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«Studi Cassinati», anno 2023, n. 1
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di Gaetano de Angelis-Curtis
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L’ATTACCO MILITARE FRANCESE
Nell’ambito della prima «Battaglia di Cassino» le alte sfere militari alleate aveva predisposto, all’inizio di gennaio del 1944, un piano d’attacco per giungere allo sfondamento della Linea Gustav, la possente linea difensiva approntata dai tedeschi da Minturno a Ortona per fermare l’avanza da sud dell’Esercito alleato. Si trattava di un’azione di attacco a tenaglia da effettuare sui monti a nord-est di Cassino a opera dei militari del Corpo di spedizione francese (Cef) e del II Corpo americano. Nello specifico al Cef fu affidato l’incarico di conquistare il colle Belvedere (quota 862 slm) e il colle Abate (quota 915 slm), quindi occupare il vicino paese di Terelle e poi raggiungere Piedimonte S. Germano al fine di tagliare l’«arteria vitale dei difensori tedeschi», cioè la Casilina. Invece agli americani spettava il compito di oltrepassare il fiume Rapido nella zona di Caira e risalire la montagna fino all’abbazia di Montecassino. L’attacco francese era particolarmente ardito e complesso. Dal punto di partenza, «Il lago», i militari dovevano ridiscendere il crinale da Acquafondata-Vallerotonda-S. Elia fino al fondovalle del Rapido, attraversare due strade, varcare la Linea Gustav con le sue difese (reticolati, mine, casematte), guadare il Rio Secco dalle acque gelide fino alla cintura, risalire il massiccio del Cairo fino a quasi 1000 metri di quota «su pendii terribilmente ripidi, talvolta vertiginosi, senza una possibilità di mimetizzarsi, senza un rifugio», nel «bel mezzo delle postazioni nemiche», osservati dai
tedeschi «su ogni lato, presi a sandwich tra il Monte Cairo di fronte ed il Cifalco dietro» e «combattendo senza fermarsi»1 su alture imbancate dalla neve o gelate in un inverno particolarmente rigido e piovoso. Al centro dello schieramento era stata posta la 3a Divisione di fanteria tunisina (RTT) che aveva sulla sua destra i fanti algerini (RTA), sulla sinistra aliquote costituite da Saphis algerini, da Cacciatori d’Africa con l’appoggio di carri armati americani, «mentre la [Seconda] divisione marocchina ricevette l’incarico di agganciare con attacchi locali, le forze tedesche nel suo settore»2. L’attacco scattò alle ore 6 del 25 gennaio 1944. Nel pomeriggio del 25 gennaio i fucilieri tunisini conquistarono Colle Belvedere e il giorno successivo Colle Abate. L’indietreggiamento dei difensori tedeschi di fronte agli attaccanti lasciò «deserto» il pianoro di Ottaduna che divenne «terra di nessuno»3. Tuttavia i coloniali francesi, rimasti privi di munizioni e rifornimenti, non riuscirono a respingere il contrattacco tedesco che il 27 riuscì a riconquistare le due alture. Gli stremati militari tunisini, che avevano dovuto difendersi dalle controffensive tedesche, che avevano assistito a «lunghe teorie di feriti, di morti» trasportati verso il basso o di prigionieri inviati nelle retrovie, che avevano visto il sacrificio anche di donne francesi (infermiere, autiste, addette alle ambulanze) le quali «rivendicavano il diritto di essere trattate non come ausiliarie ma come soldati», che erano rimasti privi fin da subito di acqua e viveri e solo «a distanza di sei giorni dall’inizio dell’attacco» poterono essere «raggiunti da rifornimenti trasportati su muli guidati da conducenti marocchini»4, cessarono «di esistere» per le forti perdite subite. Vennero sostituiti dal 7° Reggimento fucilieri algerini che continuarono ad attaccare le due alture (Colle Abate e Colle Belvedere) conquistandole, perdendole, rioccupandole e riperdendole. Alla fine gli uomini del Cef riuscirono ad attestarsi su quei rilievi ma la definitiva conquista non riuscì a produrre alcun risultato militarmente utile5.
