«Studi Cassinati», anno 2024, n. 3
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di
Gaetano de Angelis-Curtis
Dal matrimonio tra Giacinto Felice Visocchi1, «patriota e letterato» nonché industriale di Atina, con Luisa Martini2, celebrato il 22 febbraio 1843, nacquero sei figli di cui cinque femmine e un maschio, Fortunato.
Quattro delle cinque femmine ebbero vita breve, se non brevissima. Lucia (1843-1867) dopo aver sposato Pietrangelo Vecchiarelli, morì ventitreenne; così Laura (1845-1873) andata in sposa a Pietro Assinni, che si spense non ancor trentenne; Maria Rosalba (1848) scomparve appena nata e l’ultima, Beatrice (1852-1856) visse solo quattro anni.
Rachele nata nel 1847, invece, ebbe vita tormentata (affetta da «demenza paranoide») tanto da essere ricoverata prima in una casa di cura al Gianicolo a Roma e, dal 2 agosto 1920, a Viterbo. In quella struttura, come si evince da una lettera del 28 giugno 1927 scritta dal fratello Fortunato al cugino Giuseppe, trovava «qualche conforto col pianoforte». A causa del suo stato di salute psichica era il fratello Fortunato che si era occupato, fin dall’inizio e in via bonaria, della gestione economica del suo patrimonio. Poi sul finire dell’Ottocento, quando l’asse ereditario della famiglia Visocchi non era stato ancora suddiviso, i fratelli del defunto Giacinto, e cioè Pasquale, Alfonso e Francescantonio, si rivolsero al Tribunale di Cassino per chiedere l’interdizione di Rachele. L’organo giudiziario stabilì la costituzione di un «Consiglio di famiglia» deputato alla gestione delle quote dei beni di cui Rachele risultava proprietaria. Quindi Pasquale, Alfonso e Francescantonio riuscirono a ottenere dal pretore di Atina l’esclusione di Fortunato dagli «ufficii tutelari» e così nella composizione del «Consiglio di famiglia» furono nominati come consulenti Paolo Emilio Mancini, «lontanissimo parente» che «da oltre venti anni [era] in rapporti ostili con la famiglia di costei», e poi Silvio Palombo e Luigi Palombo. Allora il 31 ottobre 1896 Fortunato, tramite l’avv. Loreto Di Fazio, citò in giudizio i consulenti al fine di giungere alla costituzione di un nuovo «Consiglio di famiglia» che prevedesse la sua inclusione e il Tribunale di Cassino gli dette ragione. La prima riunione del nuovo «Consiglio di famiglia» si tenne il 20 giugno 1897 nel corso della quale a Fortunato fu affidata la tutela dei beni della sorella non potendola assumere la madre Luisa Martini «sia per tarda età sia per grave e permanente infermità». A quest’ultima, tuttavia, fu assegnata la funzione di consulente assieme a Luigi Palombo, Pietro Arcari e Pietrangelo Vecchiarelli (vedovo di Lucia Visocchi), mentre Silvio Palombo fu designato protutore3. Poi Rachele si spense il 27 febbraio 1929 nel capoluogo della Tuscia per «setticemia influenzale»4.
FORTUNATO E I SUOI TORMENTATI RAPPORTI FAMILIARI
L’unico figlio maschio, Fortunato, era nato ad Atina il 19 settembre 1849 per poi morire quasi ottantatreenne a Firenze il 17 febbraio 1932. Nella richiesta di «permesso di porto d’armi e di caccia» che trentunenne egli indirizzò il 5 maggio 1881 al sotto prefetto di Sora, e che riporta il nulla osta del Comune di Atina «anche in rapporto alla legge sulla istruzione obbligatoria», risultano i seguenti connotati fisici: statura alta – fronte alta – capelli neri – occhi neri – naso aquilino.
Tuttavia anche Fortunato ebbe una vita difficile a cominciare da un matrimonio naufragato nell’arco di pochi mesi, coronato dalla nascita di un figlio che però scomparve appena ventenne, e poi dai rapporti deterioratisi con l’ex moglie e con quasi tutti i componenti della famiglia paterna. Ambedue le situazioni determinarono l’instaurarsi di contenziosi giudiziari proseguiti anche dopo la sua morte.
IL MATRIMONIO
Le prime questioni conflittuali si aprirono immediatamente dopo il matrimonio che il 22 ottobre 1893 Fortunato aveva contratto con la ventenne Teresa Panfilia Visocchi5 in quanto il «matrimonio non fu felice tanto che dopo soli otto mesi» i due si separarono6. Infatti il 22 luglio 1894 Teresa Panfilia abbandonò il domicilio coniugale per tornare dai genitori. Secondo Fortunato, la moglie, dopo aver lasciato il tetto coniugale, si era rifiutata «di prestar parizione ai richiami e alle diffide fattele» dal marito «per indurla a ripristinare secolui la convivenza coniugale». Infatti nel tentativo di ricomporre il dissidio Fortunato aveva inviato a casa dei suoceri un amico comune, Silvio Palombo, ma né «avvertimenti amorevoli» e né «consigli, esortazioni» erano riusciti a convincere la donna.
Pochi giorni dopo, il 31 luglio, lo stesso Silvio Palombo scriveva a Fortunato (chiamandolo con il nome familiare di «Fortunatuccio») per confidargli di essere convinto che i suoceri «esercita[ssero]» uno «spionaggio poliziesco» essendo riusciti ad avere dal personale di servizio informazioni confidenziali7 nonché per informarlo di aver saputo che la famiglia della moglie aveva abbandonato il proposito di sporgere «querela per diffamazione» ma che comunque intendeva avviare la causa di separazione presso il Tribunale di Cassino.
