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«Studi Cassinati», anno 2022, n. 4
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di Fernando Riccardi
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La presentazione del bel volume di Alfio Borghese dal titolo Ciociaria. Paesi & Paesaggi, tenutasi presso la Sala Restagno del Comune di Cassino, ha dato lo spunto, grazie anche al dibattito che ne è scaturito, per tornare a parlare di una vexata quaestio che ciclicamente si ripropone: che cos’è la Ciociaria? quali i suoi limiti territoriali? quando è nata la denominazione? e il ruolo delle ciocie? e l’influenza del fascismo? esistono ciociari del nord e ciociari del sud? e cosa hanno in comune «papalini» e «regnicoli»?
Nel corso degli anni ho partecipato a tante conferenze e a tanti convegni nei quali si affrontava questa particolare tematica ma non ricordo conclusioni uniformi. E così quei punti interrogativi sono rimasti senza risposte. Una cosa, però, va ribadita a chiare note: nonostante le diverse posizioni e malgrado lo scorrere inarrestabile del tempo, ancora permane una profonda divisione tra «papalini» e «regnicoli». I primi, che risiedono al di là del Liri, da Ceprano in su, tanto per essere chiari, sono gli alfieri dell’identità ciociara, orgogliosi di essere tali e di sbandierarlo ai quattro venti. Gli altri, invece, quelli che abitano dall’altra parte del fiume, da Arce in giù, e che fino al 1927 appartenevano a Caserta e alla Terra di Lavoro, proprio non vogliono saperne di essere etichettati come ciociari. Il punto centrale di tutto il discorso sta proprio lì, in quel Liri di dantesca memoria che, nel susseguirsi dei secoli è andato ad acquistare un ruolo ben più importante della sua stessa connotazione fluviale. Quel corso d’acqua, un tempo «verde» e limpido, ora limaccioso, sporco e inquinato, ha costituito fino all’unità d’Italia, e anche oltre, l’antico confine tra due stati limitrofi. Oggi, però, lungi dall’aver esaurito il suo compito separatorio, continua a rappresentare, in maniera indelebile, la linea di demarcazione, l’ermetica cerniera fra la porzione centrale della Penisola e il meridione. Una barriera naturale ma, nel contempo, storica (Georgina Masson l’ha definita la linea di confine più longeva dell’intero continente europeo), culturale, economica, sociale, linguistica, di costume, che la nascita della provincia di Frosinone non è riuscita ad abbattere, incamerando nel suo grembo territori distanti e, soprattutto, disomogenei. Una semplice operazione di “collage”, sia pure abilmente studiata a tavolino, non poteva eliminare alla radice le fin troppo evidenti contraddizioni. Proprio da qui parte quella differenziazione netta, caparbia, ostinata sull’uno e sull’altro versante, che non riesce a trovare punti di contatto. Però, mentre i «papalini» (fino al settembre del 1870 Frosinone era parte integrante dello Stato della Chiesa) sarebbero disposti ad accorpare nel “progetto ciociaro” anche il lembo meridionale della provincia, la media, la bassa Valle del Liri e il Cassinate tanto per intenderci, da parte dei «regnicoli» si registra una chiusura netta e totale: essi, infatti, non si sono mai considerati ciociari né, tantomeno, hanno intenzione di diventarlo ex post. Si tratta soltanto di una curiosa e anacronistica sfida tra campanili oppure c’è tra le pieghe qualcosa di più pregnante? In effetti, al di là di alcuni aspetti folcloristici di per sé trascurabili, la questione è seria e va affrontata con acume e serietà di intenti. Qui, infatti, è in gioco l’identità di una provincia, di un territorio compresso e quasi schiacciato tra Roma e Napoli che, a cent’anni alla nascita, ancora non riesce a svilupparsi in tutta la sua pienezza. è indubbio che il governo fascista, creando ex abrupto la provincia di Frosinone, sia andato ad infrangere gli equilibri sociali, economici e culturali, compiendo solamente un’operazione di mero assemblaggio. Grazie all’impegno del governo centrale il “concetto” di Ciociaria iniziò a prendere forma, a materializzarsi, uscendo dalle nebbie indistinte nelle quali, fino ad allora, era stato relegato. Il mito del «ciociaro forte, valente e coraggioso», discendente diretto di quei Romani che avevano conquistato il mondo, cominciò ad imperversare in lungo e in largo, agevolato da una politica tutta diretta a far risaltare la fede fascista della nuova