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TERELLE E GLI STUPRI SOTTACIUTI
A partire dall’inizio del 1944 le popolazioni dei vari centri del Lazio meridionale, e non solo, erano «in attesa di accogliere con gioia l’arrivo degli Alleati perché con la liberazione stava per terminare il lungo, buio, difficile, cruento periodo di guerra». Tuttavia proprio mentre infuriava l’offensiva militare ed erano in corso i combattimenti, i «militari nordafricani, e solo loro … si disinteressavano della battaglia, dello scontro armato iniziando a depredare, a violentare, a uccidere chi tentava di impedire questi scempi, come provano le testimonianze raccolte». Così fin dal gennaio 1944, mentre si svolgeva l’attacco a colle Belvedere e colle Abate, militari del Cef andarono alla ricerca, nel pianoro di Ottaduna a Terelle e nelle zone viciniore, «di casolari, caverne e grotte dove si trovavano rifugiati uomini, donne, bambini in trepidante attesa di essere liberati da quelli che ritenevano fossero soldati “americani”. Poi invece si accorsero che si trattava di strani militari “dai visi olivastri”, “avvolti in lunghi pastrani-burnus che sembravano tanti monaci”, con i “capelli che fuoriuscivano dagli elmi e dalle barbe” incolte». Soldati che entravano con la forza nei casolari allo scopo di prelevare le donne dall’interno «oppure tentavano di strapparle dalle colonne di civili in marcia verso la salvezza»6. Tale modo di agire ebbe inizio a Terelle per ripetersi tristemente dalla metà di maggio 1944 in poi a Esperia, nelle valli di Polleca e Serini, e quindi a Sant’Oliva di Pontecorvo, a Coreno Ausonio, a Pico, a Lenola e più su, quando le popolazioni locali andavano incontro ai “liberatori” in modo festoso e amichevole ma dall’altra parte la «mano non [veniva] allungata per la stretta bensì [veniva] infilata nelle tasche a cercare oggetti di valore», così come, subito dopo, si iniziarono a sentire, anche se in quel momento quelle genti non se ne resero conto appieno, «strilli da tutte le parti, erano le donne che non riuscivano a sfuggire alle violenze sessuali delle truppe di colore»7.
In sostanza il paese di Terelle, ubicato in quota sulle pareti di monte Cairo, investito dall’attacco alleato e, nella fattispecie, dal Corpo di spedizione francese, fu tra i primissimi centri a sperimentare la dissoluta condotta delle truppe coloniali così anche le donne di quel Comune, pur non nelle quantità delle violenze sessuali perpetrate a cominciare dallo sfondamento avvenuti su monti Aurunci, hanno dovuto pagare un aberrante e alto tributo alla guerra.
Tuttavia Terelle non appare quasi mai, se non mai, incluso nell’elenco di quei Comuni nei quali furono compiuti stupri e violenze da parte dei militari del Cef.
Nella documentazione ufficiale emessa dai vari organi istituzionali italiani, così come nelle note parlamentari, nei resoconti del dibattito politico, nelle corrispondenze giornalistiche e, conseguentemente, nell’opinione pubblica manca qualsiasi riferimento diretto o indiretto agli stupri compiuti a Terelle. Infatti tutte le relazioni redatte nell’immediato dalle autorità del tempo attivatesi per la predisposizione e l’organizzazione dei primi interventi assistenziali (in particolare quelle prefettizie e quelle sanitarie facenti capo, allora, al ministero dell’Interno, che inviarono nei posti attraversati dalla furia dei militari coloniali vari ispettori sanitari provenienti da Roma i quali raccolsero le indagini condotte dalle forze di polizia, dai medici condotti locali e dai sindaci) fanno riferimento a una decina di Comuni dislocati a cavallo della linea di confine delle province di Frosinone e Littoria-Latina ubicati in quell’area compresa tra le valli dell’Amaseno e del Sacco che sembrò come «travolta da un uragano». Si trattava, cioè, in primis di Esperia e poi dei Comuni di Amaseno, Castro dei Volsci, Ceccano, Fondi, Giuliano di Roma, Lenola, Pastena, Pico, Pontecorvo, Vallecorsa, Villa Santo Stefano8.