Quindi il 22 agosto 1894 nacque il figlio della coppia cui fu dato il nome di Giulio8, morto poi appena ventenne a Napoli nel Collegio della Nunziatella ilprimo febbraio 1914.
Nel frattempo presso il Tribunale di Cassino era stata instaurata la causa di separazione. Il 25 febbraio 1895 l’organo giudiziario riconobbe a Teresa Panfilia una «pensione» o «prestazione alimentare» provvisoria di L. 300 mensili nonché affidò il figlioletto Giulio alle cure materne. Quindi il 25 marzo successivo si tenne un infruttuoso tentativo di conciliazione e il 27 novembre il Tribunale emise sentenza di separazione personale consensuale.
Fortunato decise di lasciare Atina a causa delle «denunzie, seccature e vessazioni» dovute a Teresa Panfilia, che avevano finito per provocare «pubblico scandalo» tra i suoi concittadini. Dal primo ottobre 1894 si trasferì a Roma dove si fece costruire un villino in Via Tevere n. 9 e lì risiedé fino alla fine del 1899. Quindi si stabilì per due anni a Parigi per poi far ritorno a Roma, dimorando sempre nello stabile di Via Tevere.
Poi decise di tagliare anche gli ultimi legami con Atina. Infatti il 23 ottobre 1913 alienò la sua «casa palazziata» (composta da tre piani fra terranei, solai e soprasolai) ubicata in piazza Garibaldi, vendendola al notaio Vincenzo Tutinelli per il prezzo di L. 40.000. Tuttavia, allo scopo di evitare un «possibile giudizio di lesione», a distanza di un mese, il 27 novembre 1913, fu stipulato un altro atto di vendita. Il prezzo della compravendita fu elevato a L. 60.000, somma che il notaio Tutinelli si obbligava a pagare successivamente al «giudizio di purga», cioè dopo la cancellazione delle ipoteche iscritte sullo stabile acquistato. Infatti bisognava garantire il vincolo dotale emergente dall’atto nuziale a favore di Teresa Panfilia, benché legalmente separata da Fortunato, stipulato dal notar Matronola il 24 settembre 1893. Così, in seguito a varie sentenze giudiziarie, la «pensione alimentare» corrisposta da Fortunato a Teresa Panfilia si andò arricchendo degli interessi maturati dalla vendita dell’immobile di Atina9.
Poi nel 1921 Fortunato trasferì la sua residenza a Fiume (allora Stato libero sorto il 30 dicembre 1920 dopo il Trattato di Rapallo), dove comprò un appartamento e acquisì la cittadinanza istriana. Il primo novembre 1921, difeso dall’avv. Salvatore Bellasich, presentò al Tribunale civile e penale di Fiume una «procedura di divorzio». L’istanza di scioglimento di matrimonio era motivata dal fatto che, dopo otto mesi di matrimonio, era stato «abbandonato infedelmente e senza giustificato motivo» dalla moglie. Il Tribunale di Fiume trattò la causa in assenza di Teresa Panfilia, benché «regolarmente citata» in giudizio ma mai comparsa, e l’11 maggio 1922 emise la sentenza con cui dichiarava sciolto il matrimonio. Quando poi si giunse all’annessione di Fiume all’Italia (ufficialmente sancita con il Trattato di Roma del 27 gennaio 1924) tutti i cittadini fiumani assunsero la cittadinanza italiana. Quindi con R.D. 20 marzo 1924 n. 352 furono dichiarate esecutive nel Regno d’Italia le sentenze di divorzio conseguite a Fiume. In sostanza Fortunato tornò a essere un cittadino italiano con una sentenza di divorzio riconosciuta dal Regno d’Italia. Nel frattempo aveva lasciato Fiume per trasferirsi a Firenze e nel maggio 1925 risultava abitare al pian terreno di uno stabile in Via della Scala n. 48. Quindi il 28 novembre 1925 acquistò per L. 50.000, sempre nel capoluogo toscano, un «quartiere» posto al primo piano di un immobile ubicato in piazza Oberdan n. 13 dove fissò il suo domicilio.
LA SEPOLTURA DEL PADRE GIACINTO
Tracce dei conflittuali rapporti insorti tra Fortunato e la famiglia paterna si trovano anche in brevi ma significativi passi inseriti dallo stesso Fortunato nella prefazione intitolata Cenni sulla vita di Giacinto Visocchi che egli pose in apertura del volume Dell’arte e dello scrivere dell’estetica in cui aveva raccolto, «in omaggio alla memoria del padre», le Lezioni dettate da Giacinto Visocchi in Napoli nell’anno 1844. In poche, concise ma significative frasi, stigmatizzò la condotta tenuta dagli zii relativamente a due questioni e cioè quella della sepoltura del padre e, in modo particolare, quella sulla gestione dell’asse ereditario.
Scriveva Fortunato in chiusura di quella prefazione che dopo la morte del padre Giacinto, gli zii non avevano provveduto nemmeno a dargli una degna sepoltura, lamentando che non gli fu nemmeno possibile «recare un fiore» sulla tomba del padre «che, ignota, oscura, non fu serbata al pianto dell’anima» sua, della madre Luisa e delle sorelle10.
