«Studi Cassinati», anno 2023, nn. 2-3
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di
Francesco Di Giorgio
Giuseppe De Monaco (Pignataro Interamna 1841 – Napoli 1921), dell’antica famiglia nobiliare napoletana con profonde radici in Cassino e Pignataro Interamna, coniugato con donna Letizia Cavalcanti dei marchesi di Verbicaro, fu un fine giurista dell’Italia post unitaria e principe del foro di Napoli.
Viveva prevalentemente a Cassino nel palazzo di famiglia la cui costruzione risaliva ai primi anni del ‘700. Da qui seguiva diligentemente anche i suoi impegni politici in qualità di eletto al Consiglio provinciale di Terra di Lavoro. In questo palazzo prima di lui erano vissuti Palmerino De Monaco e la sua numerosa prole. In esso vi erano custoditi antichi documenti di famiglia e incartamenti di alto valore culturale, andati persi durante la Seconda guerra mondiale quando il palazzo fu raso al suolo dai bombardamenti aerei.
I De Monaco erano anche grandi latifondisti con terreni che confinavano con quelli amministrati dall’Abbazia di Montecassino e si estendevano su un territorio che spaziava dal fiume Liri al Gari verso Sant’Angelo in Theodice, da Villa Santa Lucia alla frazione Pisciariello di Pignataro.
Su questi terreni già Palmerino De Monaco predecessore di Giuseppe aveva provveduto a far costruire una serie di mulini ad acqua con tecnologia francese. Dunque molto all’avanguardia per l’epoca.
Il latifondo (su cui si tornerà più avanti) era stato acquistato da Palmerino De Monaco nel 1807 nell’ambito delle vendite che l’Amministrazione dei reali demani aveva fatto dopo l’entrata in vigore della legge 13 febbraio 1807 sull’eversione della feudalità1. La validità piena e legittima dei beni fu confermata il 19 febbraio 1814 a seguito di una vertenza insorta con il comune di Pignataro2. In quella stessa occasione il De Monaco acquistò pure due molini in San Germano (l’attuale Cassino) per il prezzo di 70.000 ducati3.
Fu il figlio di Palmerino, Gennaro, che successivamente costituì una folta rete di molini e valcherie a San Germano-Cassino che partendo dal quartiere di San Silvestro si estendeva fino alla zona su cui insisteva la chiesa di San Rocco (oggi ricompresa nell’area di piazza Marconi).
Giuseppe si conferma, come l’illustre antenato, latifondista illuminato tanto è che, nell’ambito di progetti di sviluppo promossi dal Ministero dell’agricoltura dell’Italia post unitaria, comincia a valutare l’ipotesi di allargare e diversificare le produzioni agricole nelle sue fattorie fino a quel tempo pressoché interessate solo da produzioni di cerealicole.
L’idea di partenza muove da alcune considerazioni generali: la coltura delle piante fruttifere, una delle più importanti del Mezzogiorno d’Italia è fra quelle che presentano prospettive future migliori poiché il consumo e la richiesta dei suoi prodotti apparivano in continuo aumento. Inoltre tali colture potevano contare su una favorevole congiuntura sia per il clima, sia per la sparizione delle antiche barriere doganali, sia per lo svilupparsi delle ferrovie, utili ad esportare il prodotto all’estero.
Da un rapporto del Ministero dell’agricoltura del 1890 sulla frutticoltura e commercio della frutta i Terra di Lavoro, si evince che:
«La frutticoltura nella provincia di Terra di Lavoro non è così sviluppata come potrebbe esserlo in base agli elementi naturali che si riscontrano, cioè terreni profondi e di mezzana resistenza, con esposizioni favorevoli alla riuscita delle piante fruttifere per postura calda, o umida tra le insenature e le convalli dei molteplici contrafforti appenninici che si protendono variamente dall’un capo all’altro di questa estesa regione. Ed infatti mentre gli agrumi prosperano bene nel territorio litorale tra Gaeta e Formia ed in quelle, come Caserta, Maddaloni e Santa Maria a Vico e dintorni; mentre il pesco riesce bene nella maggior parte dei terreni asciutti di piano e di colle, ed il melo in quelli più freschi al piede delle colline, non se ne vede estesa la coltura sino al limite che si potrebbe raggiungere utilizzando le condizioni naturali e quelle economico-sociali di quella fertile regione, che abbraccia gran parte della Campania felice degli antichi».