Anche le interrogazioni depositate nelle Aule parlamentari da vari deputati nazionali (Giulio Andreotti, Luigi Battisti, Aldo Bozzi, Giacomo De Palma, Augusto Fanelli, Giovanni Persico, Pier Carlo Restagno, Dante Veroni) che interessarono le autorità governative del tempo, nonché le risposte offerte da sottosegretari e rappresentanti del governo, non hanno mai fatto richiamo a Terelle.
Al pari anche l’«impressionante campagna di stampa» avviatasi in seguito alla denuncia del sindaco Giovanni Moretti ripresa dal periodico «Il Rapido» e che portò varie testate giornalistiche a interessarsi delle questioni delle violenze sessuali inviando decine di corrispondenti, giornalisti, fotografi sul territorio, specificatamente nella zona di Esperia e dintorni, non riferì di episodi e casi accaduti a Terelle.
Pure le riunioni di sindaci e amministratori locali susseguitesi dopo il 1946 allo scopo di predisporre specifiche richieste da sottoporre ai ministeri competenti e all’Ambasciata di Francia a Roma, e caratterizzatesi anche per l’ampliamento dello spettro dei Comuni danneggiati dalle truppe coloniali francesi con l’inclusione di vari altri centri (Aquino, Ausonia, Acquafondata, Campodimele, Cassino, Castelnuovo Parano, Cervaro, Coreno Ausonio, Falvaterra, Formia, Patrica, Prossedi, S. Andrea, S. Apollinare, S. Giorgio a Liri, S. Giovanni Incarico, S. Elia Fiumerapido, Sperlonga, Supino, Vallemaio, Vallerotonda, Villa S. Lucia) non contemplarono Terelle.
Anche nella più importante delle interpellanze presentate al Parlamento, quella depositata dall’on. Maria Maddalena Rossi e discussa alla Camera dei Deputati nella seduta notturna del 7 aprile 1952, la parlamentare, nel suo intervento, riferì di una trentina i Comuni delle province di Frosinone e Latina che erano stati percorsi dalle truppe coloniali francesi nei quali erano stati commessi stupri e violenze, ma tra essi non figura Terelle9.
Tuttavia non solo nei materiali ufficiali prodotti nell’immediato dopoguerra e in epoche successive ma anche negli studi e nelle ricerche svolte pure in modo approfondito nel corso dei decenni non appare citato Terelle come uno dei Comuni su cui si abbatterono le violenze del Cef.
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TESTIMONIANZE SUGLI STUPRI DI TERELLE
Uno dei pochissimi a pubblicare le vicende legate agli stupri perpetrati a Terelle è stato Pietro Grossi, cultore di storia locale, che nel 2013 ha licenziato un volume intitolato appunto Terelle in cui si sofferma a tratteggiare il suo luogo d’origine nel corso dei secoli ma che poi è per la gran parte assorbito dal racconto del passaggio della furia bellica nel paesino montano, con tutto il carico di conseguenze immediate e di quelle del dopoguerra. Il volume, oltre a includere undici rapporti e/o ricordi di militari dell’esercito germanico impegnati nella difesa di Terelle, ha a corredo tutta una serie di testimonianze rilasciate da ben 69 persone che vissero quei drammatici momenti, memorie riportate citando le generalità dei dichiaranti, mentre solo due, le più scabrose, sono in forma anonima10.