Anche nel carteggio intercorso tra Fortunato e l’unico familiare con cui era rimasto in rapporto, il cugino Giuseppe11, sono presenti taluni aspetti relativi alla questione della sepoltura di Giacinto. Il 17 gennaio 1914, quando già Fortunato viveva a Firenze, Giuseppe lo informava per lettera che stava ultimando la costruzione, a sue spese, andate anche al di là di quanto preventivato, di una cappella gentilizia nel Cimitero comunale. La sua intenzione non era solo quella di «riporre degnamente le ceneri» dei suoi genitori nella cappella, «molto ampia» e «ben riuscita», ma di collocarvi anche i resti degli altri congiunti dalla famiglia. Per tale motivo aveva fatto eseguire «ricerche ed investigazionî» sui «parenti defunti da tempo remoto» e così aveva potuto «sapere da G. Domenico Elia, con abbastanza certezza, il luogo dove era stato seppellito Zio Giacinto». Aveva pertanto fatto scavare, presenziando all’operazione, nel luogo indicatogli. Lì furono rinvenute «ben piccole quantità di ossa col relativo teschio» che, «con abbastanza certezza», apparivano come i resti di Giacinto. Così Giuseppe chiedeva al cugino se non gli dispiacesse che, al fine di riunire «degnamente» i quattro fratelli della famiglia Visocchi cui anche loro appartenevano, quelle spoglie potessero essere conservate nella cappella in costruzione ponendole in una delle «nicchie in marmo speciale» chiusa da una lastra sulla quale riportare una «semplice epigrafe» assieme alle date di nascita e di morte. Poiché i lavori della cappella erano in avanzata fase di ultimazione, Giuseppe prevedeva di effettuare il «trapasso di tutti i defunti» nel febbraio o marzo successivi12.
Quasi quindici anni dopo, il 14 novembre 1927, Giuseppe tornò sulla questione della costruzione della cappella, un’opera che aveva finito per dargli «grande conforto» perché sarebbe rimasta «eternamente a testimoniare il bene che hanno fatto i nostri Maggiori». Confermò che, «con l’aiuto di Giandonnino Elia», aveva provveduto a far traslare le spoglie di Giacinto nella cappella di famiglia, riposte in una nicchia di marmo.
Invece per la sepoltura di Luisa Martini, moglie di Giacinto, nel 1900, l’anno successivo alla sua morte, Fortunato fece realizzare una tomba monumentale opera di M. Tripisciano di Roma, formata da una statua alata in metallo poggiata su un sarcofago in marmo avvolto in parte da un drappo, sempre in marmo. Qualche decennio più tardi, il 7 gennaio 1932, a Fortunato giunse una lettera con cui lo si avvertiva che la tomba della madre aveva bisogno di riparazioni «necessarissime» ammontanti a L. 1.270.
Anche per Giulio, lo sfortunato figlio di Fortunato morto nel 1914, fu realizzata una tomba monumentale costituita da una statua di figura femminile in metallo che, con un mazzo di fiori nella mano sinistra, poggia teneramente su un sarcofago in marmo il quale, rialzato su due gradini, riporta al suo centro un medaglione raffigurante una figura giovanile. Lungo il primo gradino sono disposte le lettere in metallo che compongono nome, cognome e date di nascita e morte, nel secondo gradino la scritta «Giovane colui che al cielo è caro».
LA GESTIONE DELL’ASSE EREDITARIO DELLA FAMIGLIA VISOCCHI
Sempre riassumendo alcune vicende del padre, nella prefazione Cenni sulla vita di Giacinto Visocchi Fortunato espresse brevemente altri malumori di natura economica.
Innanzi tutto fa risalire all’ostilità del nonno Giuseppe13 nei confronti del ‘fidanzamento’ dei suoi genitori, se la maggior parte del patrimonio di famiglia si concentrò nelle mani del primo figlio maschio Pasquale, individuato nel testamento come erede dell’intera quota «disponibile» e di quota parte della «legittima» dell’asse ereditario. Scriveva infatti Fortunato che l’unione del padre Giacinto con Luisa «non era andat[a] a sangue» al capofamiglia Giuseppe poiché le famiglie dei due giovani sposi erano imparentate fra loro. Proprio il tentativo di contrastare il «maritaggio», la cui celebrazione Fortunato colloca nel 1841 ma avvenuto in realtà due anni più tardi quando Giuseppe era già morto, indusse il capofamiglia, seguendo pure il «costume ancor non spento de’ tempi medioevali», a concentrare la maggior parte del patrimonio familiare nelle mani di Pasquale14. Infatti alla scomparsa di Giuseppe Visocchi, che aveva avuto tredici figli di cui cinque premorti15, l’eredità fu ripartita tra otto eredi (Pasquale, Giacinto, Filippo, Fortunato seniore, Alfonso, Francescantonio, Lucia e Rosalba), ma in quote diverse. Infatti con testamento del 9 aprile 1841, Giuseppe aveva lasciato la «disponibile al figliolo Pasquale», all’altro figlio Fortunato seniore aveva assegnato il «podere Casino con i due poderi annessi delle Forme e Donna Petronilla», mentre a ognuno degli altri eredi andò una quota della legittima. In sostanza a Pasquale, primo figlio maschio, erano andati nove sedicesimi dell’eredità, mentre a ognuno degli altri eredi un sedicesimo e a Fortunato seniore il podere denominato Casino. Poiché all’epoca della morte di Giuseppe alcuni figli erano ancora minori, la divisione dell’asse ereditario non era stata resa legale se non per una delle figlie, Rosalba, che era già sposata con Teodoro Mancini. Poi nel 1842 quando a breve distanza