LE “CINQUE GIORNATE” DI PIEDIMONTE SAN GERMANO

«Studi Cassinati», anno 2024, n. 2

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 Costantino Jadecola

Tra le non poche tragedie che mi colpirono allorquando, diversi anni or sono, cominciai ad interessarmi alle vicende belliche del Secondo conflitto mondiale nella regione meridionale del Lazio, un ruolo sicuramente preponderante lo ebbe il bombardamento dell’abbazia di Montecassino e, con esso, i vari episodi annessi e connessi a questo madornale errore tattico e strategico, peraltro non unico, compiuto dagli Alleati.

E fu proprio in questo contesto che feci la conoscenza, una conoscenza che mi colpì, con don Gaetano De Paola ed anche, devo aggiungere, con il maresciallo Antonino Terrizzi, all’epoca comandante della stazione dei carabinieri di Piedimonte. Due nomi che mi rimasero impressi.

Don Gaetano avevo già avuto occasione di incontrarlo nelle vicende di quel tragico Natale del ’43 allorché egli celebrò messa nella chiesa di Santa Maria Assunta per i militari tedeschi.

Ma diverso, e drammatico, fu invece l’incontro successivo perché questo ebbe come elementi preponderanti gli sfollati di Piedimonte da un lato e l’intensa attività aerea svolta su questo spicchio di territorio dalla aviazione alleata.

Era febbraio del ’44. Già il 27 gennaio precedente Piedimonte era stato bersaglio di un bombardamento. A febbraio, però, l’azione si era intensificata al punto che altri bombardamenti se ne registrano il 5, il 7, l’8 e il 9 e forse un altro ancora il 181, presumibilmente nel contesto dell’attività preparatoria e conclusiva di quello, clamoroso, dell’abbazia di Montecassino del 15 febbraio.

Quello dell’8 febbraio probabilmente era stato piuttosto pesante se è vero che il numero delle vittime subisce una notevole impennata. Uno degli aerei, infatti, dopo «qualche giro sulla zona montagnosa, lanciò una bomba su di una casa situata in località ‘Oliveto Peccarrone’ colpendola in pieno.

«La casa, di vecchia costruzione, formata di un semplice pianterreno, era occupata, da qualche giorno, da quattordici persone facenti parte di tre famiglie. Esse si ritenevano di essere sicure dai pericoli dei bombardamenti perché la casa era isolata e perché disponevano di un ricovero che era nelle immediate vicinanze. Lo scoppio fu formidabile e ne risentì la montagna». Tra le vittime, appunto, il maresciallo Terrizzi, la moglie Carmela Le Donne, insegnante, e i due figli, Angelino di 12 anni e Mariuccia di 7, tutti orribilmente massacrati.

«Il povero maresciallo Terrizzi», ricorda Raffaele Nardoianni, una notevole fonte per quegli eventi, «era di S. Pier Niceto (Messina) e comandava la locale stazione dei Carabinieri da cinque anni. Era sfuggito alla cattura dei tedeschi, che lo volevano al loro servizio, e si era dato alla montagna, dove soffrì più degli altri i disagi e la fame»2.

Poi c’è il bombardamento del 18 febbraio, anche questo causa di numerose vittime.

Tra gli altri luoghi, che si ritenevano più appartati e meglio riparati in quei tragici frangenti, c’erano delle grotte, dette Chiarite, o Ciarite, che si aprivano sui primi contrafforti del monte Cairo ed oggi fagocitate da una cava. Qui avevano trovato rifugio molti cittadini di Piedimonte tra cui il parroco di Santa Maria Assunta, don Gaetano De Paola, con i due anziani genitori, due sorelle ed un’altra donna, Cristina Mastrangeli.

Ebbene, tra le vittime di quel bombardamento del 18 febbraio ci fu anche il papà di don Gaetano, che, e fu questa forse la cosa che mi colpì, «ebbe a morire dallo spavento»3, come puntualmente riferisce Nardoianni.

Già! Anche il solo spavento, oltre le bombe, poteva uccidere. E qui lo spavento dovette essere davvero grande visto che si accompagnò alla sorpresa. Direi una miscela micidiale.