Alcune di tali testimonianze fanno riferimento anche agli stupri subiti dalle donne di Terelle. Così nell’ultimo studio che ho dedicato alla questione delle violenze11 ho inteso dare atto di quanto riportato in merito alle violenze sessuali nel volume da Pietro Grossi poiché egli ha provveduto a raccogliere, dando loro una veste editoriale, le dichiarazioni di protagonisti e testimoni seppure precisi che «qualche ammissione» sugli stupri è stata «fatta a denti stretti e in maniera sempre poco chiara» in quanto «certe cose non si dicono neppure in confessione. La gente di montagna non riuscì a ridire i soprusi subiti, nemmeno quando si trattò di poter ritirare, una tantum, un compenso in denaro per i patimenti subiti, specie di fronte al funzionario del comune il quale, per eccessivo zelo, pretendeva la dichiarazione della violenza subita. Neppure la miseria dell’epoca riuscì a soppiantare il pudore insito nelle coscienze di quelle contadine. L’ammissione della violenza patita appariva un sacrifico più atroce dello stupro subito»12. A distanza di tempo, a giudizio di Pietro Grossi, quelle donne «ancora si porta[vano] dentro la barbarie alla quale furono sottoposte durante quelle giornate tremende» poiché «violentate nello spirito e nella carne» e negli anni successivi «hanno continuato a morire dieci cento, mille volte al solo ricordo»13.
Anche nel caso di Terelle quei soldati, che non erano i tanto agognati liberatori americani, ma erano «individui dai visi olivastri avvolti in lunghi pastrani», mentre facevano la guerra circondavano le case, spalancavano a calci le porte, vi penetravano e «incutevano paura alle donne»14. Nel suo volume Pietro Grossi racconta di quanto accaduto ad Antonio Dipoi che ritrovatosi con la famiglia nel bel mezzo delle operazioni di attacchi e difesa tra tedeschi e militari del Cef, «in quella mischia orrenda, si armò pure lui di un fucile e fu addosso ad un brutto ceffo dal colore olivastro che gli voleva portar via la figlia diciottenne», facendo evidente riferimento a un soldato appartenente alle truppe coloniali15.
Ancora nel volume è riportata la testimonianza di Pasquale Tari che durante l’assalto degli uomini del Cef si trovava rinchiuso nei vani «più nascosti» della casa di famiglia ubicata sul «crinale del Belvedere». La speranza della sua famiglia era riposta nell’arrivo di quelli che consideravano i liberatori americani. Una «gioia grande si poté leggere sui volti di tutti» gli abitanti «quando i primi [soldati alleati] raggiunsero le prime case della borgata. Poi ci fu chi disse che il loro comportamento non era corretto e che americani non potevano essere, proprio dal momento che s’erano udite delle donne urlare. Vestivano lunghi giacconi a strisce, anzi erano pastrani colorati e i capelli fuoriuscivano dagli elmi e le barbe le avevano incolte. La sera stessa mentre con i miei ed alcune altre famiglie vicine di casa nostra, al lume d’una piccola lampada a petrolio, stavamo zitti zitti, gettati l’un a fianco dell’altro a piangere di paura per lo scoppio delle cannonate e a meditare sulla presenza nella nostra borgata di gente così tanto nuova e strana, due di loro fecero irruzione nel nostro nascondiglio … i nuovi arrivati nel loro incomprensibile linguaggio davano ordini che non riuscivamo a comprendere. Uno di essi sparò intanto un colpo di pistola e noi cominciammo ad urlare per lo spavento … poi decisi si presero una ragazza che s’era rifugiata da noi, proveniente dall’Olivella e se la portarono via. I timori di prima non erano infondati … Tornò invece la ragazza verso la mezzanotte … Non erano quelli gli americani così tanto attesi?»16.
Un tale Egidio ricorda della fiducia riposta nell’arrivo dei soldati alleati che dovevano liberare quelle contrade in cui i tedeschi avevano provveduto, nei mesi precedenti, a razziare tutti gli animali e che erano sempre lì pronti a portar via gli uomini. La zona in cui viveva Egidio si ritrovò al centro dei combattimenti, divenendo «bersaglio dei due contendenti», per cui gli abitanti decisero di abbandonare le loro case e spostarsi in zone più tranquille: «Mi misi alla guida del drappello con l’intento di recarci all’Ottaduna, ma giunti che fummo sulla via che risaliva da Valle Infonso gli americani erano già su di essa. Cercammo di avvicinarci, ma iniziarono subito a strappare dal gruppo le donne, puntando addosso agli uomini le armi. Un loro ufficiale ci immise per la via che conduceva a S. Elia, sulla quale ci incamminammo difendendo alla meglio le nostre donne dai drappelli isolati di americani che non potevamo evitare e giungemmo alle case dei Valloni che era ormai notte. Tentammo di entrare per ripararci dal freddo e dalle esplosioni ma anche lì trovammo soldati pronti a tirar dentro le donne che intanto urlavano e imploravano il nostro aiuto …»17.