l’uno dall’altra morirono Filippoe Lucia, due figli di Giuseppe, i loro beni furono assegnati indivisi agli altri eredi16. In sostanza dal momento della scomparsa del capostipite Giuseppe, i beni pervenuti agli eredi erano stati «amministrati in ogni cura a vantaggio comune», cioè senza divisione, e «non dissimile amministrazione fu fatta anche per molti anni dell’eredità» che era pervenuta da Gabriele Visocchi, fratello di Giuseppe, morto il 13 giugno 1864. Di conseguenza, poiché la «meschinissima legittima lasciatagli dal padre non poteva bastare», Giacinto per poter badare a se stesso e alla sua «nascente famigliola», fu costretto, fin da giovanissimo, ad attendere al lavoro svolgendo inizialmente quello di insegnante a Napoli. Tuttavia qualche anno più tardi dovette intervenire in aiuto e soccorso proprio di Pasquale a causa di difficoltà economiche che lo affliggevano e fattesi molto «gravi, tanto da minacciare imminente rovina». Infatti Pasquale aveva «animosamente fondata un’industria da far carta» ad Atina ma «si dibatteva in difficilissime vicende, che non bastava da solo a vincere». Giacinto, quindi, corse «in aiuto del fratello» tornando ad Atina per coadiuvarlo nella conduzione della fabbrica ma fu costretto a chiudere «quello che aveva così bene incominciato», cioè la promettente scuola a Napoli. Secondo Fortunato fu proprio grazie all’«attività incessante» profusa da Giacinto in fabbrica se la «prosperità della famiglia, fu salva». Tuttavia il soccorso prestato da Giacinto si risolse «a spese della sanità sua» poiché proprio il lavoro svolto per salvaguardare la cartiera, assieme alla «persecuzione» patita dalle autorità borboniche, portarono Giacinto a rendere «l’anima a Dio, in età di soli trentacinque anni». Fortunato rimproverò pure il disinteresse e il mancato aiuto degli zii alla vedova e ai piccoli orfani nonostante Giacinto, «a chi osava osservargli che egli, con soverchio affaticarsi minava la sua esistenza e lo ammoniva di conservarsi a’ suoi figli, rispondeva che, quando ei morisse, lasciava i suoi ai fratelli che avrebbero fatto le sue veci». Tuttavia, concludeva Fortunato in modo lapidario, «così non fu»17.
Intanto con i «frutti della proprietà proporzionalmente ai diritti di ognuno», così come «dalla esazione dei crediti rispettivi, dalla vendita di altri fondi, e dall’opera solerte degli amministratori», cui cooperò «validissimamente», finché visse, Giacinto, nonché «singolarmente» Pasquale, fu possibile edificare e impiantare lo «stabilimento e la industria della Cartiera sito in Atina alla contrada detta Pontenuovo», acquistare nel 1849 un «fondo denominato Pontenuovo in servizio principalmente dei Canali della Cartiera» e la «succursale di essa accanto al mulino Pontenuovo». Quindi nel 1872 fu acquisita la metà della Cartiera di Picinisco e fondo annesso18, mentre nel corso del 1880 e 1881 furono rilevati tredici ventiquattresimi del Mulino detto di Gallinaro in tenimento di Atina contrada Rosanisco e nel 1887 fu acquistato un fabbricato «addetto a uso di stabilimento tipografico» ubicato nel quartiere degli Spagnoli a Napoli.
In sostanza non avendo provveduto alla suddivisione dell’asse ereditario, anche la quota indivisa dei beni lasciati in eredità da Giacinto ai suoi discendenti venivano amministrati dai fratelli Alfonso, Pasquale e Francescantonio in modo comune, «in una contabilità di famiglia». I bilanci redatti dagli amministratori tenevano conto correttamente delle rendite e delle spese complessive ma, lamentava Fortunato, nella gestione i fratelli Visocchi «prelevavano quello che loro occorreva senza distinguere la parte» che ricadeva su ciascuno degli eredi «in rispondenza delle rispettive loro quote» e «simil cosa» era fatta anche per gli utili. In sostanza le spese della cartiera e quelle di miglioria dei fondi rustici nonché le «rendite» venivano suddivise in parti uguali tra gli eredi di Giacinto che però non detenevano le stesse quote di eredità in quanto con testamento del 19 settembre 1854, registrato il 9 novembre successivo, Giacinto aveva lasciato la disponibile e la legittima a Fortunato mentre alle quattro figlie in vita (Lucia, Laura, Rachele e Beatrice) era spettata la sola legittima e ciò significava che Fortunato aveva ereditato i sei decimi dell’intero asse mentre a ciascuna delle sorelle era andato un decimo19. Dunque il modo di amministrare i beni comuni aveva finito per penalizzare Fortunato che si sentiva danneggiato economicamente dalla gestione comune dei beni di famiglia. Chiese dunque che si giungesse alla divisione dell’asse ereditario.
Tra zii e nipote si giunse a un primo accordo. Così, con atto notaio Errico Pagliari, rogato il 30 giugno 1890 nell’abitazione atinate di Fortunato, in Piazza Garibaldi, alla sua presenza, quella della madre Luisa Martini, intervenuta in qualità di vedova e in rappresentanza della figlia Rachele, e dei fratelli Pasquale, Alfonso e Francescantonio,si pervenne alla divisione convenzionale dei beni del capofamiglia Giuseppe Visocchi assieme alla divisione delle proprietà dell’eredità di Gaetana Fasoli, vedova di Giuseppe, dell’eredità di Rachele Fasoli vedova di Gabriele Visocchi (1790-1864) e dell’eredità di Fortunato seniore (1823-1845).