provincia, a fronte degli atteggiamenti tiepidi o, addirittura, avversi che provenivano dal casertano. Non è un mistero che Mussolini, dando vita alla provincia di Frosinone, volle soprattutto punire Caserta (l’unico capoluogo di provincia ad essere abolito), covo pullulante di riottosi antifascisti. Fu proprio da allora, dunque, che la nuova provincia diventò «ciociara», senza esclusione alcuna. La costruzione artificiosa, comunque, rimaneva tale e, perciò, il fuoco della differenziazione culturale o identitaria che dir si voglia, continuava a covare sotto la cenere e ad essere ben presente in chi ciociaro non si era mai sentito. Caduto il fascismo, superate le difficoltà inenarrabili del dopoguerra e della ricostruzione, puntualmente, i nodi sono venuti al pettine e la questione è tornata di grande attualità. Difficile, anzi praticamente impossibile, tentare di trovare un accordo tra i “belligeranti”. Anche perché la Ciociaria continua a rimanere un concetto molto variabile: alla stregua di un elastico ognuno la tira da una parte o dall’altra, facendosi interprete soltanto dei propri convincimenti. E così, come per incanto, può restringersi o allargarsi a seconda di chi conduce il gioco. Come, del resto, già avevano fatto, nelle epoche passate, geografi, storici, cartografi e redattori di mappe. Stando così le cose, difficilmente, si riuscirà a trovare il bandolo della matassa. Anche perché quella “barriera” continua ad ergersi imponente e invalicabile o quasi. E se non sopraggiungeranno radicali, ma assai improbabili, mutamenti di carattere amministrativo (i tanti progetti di una nuova provincia bipolare sono tutti miseramente naufragati nel corso degli anni) continuerà a rimanere fatalmente in piedi. Dovremo rassegnarci, quindi, ad avere una provincia profondamente divisa nel suo interno, con un’identità frammentata e con due blocchi disomogenei che si confrontano senza riuscire a trovare un punto di sintesi? E fino a quando quella barriera naturale, e non solo, continuerà a separare due territori che poco o niente hanno in comune? Chissà … Una cosa comunque è certa: Mussolini in quel dicembre del 1926, sicuramente non poteva prevedere che quella decisione presa d’imperio, a distanza di così tanto tempo, continuasse a dividere profondamente due territori limitrofi ma non omogenei. Prima di concludere mi piace riportare un breve passo tratto da un racconto dal titolo I contrafforti di Frosinone, di Tommaso Landolfi (1908-1979), lo scrittore di Pico, uno dei più importanti del ‘900, dove si affronta proprio la questione della quale si dibatte: «Senza dubbio il mio paese, che era sempre stato nella provincia di Caserta, è attualmente nella provincia di Frosinone. Ma che perciò? Né la sua lingua, prima che il triste evento si producesse, né le sue tradizioni ebbero mai nulla a che vedere con ciò che ancora qualche vecchio chiama lo stato romano: di qua Longobardi, Normanni, Angioini, di là papi e loro accoliti; di qua una lingua di tipo napoletano-abruzzese, di là una specie di romanesco suburbano, a non tener conto poi di tutto il resto. Si intenda comunque: io non sto ponendo qui una questione più o meno personale, ma prendendo le parti di tutti quei paesi e di tutti quelli che un dissennato potere ha strappato o allontanato dal loro centro naturale. Che poi questi paesi abbandonati al nemico vadano sposando, per la bestiale insensibilità di molti loro abitanti, i costumi dell’attuale capoluogo, è altro discorso: tutto si perde a questo mondo, tutto svanisce come bruma o sogno. Ma non la prendiamo così sul tragico. Se non che, per finire, io vorrei ancora che i miei sia pur benevoli detrattori, coloro che si divertono a qualificare me o altri miei compagni d’esilio di ciociari, rispondessero a questa semplice domanda: che colpa, daccapo, ha un pover’uomo se, amministrativamente parlando, il suo paese appartiene alla provincia di Frosinone? Un po’ di lealtà vi si chiede, amici miei, e soprattutto un po’ di carità»1.
Ecco io credo che non esistano parole migliori per spiegare la distanza incolmabile che separa i «regnicoli» dai «papalini». Una frattura che il passare del tempo non ha affatto sanato. Anzi tutt’altro.
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1 T. Landolfi, Le più belle pagine scelte da Italo Calvino, Adelphi Edizioni, Milano 2001, pp. 338-339.
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