La pianura su cui si affaccia il monte Cairo, che va ad infrangersi contro la catena degli Aurunci dopo aver dato spazio, tra dolci colline e piccole valli, al corso del fiume Liri, fu la prima cosa che gli strateghi alleati ritennero degna di attenzione per dare un’idea della guerra alla gente del Lazio meridionale: era il 19 luglio del 1943, quando, a sera inoltrata, i loro bombardieri cominciarono a ridurre in cenere l’aeroporto di Aquino generando comprensibile panico non solo tra la popolazione ad esso più prossima. E da allora fu il principio della fine.

Anche per gli sfollati delle grotte Ciarite. Tempo dopo le bombe di febbraio, il 27 marzo successivo, una pattuglia di soldati tedeschi che passava da quelle parti, sottopone gli sfollati, pena la morte, ad una minuziosa ispezione che viene “fortunatamente” interrotta dall’arrivo di alcuni aerei alleati che hanno tutta l’aria di voler provocare un bombardamento in piena regola. Ma, grazie a Dio, così non è. Per cui, passato lo spavento iniziale, i tedeschi «ritornano alla carica» ed a nulla vale l’intervento di don Gaetano che, anzi, dopo essere stato sbeffeggiato, viene condotto in un non lontano oliveto dove il sacerdote è costretto a caricarsi di un tronco d’albero ed a salire verso la sommità della collina di Sant’Amasio. Ad un certo punto lo fanno fermare e consegnatagli una scure ordinano a don Gaetano di fare a pezzi il tronco. Non si sa come questa storia, che è una delle tante che durante quella guerra fioriscono sulle pendici del monte Cairo, sarebbe potuta finire se un altro provvidenziale stormo di aerei alleati non avesse posto in fuga i soldati e esonerato don Gaetano da quella incombenza.

Nel territorio, intanto, la situazione era quella che era con una linea difensiva di tutto rispetto, la Linea Gustav, per la cui realizzazione i tedeschi non avevano badato a spese fruendo peraltro di manodopera a titolo gratuito utilizzando gli uomini del territorio requisiti attraverso una spietata caccia.

Insomma, non è che ci si stava con le mani in mano: se dal cielo furono ancora i bombardieri alleati, non sempre precisi nel colpire i bersagli prefissati, tanto che proprio qui a Piedimonte non poche furono le vittime causate dal bombardamento dell’aeroporto di Aquino del 19 luglio e dei giorni successivi4, in terra c’erano i tedeschi, più che mai furenti specie dopo l’8 settembre, anche loro a ricordarci che in fondo questa pianura altro non era che un campo di battaglia e che dunque bisognava trarne le necessarie conseguenze.

Gerardo Testa.

Dopo la fugace illusione dell’8 settembre e la conseguente occupazione tedesca, il 15 novembre è un altro giorno di lutto per Piedimonte San Germano: Gerardo Testa, 37 anni, un calzolaio padre di due figli, viene ucciso a Colfelice dove i tedeschi lo hanno portato a lavorare: «fufreddato da una fucilata alle spalle sotto lo specioso motivo di essere stato trovato in possesso di una bandiera alleata (sic!)»5.

Grosso modo la stessa fine che fece sul monte Cairo, in data imprecisata, Salvatore Delicato il quale era andato a reclamare con la moglie presso il comando tedesco installato presso la masseria del prof. Paolo Frezza, il cosiddetto casino Frezza, la restituzione di almeno una delle due vacche sottratte al suocero, Giuseppe Sacco6.

Né può dimenticarsi l’impiccagione di Alfonso Marciano, settant’anni circa, uno di quelli che non si erano allontanati da Piedimonte e che, insieme alla moglie, viveva in una grotta sottostante la propria abitazione dalle parti di colle Sant’Amasio. «Un mattino, mentre era intento a slegare un asino che riteneva suo», fu preso dai tedeschi e portato «in prossimità del comando del viale Umberto I. Dopo una serie di maltrattamenti, venne appeso ad una di quelle piante che erano lungo la rotabile. La povera moglie, dalla casa dirimpetto, impotente e pazza dal dolore, assistette alla orribile scena»7.