In quella divisione convenzionale gli eredi ritennero di dover giungere alla ripartizione, secondo le rispettive quote, dei soli beni pervenuti loro tramite i lasciti testamentari e che risultò pari a 2709/10000 per Pasquale, 2708/10000 per Alfonso, 2708/10000 per Francescantonio. Le quote relative all’asse ereditario di Giacinto (dopo la morte di due figlie e movimenti di acquisizione da parte di alcuni eredi delle loro quote nonché quella di spettanza di Luisa Martini) furono pari a 1575/10000 per Fortunato e 300/10000 per Rachele. Invece per espressa volontà di tutti gli eredi rimasero indivise le proprietà acquisite successivamente al 1841 e cioè i due stabilimenti industriali (la cartiera di Atina e quella di Picinisco), il mulino di Gallinaro, l’immobile in Napoli e il terreno Pontenuovo, beni che erano posseduti pariteticamente per un quarto ciascuno dai quattro fratelli Visocchi (Giacinto, Pasquale, Alfonso e Francescantonio).
A distanza di qualche tempo dalla divisione convenzionale del 30 giugno 1890 Fortunato, però, dovette maturare l’idea di voler giungere alla completa separazione delle proprietà e chiese dunque agli zii di rilevare la sua quota e quella di Rachele, dietro pagamento di L. 193.500 per lui e L. 36.857 per la sorella, su un capitale netto dei beni che ammontava complessivamente a L. 1.221.567. Forse non avendo ricevuto dagli zii disponibilità alla ripartizione richiesta, il 13 agosto 1897 Fortunato si rivolse al Tribunale di Cassino avviando un giudizio di liquidazione. Poiché anche la sorella Rachele vantava una quota di proprietà, «fu costretto a chiamare in giudizio pure costei» che venne rappresentata, nelle prime fasi dibattimentali, dall’avv. Filippo Cinquanta. Tuttavia la lite giudiziaria fu sospesa quasi subito in quanto i fratelli Alfonso, Pasquale e Francescantonio si resero disponibili a liquidare la quota richiesta da Fortunato, nonché a saldare anche la parte di spettanza di Rachele. Con successivi atti notarili del 1897 e del 1899, Fortunato rilevò da Rachele le quote di proprietà sui beni immobili di quest’ultima attribuendole il denaro contante ricavato dalla liquidazione della Cartiera e di altri possedimenti.
In definitiva proprio la gestione comune dei beni provenienti dall’asse ereditario e di quelli acquisiti dopo il 1841 nonché le azioni intraprese da Pasquale, Alfonso e Francescantonio, come l’atto con cui avevano provveduto a rilevare parte delle quote delle due sorelle decedute e della madre e che Fortunato potrebbe aver considerato, assieme ad altre vicende lesivo dei suoi interessi, nonché l’ingerenza nella composizione del «Consiglio di famiglia» con il tentativo di escluderlo dalla carica di tutore,avrebbero potuto ingenerargli quei sentimenti di avversione nei confronti degli zii e di alcuni cugini, andati aumentando nel corso degli anni.
I RAPPORTI CON FRANCESCANTONIO E ACHILLE VISOCCHI E LE «IDEE DI PERSECUZIONE»
In sostanza i rapporti tra Fortunato e i componenti della famiglia del padre si vennero a guastare per motivi economici, ma in particolare si deteriorarono con lo zio Francescantonio e i suoi figli e fra essi, soprattutto, con Achille20. Allo zio attribuì gli ostacoli frapposti ai suoi tentativi di matrimonio quando era giovane, invece incolpava il cugino del fallimento del suo matrimonio con Teresa Panfilia. Così nel corso degli anni «concepì verso di lui una notevole avversione» finché il 3 maggio 1925 Fortunato sporse denuncia nei confronti di Achille, presentandola alla procura del re di Firenze. Scriveva che egli era stato «sempre vittima dell’odio dei suoi cugini carnali, e specialmente del Sig. Achille Visocchi, Deputato, tanto che per cagion sua dovette divorziare». Essendo Achille persona ricchissima, «con mezzi di cui tacere è bello», e, soprattutto, potente e influente, aveva facile gioco nell’utilizzare agenti della questura in borghese che corrompevano il personale di ristoranti e pensioni ed esercenti venditori di generi alimentari che finivano per somministrargli delle pietanze nelle quali erano state aggiunte delle sostanze nocive. Pure i farmacisti venivano obbligati «ad alterare le medicine» che egli utilizzava per neutralizzare quei veleni somministratigli. Per Fortunato inizialmente gli alimenti avvelenati contenevano «iodo» e quando li ingeriva gli cagionavano, come successo per ben tre volte, la bronchite. Poi si passò alla somministrazione del «sublimato corrosivo ed acido ossalico» quindi dell’«acido prussico» contro il quale non esistevano controveleni. Fortunato chiedeva che venisse ascoltato come testimone il dott. Enrico Periti, medico chirurgo presso l’ospedale Santa Maria Nuova dove era stato ricoverato a causa dei veleni. Convocato, questi dichiarò che circa tre mesi prima Fortunato era andato a casa sua portando in mano una tavoletta di cioccolata, acquistata poco prima, chiedendogli di farla analizzare per verificare se contenesse delle sostanze venefiche perché dopo averne mangiato un pezzettino aveva accusato dei malori. Fortunato gli raccontò, infatti, che «da oltre 30 anni esiste[va] una organizzazione» che intendeva ucciderlo. Di fronte a tali dichiarazioni non ebbe dubbi nel ritenere di trovarsi di fronte a un «paranoico affetto da delirio di persecuzione». Lo sottopose a visita medica generale dalla quale risultò che era «malato di cuore in uno stadio piuttosto avanzato» e che quei disturbi che egli attribuiva all’avvelenamento derivavano invece dalla miocardite, di cui soffriva. Qualche giorno dopo Fortunato fu visitato dal dott. Valentino Vanni, medico fiscale, il quale certificò «di averlo trovato affetto da arteriosclerosi con idee di persecuzione» e «incipiente demenza senile». Tuttavia attestò che Fortunato appariva «tranquillo, orientato» né mai aveva «manifestato propositi di suicidio o di minaccie». In definitiva non riteneva che fosse il «caso di ricoverarlo d’urgenza al Manicomio» di S. Salvi, se non dietro specifico ordine delle autorità giudiziarie. Anche il pretore fu dell’avviso di non restringere Fortunato in una struttura psichiatrica ma che invece fosse «convenientemente sorvegliato». Sulla base di tali atti il procuratore del re di Firenze dichiarò «non doversi promuovere azione penale».