Il rapporto prosegue con una attenta disamina sulle varietà della frutta prodotta e i luoghi di maggior produzione: «dalle campagne che da Capua si estendono lunghe le falde dei Tifati sino a toccare la parte occidentale del territorio nolano, si esportano aranci di buona qualità e pochi limoni; albicocche primaticce, ciliegie fresche e secche in grande quantità; mele della varietà annurca e limoncelle in rilevanti partite. Pere non molte.
La varietà di albicocche detta spaccone, che cresce in quel di Maddaloni, matura dopo quelle di Sicilia, e precede le maggiaiuole della provincia di Napoli. Dal territorio di Gaeta e Fondi si esportano limoni ed aranci, melagrane ed altre poche frutta di minore importanza.
Cassino fornisce mele in mediocre quantità e poche pere. Da Gaeta e dai dintorni di Santa Maria Capua Vetere si esportano per consumo interno anche fichi d’india, che vegetano bene sulle balze rocciose di quei territori».
Infine il rapporto si sofferma sulla possibilità o necessità di allargare le produzioni su varietà che ben attecchirebbero nei territori di Terra di Lavoro e che potrebbero costituire grande vantaggio di esportazione: «notiamo qui come si potrebbe coltivare con vantaggio la qualità di ciliegie bianche dette graffioni, che conservate nell’alcool troverebbero uno sbocco molto favorevole sui mercati americani, dove non si accettano per quest’uso le ciliegie rosse di qualunque gradazione. Delle mele la varietà annurca nuvrea va sui mercati germanici e sui francesi.
La varietà di mele appia, zitella, genovese, colonnese, reinette vanno particolarmente in Francia, le agostegne come primizie in tutti gli Stati. La Germania, in alcuni periodi stagionali, importa anche le mele cadute dagli alberi per prepararne il sidro accompagnato dall’acquisto delle mele cotogne.
Le ciliegie fresche si esportano anche in diversi paesi d’Europa, e le secche in America, ma in più in Svizzera ed in Germania.
Delle pere le varietà dette mastantuono, carmosina, spadona, moscatelle, spina, anche se in poca quantità, vanno in Francia, dove pure si esportano le susine Regina e Claudia per farne conserve. Invece la varietà pappagona è abbastanza ricercata in Germania. Le nocciole secche sono ricercate dappertutto. Così come le pesche che andrebbero coltivate di più sia per il mercato nazionale che per l’estero».
Un quadro – quello delineato dal Ministero dell’Agricoltura – che fornisce utili indizi a tutti coloro che vogliono cimentarsi nella produzione intensiva di frutta.
Giuseppe De Monaco coglie al volo l’occasione e si attiva con impegno e determinazione sul nuovo fronte produttivo. Si rivolge, per il supporto tecnico, alla Università agraria di Portici e provvede ad impiantare un frutteto nella sua fattoria primaria di Pignataro Interamna, detta «La Marchesella». In un secondo momento provvede ad estendere gli investimenti nel settore anche alle aziende agricole possedute nel Comune di S. Anastasia, oltre che nei possedimenti del «Vallone» a Pignataro Interamna.
L’iniziativa di De Monaco è significativa anche dal punto di vista storico atteso che, sui terreni posseduti, già in epoca medievale erano stati impiantati – con l’amorevole assistenza dei monaci di Montecassino, vigneti realizzati con una antica coltura magno greca. Parliamo della cosiddetta «vite maritata». Una antica coltura che prevede l’utilizzo di alberi vivi come tutori delle piante di vite. Da qui l’espressione vite maritata che indica il legame tra la pianta lianosa della vite e il tronco legnoso dell’albero a cui la vite è legata.
