis – tutta sincerità e senza preoccupazioni. È un’arte che sembra obbedire principalmente all’istinto, ma che, a guardare attentamente, si fonda anche su doti ben coltivate di agilità di mano, di osservazione perspicace, veloce e affettuosa della natura, di buona conoscenza del mestiere, di scelta avveduta dei mezzi linguistici congeniali al proprio temperamento pittorico e al proprio mondo interiore. Mondo vario di umori e con una sommessa intima poesia spesso tinta di malinconia dolce e sottile»;
Franco Miele – Hotel Tripoli, Fiuggi 1964: «…D’Andrea sa essere moderno, senza rinnegare l’antico…un disegnatore meridionale dotato di una sicurezza di segno quanto mai rara e di una capacità altrettanto singolare di mettere subito a fuoco l’evidenza delle immagini»;
Dante Troisi – Cassino 1964: «…e nel D’Andrea un’arte sempre affidata a commossa partecipazione; un segno magistrale, che rifiuta ogni sperimentalismo, e conserva e trasmette, infatti, l’amore della natura, l’equilibrio dei pensieri, l’umanità dei sentimenti…»;
Salvatore Quasimodo: «…Le opere del D’Andrea sono interessanti per l’entusiasmo e la non banale ingenuità dei soggetti, ma soprattutto per la chiarezza del linguaggio figurativo…»;
Renato Guttuso: «…Della figura umana D’Andrea dà un’interpretazione cordiale e poetica»;
Guido Ruggiero: «…un segno sicuro, arioso, fluido da grande disegnatore»;
Giuseppe Bonaviri, Lenola 1967: «Conobbi D’Andrea casualmente una sera, tornando in treno da Roma. Avemmo modo di scambiare delle idee su problemi d‘arte figurativa. Nella stessa occasione, vidi dei suoi disegni, schizzati con mano leggera. Coglievano quasi sempre stati d’animo di ragazzi o di gruppi di ragazzi, colti certamente nelle strade dei paesi del Napoletano. Adesso lo rivediamo attraverso le sue tele che, seppure variate per ordine tono e misura, comparate al suo precedente arco pittorico, se ne distanziano per l’equilibrio del colore e per il nuovo materiale umano colto sulle spiagge o in paesaggi eminentemente marini. Sulle tele nascono situazioni nuove, vasto fiorire di rossi ombrelloni, cieli tersi o accesi, derivazioni o fenomenologie, insomma, dell’unica realtà di scandaglio che anima il D’Andrea. Vengono tratti in luce – tramite un arricchimento continuo della tecnica e del colore – donne, squarci di mare, bambini, e su tutto si sente la giudicante percezione cromatica del pittore che coglie la molteplice vita dell’estremo ardore dell’estate mediterranea»;
Lucio Mastronardi: «D’Andrea è un acuto annotatore di momenti spirituali. La ricerca della sensazione sfuggente, lo stile leggero e deciso mi ricordano il grande Svevo»;
Corrado Maltese: Roma 10 ottobre 1966, «Caro D’Andrea, tornando da uno dei miei viaggi e viaggetti (spesso faticosi, ma sempre obbligatori per chi fa la professione di critico e storico nel mondo delle forme) trovo la Sua del 26 scorso. È una sorpresa graditissima perché è accompagnata da un gruppo di disegni che rappresentano la Sua ultima produzione e che Lei mi mostra chiedendomi di leggerli e di giudicarli. Nulla per me di più lieto e “distensivo, voglio subito dirglielo, perché Lei non è mai stato tormentato – e non lo è nemmeno ora – da problemi amletici dell’arte di punta del nostro tempo, non dal pungolo tecnologico, non dall’ansia del sublime sociale e metafisico. Le basta – currenti calamo – disegnare come si scrive, sintonizzare il gesto vitale del tracciare un segno che sia contorno, ombra, colore con il brulicare popoloso nello spazio fisico (umanamente fisico) che ci circonda, di un mondo semplice di esseri vivi, soprattutto di persone vive. Perciò la Lettura” è immediata, facile, lieta come possono essere liete le emozioni che accompagnano ogni nostro incontro con i nostri simili. Lei ha compiuto una strada notevole: dapprima, certo, ha “succhiato il latte” del naturalismo ciociaro di Purificato, ha imparato la lezione della seconda e della terza “scuola romana”, da Stradone a Omiccioli; poi ha pian piano trovato la Sua grafia e un ritmo espressivo, Suo proprio, che fa pensare a precedenti molto illustri: alle macchiette del Guardi, a certi disegni di nobile scuola napoletana del Seicento, ma anche – come no – a certi mirabolanti itinerari grafici di un Picasso recente (toreri e cavalli, figure, ecc.). Sono, ovviamente, precedenti che rappresentano per Lei un impegno e un rischio da far paura! Ma rallegramenti – intanto – caro D’Andrea, e ad maiora!»;
Giacinto Spagnoletti (Socialismo Democratico): «La sua arte resa fine da un segno grafico personale, che unisce alla ricerca interiore una sagace maestria formale».
A mio giudizio «la sua arte si conclude con i “bianchi”, tele magistralmente preparate sulle quali scriveva le sue fantasie con una penna leggera di sua invenzione. Era questa il ramo di una canna appuntito ed ammorbidito da provetta esperienza: lo usava come morbido pennello. Ne è prova Angelo Santilli da me disegnato con uno sfumato di matita e ravvivato dalla sua ingegnosa ultima modalità dell’uso del colore». Sono contrariato di fare queste rivelazioni, ma necesse est: carpent tua poma nepotes… (Virgilio, Egloghe IX, 50).
Infine, la grande ironia: ricordo quando al pranzo offerto dal preside Tribuzio si ruppe il tuo apparecchio acustico e tu, senza dartene preoccupazione, esprimesti il tuo giudizio ironico: «ha fatto sciopero l’ENEL».
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