Fortunato presentò un ulteriore esposto alla Procura di Firenze il 29 ottobre 1929. Lamentava che da anni era «spiato e insidiato nella vita da agenti i quali corrompevano gli esercenti e le sue donne a mezzo servizio, facendogli somministrare sostanze nocive». In più lamentava che da qualche tempo si verificava, con la connivenza del portiere del suo stabile e del pizzicagnolo attiguo, una «diuturna violazione del suo domicilio con chiavi false». Negli ultimi giorni, a suo giudizio, era avvenuto un cambio di strategia poiché gli «agenti rimasero nell’ombra» e fecero la loro comparsa i «preti». Egli stesso aveva potuto vedere un prete con una borsa marrone posta sotto le ascelle il quale, accompagnato da un meccanico che aveva appena falsificato la chiave del suo appartamento, era salito sul tram per spiarlo. Pure la sua cameriera aveva tentato di avvelenarlo. Assunta in servizio il 23 settembre precedente, aveva fra i suoi compiti quello di provvedere a somministrargli una «certa dose di cicuta». Tuttavia utilizzando degli stratagemmi cominciò a fargli ingerire delle dosi leggere di acido prussico tanto che 2-3 volte fu in pericolo di vita per asfissia e conseguentemente fu costretto a licenziarla. Quindi il 28 ottobre si era recato alla pensione Savonarola, dove era già stato altre volte, per mangiare perché lì gli «avventori ritiravano da sé gli alimenti dai piatti che giravano nelle tavole». Purtroppo aveva constatato, «con sorpresa», che tale «bel sistema» era stato «abolito». Aveva finito per mangiare ugualmente ma riteneva di aver ingerito alimenti avvelenati in quanto risentiva dei «fenomeni dell’acido prussico». Precisava di essersi dunque deciso a rivolgersi al procuratore in modo che, se fosse morto, il magistrato conoscesse la causa del decesso. Il procuratore trasmise l’esposto al commissario competente il quale convocò e ascoltò Fortunato che, però, non riuscì a portare elementi concreti a carico delle persone di cui sospettava. Il funzionario di P.S. confermava il giudizio espresso con rapporto n. 6022 del 27 settembre dell’anno precedente quando aveva prospettato l’«opportunità del ricovero in una casa di salute». Quindi il 10 novembre il procuratore del re di Firenze, dichiarò, come nella precedente occasione, «non doversi promuovere azione penale».
[Fine prima parte]
* L’articolo si configura come prosecuzione della ricerca confluita nel volume di G. de Angelis-Curtis, Giacinto Visocchi e aspetti di vita politica ad Atina tra il 1848 e il 1860, Arbor Sapientiae Editore, Roma 2018, presentato dalle prof.sse Silvana Casmirri e Giuliana Visocchi il 7 luglio 2018 ad Atina presso il «Palazzo del Senatore». Colgo l’occasione per ringraziare vivamente per la cortese messa a disposizione di preziosi materiali d’archivio gli avv. Daniele Bartolomucci e Giacomo Tutinelli, in particolare quest’ultimo, attento, scrupoloso e acuto ricercatore capace di muoversi con capacità, destrezza e competenza negli archivi pubblici e di famiglia e con il quale ho avuto la possibilità di condividere gli aspetti più salienti della questione ricevendo utilissimi consigli e puntuali suggerimenti, pure nella trasferta fiorentina affrontata assieme. Dati, notizie, indicazioni, lì dove non diversamente specificato, sono stati estrapolati da documenti depositati presso l’Archivio Storico Comunale di Firenze, Comune di Firenze, Atti Privati, CF 6606, CF 6609, CF 6740, CF 6741, CF 11143, CF 11144, CF 11145.
1 Nato ad Atina il 12 luglio 1819 da Giuseppe e Gaetana Fasoli, morì l’8 ottobre 1854 a soli trentacinque anni. Dotato «di alto intelletto e di vera coltura», a Napoli era entrato in contatto con vari intellettuali liberali (Francesco De Sanctis, Luigi Settembrini, ecc.) e aprì una scuola di letteratura. Quindi abbandonò la capitale partenopea e fece ritorno ad Atina per coadiuvare i fratelli Pasquale (1817-1908), Alfonso (1831-1909) e Francescantonio (1834-1905) nella conduzione della cartiera di famiglia. Negli anni della reazione borbonica dopo il tentativo rivoluzionario del 1848, fu perseguitato dalla polizia, oggetto di vari mandati di cattura, processato presso la Gran Corte Criminale di Santa Maria Capua Vetere per aver pubblicato presso la tipografia di Montecassino un opuscolo intitolato Catechismo giornaliero della Guardia Nazionale.