Nel volume è riportata pure una testimonianza, in forma anonima, che ricorda i drammatici momenti vissuti in alcuni caseggiati ubicati al di sopra di colle Belvedere: «Uscii all’aperto e mi diressi veloce al centro della borgata, ove, al riparo nel caseggiato, erano asserragliati quasi tutti gli abitanti del luogo. Ma prima di giungervi ecco mio zio, il quale attaccato ad un braccio della figliuola Nazarena giovinetta diciottenne, cercava di strapparla dalle rapaci grinfie di un soldato armato di tutto punto, deciso a portarla via. Aveva ben capito mio zio l’intenzione del beduino e non si dava per vinto. Riuscì anzi a disarmalo e a dargli addosso col fucile a mo’ di spranga. Sopraggiunse intanto un altro soldato, sembrava un ufficiale, che avvicinandosi diceva in maniera concitata rivolto a mio zio: Ammazzalo, ammazzalo! A quel punto lo zio invece gettò l’arma e noi ci stringemmo attorno a lui. L’ufficiale col mitra spianato, tenendo a bada i soldati che continuavano a giungere, cercava di farci capire che dovevamo andar via di lì perché quei soldati dai volti olivastri non promettevano nulla di buono»18.
Infine la testimonianza più cruenta e dolorosa, riportata in forma anonima, è quella di una donna che subì violenza: «E rimasi lì come un Cristo in Croce, dopo essermi dibattuta tanto e difesa con morsi e graffi. Quell’alito caldo e puzzolente, la stretta soffocante, un dolore lancinante e poi … non ricordo più nulla, anzi, non posso dire più nulla. Mi trascinò fuori dalla stanza, io barcollavo, ma pronto un altro, un toro villoso mi spingeva sotto la rampa della scala. Vidi quelle labbra tumide e quei suoi occhi dilatarsi fino a divenire enormi sfere, rosse di veleno. Venne subito fuori il seviziatore di prima che con la pistola lo costrinse a lasciarmi. Sembrava pentito e rabbonito. Mi lanciai fuori a più non posso. Come una capra mi arrampicai sulle rocce, forsennata saltai fossi e steccati, qualcuno mi scaricò addosso un caricatore intero di pallottole, mi fischiarono alle orecchie, raggiunsi la salvezza»19.
Le testimonianze raccolte da Pietro Grossi hanno fatto emergere, senza ombra di smentita, come anche Terelle sia stata funestata dagli stupri che si vennero a concentrare nell’ultima settimana di gennaio, quella dell’attacco a colle Abate e colle Belvedere, nella zona dell’Ottaduna, nella contrada Pozzi e dintorni.
Ora il velo di oblio e di omertà venutosi a stendere nel corso degli anni su quelle vicende orribili accadute a Terelle appare totalmente squarciato dalla Tesi di Laurea di Anna Tari, discussa presso l’Università degli Studi di Cassino, che spazza via qualsiasi dubbio o incertezza facendo piena luce sulle violenze subite e sugli abusi perpetrati a danno delle donne di quel centro a opera dei militari del Cef. Le testimonianze riportate nella Tesi fanno riferimento a vari casi di stupri ma in particolare a quello patito da una giovane donna, allora ventenne, che stava percorrendo la località dell’Ottaduna al fine di raggiungere S. Elia Fiumerapido con la sua famiglia ed altri compaesani per poi poter essere sfollati nel meridione d’Italia. Vari soldati del Cef riuscirono a sottrarla ai suoi cari e abusarono di lei. Le ferite e le malattie veneree contratte la costrinsero a una lunga degenza presso nosocomi della capitale. Tuttavia nel secondo dopoguerra riuscì a vincere la diffidenza del suo paese e contrasse matrimonio coronato dalla nascita di vari figli20.