La produzione di frutta nel territorio di Pignataro Interamna e la straordinaria varietà autoctona così come impiantata dalla famiglia De Monaco, la conosciamo in maniera particolareggiata attraverso una relazione tecnica del 30 settembre 1889 con la quale, dopo aver partecipato ad un concorso nazionale, viene conferito un premio speciale in denaro per il metodo di impianto del frutteto, per la conduzione di esso e per la qualità del prodotto realizzato. Non secondaria l’esperienza dei coloni addetti alla conduzione dei fondi. Tra questi Francesco Tiseo (nella foto con la figlia e le sorelle).
I relatori sono insegnanti e ricercatori della facoltà di agraria della Università Federico II di Napoli, prof. Oreste Bordiga, dott. L. Savastano, prof. L. Russo Capece Galeota.
Descrizione del frutteto del cavaliere De Monaco – condizioni di clima e di suolo
«Il frutteto è impiantato in una valle del territorio di Pignataro Interamna, posta al piede dei monti Cairo e Cassino a breve distanza dai fiumi Rapido e Liri e con una media altitudine in sul mare di 60 a 65 metri.
Il terreno, ivi piuttosto profondo, risulta da un impasto di argilla ocracea e di minuti ciottoli calcarei. Il sottosuolo invece è formato da un tufo di incrostazioni del pari calcaree e di origine alluvionale, di cui è prova l’essere frammisto a sabbia ed argilla.
La configurazione del suolo è pianeggiante, con doppia e lieve inclinazione tanto da est ad ovest, quanto da nord a sud.
Stante la postura di tutta quella valle e la natura del sottosuolo, percorso da vene acquifere tenuissime, il terreno del fondo De Monaco, massime se lavorato a sufficiente profondità, presenta condizioni di freschezza permanente anche nella stagione estiva.
Il clima della contrada non è eccessivamente rigido d’inverno, né troppo caldo d’estate; ed è reso piuttosto umido dalla evaporazione tanto delle acque scorrenti nei fiumi circostanti, quanto da quelle sotterranee».
Condizioni economiche del podere e impianto del frutteto
«Il frutteto trovasi in pianura lungo lo stradone provinciale tra Cassino e Gaeta, e a circa 8 chilometri dalla stazione ferroviaria utile per la commerciabilità del prodotto.
Il tratto piantato a frutteto è interessato da fossati paralleli profondi circa metri 0,60 e larghi altrettanto distanti tra di loro circa 60 metri.
La piantagione è di meli e peschi su filari alla distanza di metri 10 fra di loro e con le due essenze alternate nello stesso filare in modo da avere un melo distante metri 5 dal pesco successivo.
Le piante messe a dimora furono di numero 4.700 pianticelle per una superficie interessata di 20 ettari. Ogni pianta lire 0,65. Lo scavo delle fosse, il letame e varie piccole spese rappresentarono la somma di lire 0,25. In totale dunque lire 0,90 per pianta e 180 lire per ettaro. Considerando anche le spese per i fossi di scolo, la somma complessiva d’impianto arriva a 220 lire per ettaro.
Il fondo – come evidenzia la relazione – già provvisto di caseggiati opportunamente potenziati e restaurati con particolare cura dell’igiene delle abitazioni, venne dotato di ampi locali destinati esclusivamente alla futura conservazione della frutta».
Condizioni speciali del frutteto e sua coltura
«Il frutteto in discorso consta di due essenze: melo e pesco, consociazione molto buona essendo le medesime della seguente natura. Il pesco ha sviluppo precoce, fruttificazione rapida poiché dopo 4 o 5 anni entra in pieno sviluppo, la sua vita media è di circa 15 anni. Il melo invece sviluppo certo, fruttificazione tarda, poiché dopo i quindici anni incomincia ad entrare in quella regolare; ha vita, relativamente al peso, lunga, superando di poco una cinquantina d’anni. Le due essenze perciò si trovano nei seguenti rapporti. Mentre il pesco si sviluppa e fruttifica, il melo si sviluppa solamente: il pesco entra in piena produzione ed il melo continua il suo sviluppo; il pesco va decadendo e finisce ed il melo entra a sua volta in piena produzione.