2 Figlia di Lodovico e Flavia Ferrari, era nata il 2 febbraio 1822 e scomparve il 19 marzo 1899.
3 Le riunioni, nel corso delle quali il tutore provvedeva a presentare il «resoconto annuale della tutela», erano convocate dalla Pretura di Atina e vi partecipava anche il pretore. Esse si tennero il 23 giugno e il 19 luglio 1897, poi l’11 ottobre 1899. Successivamente Fortunato depositò i rendiconti della gestione annuale della tutela presso la Pretura di Atina spedendoli per raccomandata. Altre due riunioni si tennero il 30 novembre 1906 e il 27 dicembre 1907, l’ultima il 14 gennaio 1917.
4 Il 2 marzo 1929 Giuseppe Visocchi, in una lettera al cugino Fortunato, si rammaricava dell’«annunzio» della «dipartita» di Rachele la quale, pur essendo «sofferente da tanti anni», «era sempre una cara congiunta», per poi lasciarsi andare al «dolce ricordo dei tempi passati vissuti insieme» di «quando la concordia della numerosa famiglia era l’unico e più grande conforto della vita».
5 Teresa Panfilia Visocchi, figlia di Filippantonio, era nata ad Atina il primo marzo 1873.
6 Secondo una informativa anonima giunta il 13 marzo 1932 al Comune di Firenze, i contrasti che portarono alla separazione risiedevano n una lettera scritta da Filippo, il padre di Teresa Panfilia, a un signore di Aquino. Quest’ultimo si era rivolto a Filippo per avere informazioni su Fortunato poiché gli aveva chiesto in sposa sua figlia «della quale era innamoratissimo». Nella risposta, Filippo «diede pessime informazioni» su Fortunato e il matrimonio con la ragazza di Aquino «andò a monte». Poi Fortunato sposò Teresa Panfilia. Qualche tempo dopo, quando a Fortunato giunsero da Aquino le «informazioni originali, avute dal padre della moglie», iniziarono i dissapori tra i due coniugi. Per l’anonimo estensore della lettera fu «questa la vera ragione» che dette avvio alla «incompatibilità fra loro, e ne venne la separazione, la quale causò lo stato anormale» di Fortunato. Diversamente Fortunato, come scrisse in una lettera inviata il 26 febbraio 1926 al Comando di divisione aeronautica, addossava la colpa del naufragio del matrimonio al cugino Achille Visocchi.
7 Come prova gli rammentava della «sera della catastrofe» quando era tornato da Fortunato per riferirgli la risposta di «d. Teresina». A casa Fortunato aveva chiamato la «serva» per porgerle alcune domande e anche Silvio Palombo poté saper che nel corso dei mesi di matrimonio tra i coniugi «non vi erano state mai vie di fatto ma solo degli screzi». Quando poi quella sera stessa tornò dai genitori di Teresa Panfilia, il padre gli riferì della dichiarazione della «serva», ed egli rimase «di stucco».
8 In sede di separazione legale Fortunato accusò Teresa Panfilia di aver violato la «volontà sacra» di un padre nell’«imposizione del nome al proprio figliolo» scelto solo dall’ex moglie e che, evidentemente, lui avrebbe voluto diverso.
9 Il 3 gennaio 1914 l’acquirente Tutinelli (difeso dall’avv. Adelgiso Mancini) chiese al presidente del Tribunale di Cassino l’apertura del giudizio di «purgazione». Quindi con provvedimento di omologazione del 5 gennaio 1914 fu autorizzato a depositare provvisoriamente a garanzia della dote di Teresa Panfilia (difesa dall’avv. Ettore Rocchi), coniuge di Fortunato (procuratore l’avv. Alfredo Massari), la somma di L. 20.000 presso un istituto di credito. Al tempo stesso veniva dichiarava la decadenza di tutti i creditori non comparsi e la cancellazione delle iscrizioni ipotecarie di Orazio Visocchi (difeso dall’avv. Raffaello Danese). Contro tale sentenza Fortunato produsse appello il 27 novembre 1914 ma la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 23 luglio 1915, confermò la sentenza del Tribunale di Cassino. Fortunato propose allora ricorso in Cassazione che però con sentenza del 7 dicembre 1916 lo rigettò. Il deposito di L. 20.000 all’interesse del 5% annuo dava una rendita di L. 1.000 pagata in rate semestrali a Teresa Visocchi per conto di Fortunato Visocchi (il capitale sarebbe stato ritirato alla morte di Fortunato o dagli eredi nel caso di morte di Teresa). Invece la parte rimanente del prezzo dovuto dall’acquirente Tutinelli (L. 40.000) fu investita nell’acquisto di cartelle del Prestito nazionale con interessi del 5% pari a L. 2.000 annui, da intestarsi a Fortunato, proprietario con vincolo di usufrutto, e da corrispondere a Teresa Panfilia.
10 F. Visocchi, Cenni sulla vita di Giacinto Visocchi, prefazione a Dell’arte dello scrivere e dell’estetica. Lezioni dettate da Giacinto Visocchi in Napoli nell’anno 1844, Società Editrice Dante Alighieri, Roma 1901, p. 6.
