Rileggiamo … pagine di storia edite ma poco note
«Studi Cassinati», anno 2024, n. 3
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di
Anacleto Verrecchia
Si propone l’articolo del filosofo originario di Vallerotonda.
Wittgenstein aveva in comune con Nietzsche almeno due cose: la pazzia e l’essere stato troppo vezzeggiato, per non dire viziato, dalle donne della famiglia. Della sua pazzia basti un esempio soltanto. Tra il 1926 e il 1928, improvvisandosi architetto, progettò per la sorella Margarete una casa nel terzo distretto di Vienna, nella Kundmanngasse. Ma quando l’edificio era ormai finito, ordinò agli operai di tirar giù i soffitti, perché, secondo lui, andavano alzati almeno di mezzo centimetro. E così fu fatto. La casa, che esiste tuttora, somiglia a un silos e rispecchia perfettamente il cervello increspato del suo costruttore. Quanto ai vezzeggiamenti da parte delle sorelle, ne abbiamo la testimonianza nelle lettere ora pubblicate a Vienna.
Ludwig, nome germanico, significa illustre in battaglia; ma qui c’è pioggia non già di frecce o di proiettili, bensì di diminutivi e vezzeggiativi: «Luigetto del mio cuore, Carissimo Luigino, Mio buon Gigetto, Mio Luigetto del cuore» e così via. Ma né le blandizie né la ricchezza riuscirono a placare il demone dell’infelicità che Ludwig si portava dentro; e se due suoi fratelli si uccisero, lui ci andò molto vicino. Qui cade a proposito l’aforisma di Chamford: «La felicità non è una cosa facile; è molto difficile trovarla in noi stessi, impossibile trovarla altrove».
In uno dei suoi oracoli, Wittgenstein dice che non esiste alcun mistero o enigma del mondo. Ma il primo enigma è proprio lui, perché nessuno ha veramente capito che volesse dire nel Tractatus logico-philosophicus, che sembra scritto da un aruspice o da una pizia. Il matematico e fisico Gottlob Frege, che lo aveva letto ancora manoscritto, dichiarò senza mezzi termini di non aver capito neanche una parola. Anche Karl Popper non ci capiva niente, come ebbe a dirmi una volta a Vienna.
Nei diari, invece, Wittgenstein si fa capire fin troppo bene. E nelle lettere vien fuori il personaggio, grande e tormentato. I critici, tutti intenti a stabilire se egli fosse positivista o antipositivista, sì da poterlo incasellare a ogni costo in qualche reparto della Philosophiegeschichte, hanno trascurato la sua forte componente mistico-religiosa. Non dice che nel campo di concentramento di Cassino, ai piedi della celebre abbazia benedettina, gli altri prigionieri di guerra lo chiamassero «quello con la Bibbia»? Sappiamo anche di sue visite al monastero e alla vicina Aquino, luogo natale di San Tommaso. Questo è un capitolo ancora aperto, perché fu proprio in quel campo di concentramento, di cui qui abbiamo una rara fotografia, che egli maturò l’idea di farsi prete o, in sottordine, di darsi a una vita ascetica. Quanta parte ebbe, in tale decisione, l’influsso della regola benedettina?
Anche se è difficile leggere nel cuore degli uomini, specialmente di un uomo chiuso e scontroso come Wittgenstein, c’è che egli, appena ritornato a Vienna verso la fine di agosto 1919, rinunciò alle sue enormi ricchezze e si mise a fare volontariamente il giardiniere nell’abbazia di Klosterneuburg, alla periferia della città. In seguito conseguì il diploma magistrale, quando ormai aveva superato la trentina, e se ne andò a fare l’insegnante elementare in sperdute località della Bassa Austria, dove c’erano forse più volpi che abitanti. Là visse per alcuni anni come un asceta, nutrendosi di pane inzuppato nel latte e insegnando con grande impegno i rudimenti del sapere ai poveri figli di contadini.
Suppongo che sia merito di Maria Ascher, una ciociara trapiantata a Vienna, se in questo volume [Brian McGuinness, Maria Concetta Ascher, Otto Pfersmann (a cura di), Familienbriefe, Ludwig Wittgenstein, Verlag Hölder, Pichler, Tempsky, Vienna 1996, pp. 215] è abbastanza ben rappresentato il periodo che Wittgenstein trascorse ai piedi dell’abbazia di Montecassino. Ma bisognerebbe scavare più a fondo, perché si trattò di un’esperienza decisiva. Quel monte sacro alla preghiera sembra ritornare anche nelle parole che egli disse dopo aver rinunciato alla sua eredità: «Se vuoi salire su una montagna, ti porti forse dietro uno zaino pesante?».
Le lettere vanno dal 1908 al 10 aprile del 1951, esattamente diciannove giorni prima della morte. Alcune, quasi sempre della sorella Margarete, sono in inglese. Il suicidio del fratello Kurt, che si sparò pochi giorni prima della fine della guerra, viene liquidato con poche parole: «Kurt è caduto (sic!) il 27.IX (1919). È molto triste». (Lettera di Hermine del 10-1-1919). La sintassi di Hermine, abbastanza spericolata, fa uno strano contrasto con il periodare secco, asciutto e preciso di Ludwig. Margarete, invece, lamenta la lentezza del servizio postale. Naturalmente pensa a quello italiano, anche se non lo dice per timore della censura. Lettera da Tribschen, vicino a Lucerna, 25 maggio 1919: «Luigino del mio cuore, io scrivo settimanalmente e anche la mamma scrive settimanalmente, e tuttavia sembra che tu non riceva notizie. Se li porti il diavolo!». Evidentemente i nostri cavalli postali erano bolsi già allora e tali sono rimasti, sì che non si riuscirebbe a farli trottare neanche con una rosa di francobolli espresso appiccicata sul sedere.
«Bisogna tacere sulle cose di cui non è possibile parlare»: qualunque sia il senso di questa arcana sentenza, è certo che Wittgenstein amava il silenzio. Le sue innumerevoli e rumorosissime pizie se lo tengano per detto.
* «La Stampa», giovedì 24 aprile 1997. La figura umana e culturale è stata tracciata da Franco Di Meo nell’articolo Anacleto Verrecchia: saggista – filosofo, in «Studi Cassinati», a. XXIII, nn. 2-3, aprile-settembre 2023, pp. 179-182.
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