Salvatore Delicato.

Il 4 febbraio 1944, a Ruscito, i tedeschi irrompono nel “ricovero” della famiglia di Benedetto Sambucci che si era trasferita in questa zona dall’originaria contrada Strumbolo, ritenendola più sicura. Vanno alla ricerca del giovane Domenico che, a detta di qualcuno, farebbe parte di un gruppo partigiano. La moglie, «alla vista della ciurma armata fino ai denti, si fece coraggiosamente avanti per evitare, ad ogni costo, la cattura del marito. Ogni intervento fu inutile, e fu inutile pure la resistenza del padre, uomo forte e deciso a tutto. Domenico Sambucci fu preso e, a spintoni, venne trascinato fuori del ricovero. Consapevole della sorte orrenda che stava per toccargli, il giovane tentò disperatamente di fuggire, ma venne subito raggiunto da una raffica di mitra»8.

Quindici giorni dopo, il 19 febbraio, un’altra tragedia si abbatte sulla famiglia Sambucci: un fratello di Domenico, il diciannovenne Emidio, viene ucciso da un proiettile di artiglieria.

Le cose peggiorano quando la Linea Gustav entra in piena attività e tra la sua potenza strategica e le non sempre comprensibili iniziative alleate si ha l’opportunità di poter godere di altri mesi di guerra caratterizzati, però, da eventi destinati a passare alla storia come il bombardamento di Montecassino: doveva servire a sbloccare la via per Roma, ma, anche dopo il bombardamento di Cassino del 15 marzo, ciò non accadde.

Domenico Sambucci.

I tedeschi, intanto, prevedendo che una svolta degli eventi prima o poi ci sarebbe stata, mettono a punto un’altra linea difensiva che alcuni chiamarono “sbarramento Senger”, altri Linea Hitler, di cui Piedimonte, per via della sua posizione, costituì di sicuro un baluardo, così come Montecassino, per la cui conquista necessitarono ben cinque giorni e una cruenta battaglia fra polacchi e tedeschi.

 In tal senso vale la pena leggere ciò che scrisse a proposito di questo sviluppo della situazione, per certi versi inatteso, il generale polacco Wladyslaw Anders il quale rende non solo una testimonianza di primo mano ma anche unica e dettagliata di questa fase della guerra essendo stato lui stesso, con i suoi uomini, tra i protagonisti di quell’evento. Scrive: «Il nemico aveva convertito quel borgo in una fortezza. Più in alto ancora egli teneva Pizzo Corno e Monte Cairo, erti e difficili da raggiungere, fortificati e difesi dal 4° Battaglione d’Alta Montagna. Al fine di assistere il XIII Corpo britannico nella sua operazione nella Valle del Liri, il LI Corpo polacco iniziò un attacco su quella parte delle posizioni nemiche. Le perdite ed il logoramento della battaglia di Montecassino resero l’impresa assai difficile, perché tutti i reparti del Corpo avevanogià partecipato ai combattimenti. Fu necessario, perciò, provvedere ad un loro riordinamento, scegliendo quelli meno provati.

«Il compito assegnato al gruppo era: ‘Catturare Piedimonte e proteggere il fianco destro del XIII Corpo d’Armata, Villa Santa Lucia-Piedimonte.