11 Giuseppe Visocchi (1850-1930) figlio di Pasquale ed Elisabetta Tutinelli, unico sopravvissuto di altri sei figli della coppia, tutti morti in tenerissima età, dopo essersi formato ad Arpino e laureato a Napoli, aveva sposato Celestina De Clemente ma dall’unione non erano nati figli. Fu a lungo sindaco di Atina, dal 1894 al 1927, e poi podestà fino alla sua morte. Nel corso della sua vita si dedicò principalmente all’attività industriale e alla conduzione della Cartiera. Fu anche presidente della locale «Società operaia di mutuo soccorso». Contribuì all’ammodernamento della cittadina operando per la sistemazione di strade e vie, per l’apertura di un mattatoio pubblico, per la costruzione di nuovi attraversamenti del fiume Mollarino, per l’ampliamento del cimitero, così come Atina fu uno dei primi centri a dotarsi di illuminazione elettrica pubblica. Al fine di perseguire il miglioramento sociale si adoperò per la istituzione di associazioni assistenziali e umanitarie (la «Società agraria di Mutuo soccorso», la «Congrega di Carità», la «Cassa agraria»). Fu munifico nei confronti dei suoi operai e della popolazione locale in genere e generosamente sostenne gli Enti assistenziali locali che, negli anni di guerra e anche successivamente, si occupavano degli orfani di guerra così come nel corso degli eventi bellici aveva provveduto all’accoglienza dei cosiddetti «profughi di Caporetto» come vennero definite tutte quelle persone, oltre un milione di civili, che dalle province di Udine, Vicenza, Treviso, Belluno, Venezia erano fuggite con l’avanzare dell’Esercito austro-ungarico, sfollando verso la pianura padana e da lì inviate in molti Comuni di tutta Italia..
12 Secondo Torquato Vizzaccaro la cappella funeraria dei Visocchi in Atina fu realizzata dallo scultore Bartolomeo Ricci su progetto dell’ing. Silvio Castrucci (T. Vizzaccaro, Cassino, S.E.L., Roma s.d., pp. 92-93). Bartolomeo Ricci, originario di Cassino, aveva realizzato anche il Monumento a Enrico Toti e assieme al fratello Luigi, «scultore artigiano senza precedente formazione scolastica», avevano eseguito le opere in bassorilievo che ornavano la Cripta di S. Benedetto in Montecassino (A. Pantoni, Il grande fregio a figure della cripta di Montecassino: saggio d’interpretazione, Montecassino, s.d., p. 241, n. 14) e partecipato alla realizzazione del Monumento ai caduti a Cassino del primo dopoguerra.
13 Giuseppe Visocchi di Pietropaolo, nato nel 1785, aveva sposato Gaetana Fasoli dalla quale aveva avuto tredici figli. Scomparve il 21 settembre 1841.
14 Fortunato sembra invocare per lo zio Pasquale una sorta di applicazione dell’istituto del maggiorascato o della primogenitura. Pure altri componenti della famiglia Visocchi si comportarono allo stesso modo attribuendo l’intera quota di «disponibile» a un solo figlio mentre la «legittima» veniva suddivisa fra tutti gli eredi come avvenne per Giacinto con lo stesso Fortunato oppure per Orazio con Guglielmo, ma in questi casi si trattava dell’unico figlio maschio contemplato nell’asse ereditario.
15 Si trattava di Lucia (1810-1818), Luisa (1812-1817), Lucia (1818-1828), Donato (1821-1834), Lucia (1827-1828).
16 Filippo (1825-1842), con testamento, aveva lasciato i suoi beni per metà a Pasquale, Giacinto, Alfonso e Francescantonio e l’altra metà da dividersi in otto parti di cui sette a favore dei «germani» e delle «germane» e una a favore della madre Gaetana Fasoli. La quota di Lucia (1829-1842), morta minorenne, fu divisa fra i sei figli superstiti e la madre.
17 F. Visocchi, Cenni sulla vita … cit., pp. 3, 6.
18 La cartiera era stata impiantata circa mezzo secolo prima dai fratelli Bartolomucci in località Santa Lucia del «Borgo Castellone» di Picinisco. Attorno al 1870 la Cartiera dava lavoro a una sessantina di maestranze, pariteticamente divisi tra uomini e donne, istruite da personale francese e aveva come direttore Lorenzo Montgolfier, proveniente dalla famiglia dell’inventore dell’aerostato. Nell’opificio, formato da un edificio a tre piani cui si affiancavano delle unità abitative per uso degli operai, vi veniva prodotta, con macchinari tecnologicamente avanzati, una ventina di diversi tipi di carta per il cui smercio era stato acquistato un magazzino (fondaco) a Napoli. Il nuovo assetto societario della proprietà finì per avere ripercussioni positive sulla produzione tanto che tra il 1876 e il 1890 il numero degli operai salì a 90 mentre la cartiera non riusciva «a soddisfare tutte le richieste di mercato». Tuttavia sul finire dell’Ottocento, anche a causa delle nuove tecniche di lavorazione che richiedevano un «radicale rinnovamento delle tecnologie» di produzione in seguito all’introduzione di nuove materie prime come la pasta di legno e la cellulosa, portarono la Cartiera Bartolomucci a iniziare un «lento ma inesorabile declino». In quegli anni il numero di maestranze calò vertiginosamente, gli addetti si ridussero a solo 10 unità, finché nel 1906 i Bartolomucci cedettero ai Visocchi l’altra metà dello stabilimento (A. Pelliccio, La Cartiera Bartolomucci a Picinisco in due documenti ottocenteschi, in «Studi Cassinati», a. V, n. 1, gennaio-marzo 2005, pp. 29-34).
19 Quando morì Beatrice nel 1856, la sua quota fu ripartita tra Fortunato (parti 6,20), Lucia, Laura e Rachele (ciascuna con parti 1,20) e la madre, Luisa Martini (parti 0,20).
20 Achille Visocchi (Atina 6 aprile 1863 – Napoli 8 febbraio 1945), avvocato, industriale, per sette legislature consecutive fu eletto alla Camera dei Deputati, finché nel 1929 venne nominato senatore. Fu sottosegretario ai Lavori Pubblici nei due governi Salandra (1914-1916), al Tesoro nel gabinetto Orlando (1917-1919) e quindi ministro dell’Agricoltura nel governo Nitti dal giugno 1919 fino alle dimissioni presentate nel marzo 1920.
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