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NOTE
1 R. Chambe, La strada per Cassino [Le Bataillon du Belvedere], Edizioni dell’Albero, Torino 1967, p. 33.
2 R. Böhmler, Monte Cassino, Baldini & Gastoldi, Milano 1964, p. 249. Aliquote della 2e Divisione di fanteria marocchina (DIM) erano poste di fronte alle alture di Belmonte Castello sulla destra dei fucilieri algerini (RTA), mentre altre, come il 5° Reggimento fucilieri marocchino (RTM), si trovavano «en riserve a S. Elia» (J. Mordal, Cassino, Le Livre Contemporain, Paris 1952, p. 108).
3 L. Cavallaro, Cassino. Le battaglie per la Linea Gustav, Mursia, Milano 2004, p. 99.
4 R. Chambe, La strada per Cassino … cit., p. 216.
5 L. Cavallaro, Cassino. Le battaglie per la Linea Gustav, Mursia, Milano 2004, p. 109.
6 G. de Angelis-Curtis, Giovanni Moretti. Il sindaco che denunciò le «disumane offese di scellerati invasori», Centro Documentazione e Studi Cassinati-Onlus, Cassino 2020, p. 46.
7 G. Moretta, La valle del Quesa, Tip. Fratangeli, Frosinone 2007, p. 26.
8 Cfr. Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gab. 44-46, b. 27, f. 2097 (alcuni documenti sono riportati in G. de Angelis-Curtis, Politica, economia e società in provincia di Frosinone 1944-1948, Caramanica Ed., Marina di Minturno 1996, pp. 259-261).
9 Maria Maddalena Rossi (1906-1995), parlamentare del Pci e presidente dell’Unione Donne Italiane, nel suo intervento (Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Discussioni – Seduta notturna del 7 aprile 1952, Tip. della Camera dei Deputati, Roma 1952, pp. 37011-37020) ricordò che le violenze si ebbero «almeno in una trentina di paesi delle province di Frosinone e Latina, percorse dalle truppe marocchine» citando espressamente quelli di Esperia, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Pastena, Pontecorvo, Sant’Angelo in Theodice (fraz. di Cassino), San Giorgio a Liri, Pignataro Interamna, Ceccano (sulla importante figura cfr. F. Di Giorgio, Il dopoguerra nel Lazio Meridionale: la ricostruzione, i bimbi di Cassino e Maria Maddalena Rossi, Centro Documentazione e Studi Cassinati-Aps, Cassino 2020).
10 P. Grossi, Terelle, Sambucci ed., Cassino 2013. La sezione Testimonianze di sopravvissuti è alle pp. 235-240.
11 Cfr. G. de Angelis-Curtis, Giovanni Moretti. Il sindaco che denunciò le «disumane offese di scellerati invasori», Centro Documentazione e Studi Cassinati-Onlus, Cassino 2020.
12 P. Grossi, Terelle … cit., p. 232.
13 Ivi, p. 233.
14 Ivi, pp. 232-233.
15 Ivi, p. 134.
16 Testimonianza di Pasquale Tari in P. Grossi, Terelle … cit., pp. 313-314.
17 Testimonianza di tale Egidio (riportato con il solo nome di battesimo) in P. Grossi, Terelle … cit., pp. 336-337. Pietro Grossi ha aggiunto in calce al testo: «L’autore della presente testimonianza a questo punto della narrazione si è messo a piangere e non è riuscito a proseguire».
18 Testimonianza anonima in P. Grossi, Terelle … cit., pp. 327-328.
19 Testimonianza anonima in P. Grossi, Terelle … cit., p. 326.
20 A. Tari, La seconda guerra mondiale e le marocchinate subite dalla popolazione femminile, Tesi di Laurea, A.A. 2021-2022, Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, relatrice chiar.ma prof.ssa Fiorenza Taricone.
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