«Durante i cinque giorni dal 20al 25 maggio detto gruppo fece quattro attacchi consecutivi contro Piedimonte, nei quali emerse l’azione temeraria dei carri armati, pieni d’iniziativa. In un terreno pressoché inadatto all’impiego di carri armati, i reparti anzidetti diedero prova di grande risolutezza e stabilirono un ‘record’, riuscendo a penetrare nel borgo lungo ertissime e sinuose strade sulle pendici di quel colle. I Tedeschi furono colti completamente di sorpresa. La mancanza di fanterie sufficienti – perché i battaglioni, logorati, avevano soltanto il ventotto per cento dei loro effettivi di guerra ed erano esausti dalla battaglia di Montecassino – non permise loro di completare la conquista del paese e raggiungere i colli vicini. Nel frattempo il nemico riuscì a far avanzare i suoi rinforzi e la battaglia si prolungò per alcuni giorni prima che Piedimonte fosse definitivamente conquistata il 25 maggio 1944.Il continuo ed irruento combattere ed i nostri ripetuti attacchi, non meno dell’intenso fuoco d’artiglieria, avevano completamente immobilizzato le forze nemiche, che difendevano la posizione chiave di Piedimonte ed avevano loro impedito di occuparsi della strada n. 6 (Casilina) e della valle del Liri. Conseguentemente il XIII Corpo poté progredire nella vallata senza alcuna opposizione dalla parte di Piedimonte e questo fu il nostro scopo principale, dal punto di vista operativo complessivo dell’VIII Armata. Finalmente la conquista di Piedimonte schiudeva per sempre la strada n. 6, come una delle vie di comunicazione principali. Fu la fine dei combattimenti del LI Corpo polacco per Montecassino e Piedimonte. Il 29maggio i nostri reparti cominciarono a lasciare il campo di battaglia, inzuppato di sangue»9.

L’antica statua di Santa Maria Assunta tra le macerie.

Da quando era cominciata, a luglio dell’anno prima, e fino a quando da Polleca, sui monti di Esperia, e zone circostanti non si levarono al cielo grida di disperazione e di dolore delle vittime delle truppe di colore aggregate ai francesi, erano passati almeno dieci mesi, oltre 300 giorni, quasi la metà dell’intera “campagna d’Italia”.

Con un particolare non di secondaria importanza: tutto ciò che qui e tutto intorno accadde tra luglio del ’43 e gennaio del ’44 è stato un tempo di guerra non legittimato dalla cronaca e dalla storia. Eppure, in quella seconda metà del ’43 di cose ne accaddero.

Ma la Storia li ignora, come se si fosse trattato solo di un diversivo alla monotona ritualità quotidiana, ovvero di uno stato di disagio patito dalla nostra gente evidentemente poco influente dal punto di vista storico. Diciamo pure la guerra dissolta. Dopo la quale, quella più o meno nota, ma tale soprattutto per lo scempio di Montecassino, di cui Piedimonte fu quasi una copia, anche se qui l’agonia fu lunga e lenta, c’è stata una terza fase: quella, per intenderci, che iniziò ai principi del mese di giugno del ’44 quando, sebbene le armi ormai tacessero, tuttavia colpivano ancora – e lo avrebbero fatto ancora per lungo tempo – uccidendo o mutilando i corpi di chi aveva la sfortuna di imbattersi nei cosiddetti residuati bellici. Lo chiamarono dopoguerra. Ma in realtà fu un’altra guerra. Con scenari da brivido. E il guaio è che anche noi, appena dopo, anche noi ce ne siamo dimenticati.

Piedimonte San Germano alla fine delle ostilità.

1 Combat chronology of the US Army Air Forces dal sito internet www.usaaf.net.

2 R. Nardoianni, Piedimonte San Germano nella voragine di Cassino, Tipografia Carlo Malatesta, Cassino, 1974II, pp. 46-47.

3 Ivi, p. 47.

4 Ivi, p. 16. Riferisce che «scene di terrore si ebbero specialmente nella campagna [di Piedimonte] che era divenuta un vero inferno, avvolta tutta di nerissimo fumo e di polvere puzzolente. Oltre ai gravi danni cagionati alle case ed al raccolto, il secondo bombardamento (quello del 23 luglio, nda) uccise i seguenti nostri compaesani: Carcione Maria Carolina, Vittigli Orazio, Capraio Francescantonio, Cuciniello Teresina, Giorgio Luisa, Giorgio Camilla. Alcuni rimasero feriti».

5 Ivi, p. 41.

6 Ivi, pp. 40-41.

7 Ivi, p. 41.

8 Ivi, p. 42.

9 W. Anders, Un’armata in esilio, Cappelli editore, Bologna 1950, pp. 228-230.

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