Le varietà predominanti delle mele sono due. L’una è la mela annurca, denominata anchedeliciosa; è varietà nostrana, di etimologia ignota, di semplice conservazione e perciò di facile commercio, leggermente aromatica e molto accettata sia sui mercati interni che esteri. L’altra è la mela limoncella (o lentigginosa), varietà pregevole come la precedente.
Per le pesche si è preferita la durona/durona gialla, leggermente pizzuta, varietà di facile conservazione, resistente ai viaggi e di buon consumo, tanto sul mercato locale che fuori provincia».
A margine del frutteto, il cav. De Monaco aveva arricchito le produzioni con altre piantagioni di noci oltre a diversi filari di ciliegie ben innestate e ben potate.
La fattoria agricola della «Marchesella» come anche quella del «Vallone», erano dotate di moderni mulini ad acqua costruiti con tecnologia francese.
I mulini ad acqua erano diversi, soprattutto lungo rio Pioppeto che scorreva lungo i terreni del De Monaco. Diversi erano anche i mulini che gli antenati di Giuseppe De Monaco avevano fatto costruire lungo fiumi e torrenti ai piedi di Montecassino4.
Sorprende, con l’occhio della “modernità”, verificare come, appena un secolo fa, erano presenti sul territorio tanta ricca diversità di piante fruttifere, oggi in gran parte scomparse.
Possiamo parlare di frutti antichi quelli che abbiamo incontrato nel frutteto di Giuseppe De Monaco? Probabilmente sì e non solo perché molte di quelle varietà o sono scomparse oppure hanno conosciuto un silenzioso abbandono per l’affermazione della frutticoltura moderna, ovvero di quella cosiddetta industriale.
I frutti antichi sono espressione di un valore che può essere racchiuso in un concetto: biodiversità e agro biodiversità. Agli inizi del secolo scorso questo concetto era norma di vita quotidiana sia per le aziende modello come nel caso De Monaco, sia per il rigoroso rispetto che della natura avevano i contadini singoli (molti dei quali durante il periodo invernale seguivano i corsi appositamente organizzati dalle scuole agrarie). Oggi la catena alimentare tra i produttori e i consumatori è interconnessa attraverso la catena del freddo! Sicuramente utile dal punto di vista industriale ma sicuramente poco credibile dal punto di vista della genuinità!
C’è un altro interrogativo abbastanza sconcertante. Tutto il patrimonio di frutti antichi di cui la vecchia provincia di Terra di Lavoro era ricco, può essere ricostituito?
Domanda difficile. Nel nuovo contesto istituzionale (agricoltura a competenza regionale) e nella situazione di parcellizzazione fondiaria (seguita alla riforma agraria del 1950) non si è né provveduto ad industrializzare l’agricoltura, né a preservarne le specificità.
È questo uno dei grandi problemi rimasti irrisolti fin dagli anni ’70 quando fu avviato il processo di decentramento industriale del paese che portò la Fiat a Cassino.
Fonti:
Ministero dell’Agricoltura Industria e Commercio, Estratto dal bollettino di notizie agrarie, a. XII, Maggio 1890, n. 24;
G. de Angelis Curtis, I luoghi del potere provinciale nell’alta terra di lavoro tra Repubblica napoletana, regime borbonico e Unità d’Italia, in «Studi Cassinati», a. IX, n. 1 gennaio-marzo 2009;
L. Serra, La vendita all’asta dei mulini di Cassino confiscati all’Abbazia di Montecassino, in «Studi Cassinati», a. XII, n. 2 aprile-maggio 2012;
L. Fabiani, La Terra di S. Benedetto, Vol. III, Badia di Montecassino, Anno giubilare 1980.
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