«Studi Cassinati», anno 2024, n. 3
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di
Francesco Di Giorgio
Il 2024 è l’anno ottantesimo della liberazione del Cassinate dall’occupazione tedesca e dalla tirannide nazifascista. È anche l’anno in cui nel mondo tornano a tuonare i cannoni della guerra. Conflitti mai sopiti, ma che oggi tornano con preoccupante attualità nelle aree del fianco orientale dell’Europa unita e nel vicino Medio oriente.
La memoria e la riflessione sui conflitti servono a non dimenticare, servono a riflettere, servono a costruire coscienze rivolte alla pace e al dialogo tra popoli e nazioni.
Il Cassinate, per il tributo di sofferenze, fame, malattie e morti può, a ragione, essere un punto di riferimento e di monito importante.
Con l’occupazione tedesca, all’indomani dell’8 settembre 1943, il Cassinate fu oggetto di ogni genere di angherie per la popolazione. L’intero territorio fu sottoposto alla costruzione delle fortificazioni della cosiddetta Linea Gustav utilizzando mano d’opera coatta locale e di importazione da varie parti della Regione oltre che dall’intera Europa attraverso il trasferimento, in questa area, dei prigionieri di guerra rastrellati dalle forze armate tedesche. E, nell’ambito di queste straordinarie opere di ingegneria bellica, furono perpetrati misfatti ed uccisioni di uomini e donne inermi.
E in questa drammatica situazione che vanno ricordati i tanti giovani cassinati, in gran parte ex soldati sbandati a seguito dello sfaldamento dell’esercito italiano, fucilati dagli occupanti per ragioni e circostanze più disparate. Diversi anche gli episodi di stragi di civili: Ludovico Leone di Pignataro Interamna fucilato il 28 ottobre 1943 per rappresaglia; Biagio Pelagalli di Villa Santa Lucia impiccato ad una pianta di gelso del proprio paese per rappresaglia; Nicola Samele, catturato ed impiccato il 2 ottobre 1943 nella piazza di Belmonte Castello; Luigi Lutrario di anni 37, Antonio Petronio di anni 36, Antonio Calisto di anni 33 tutti di San Giorgio a Liri, fucilati il 7 novembre 1943 perché accusati di aver rubato pistole ai soldati tedeschi durante un rastrellamento; a Vallerotonda nel novembre 1943 vengono fucilati per rappresaglia Fedele Salera, Giuseppe Tommaso e Pietro Vacca, Vincenzo e Domenico Verrecchia. Nino Carmine muore in seguito a lavori forzati. Il 28 dicembre dello stesso anno si consuma l’ennesima tragedia conosciuta come “l’eccidio di Collelungo”; a perdere la vita sono 42 persone fra donne, vecchi e bambini della frazione Cardito che si erano accampate sul greto del torrente Rio Chiaro, unitamente a quattro soldati del disciolto esercito italiano, rimasti anonimi. Tra le vittime una bambina di un solo mese di vita: Addolorata Di Mascio. Ad Ausonia il 24 febbraio 1944 in seguito ad un rastrellamento tedesco venivano uccise tre persone, tra cui una giovane di 20 anni, un uomo di 56 e una giovane madre fucilata davanti alla porta della propria abitazione dopo che le fu strappato il proprio bambino dalle braccia. A Vallemaio frazione Pastinovecchio, Domenico Fargnoli fu fucilato il 9 maggio 1944 perché sospettato di essere in contatto con informatori degli Alleati. Il suo corpo fu gettato in un pozzo. Nelle vicinanze fecero esplodere bombe a mano facendo ulteriori vittime: Maria Antonia e Maria Teresa Castrichino, Maria Teresa Crispino, Giuseppe, Gennaro e Salvatore D’Alessandro, Emilio De Bellis, Arcangelo Fargnoli e Maria Carmina Fiorino.
Pur tuttavia la guerra con i suoi drammi e le sue atrocità non offuscò totalmente le coscienze delle persone molte delle quali, anche tra i combattenti nell’Esercito nazista, seppero mantenere e coltivare i valori dell’umanità e del rispetto per i civili. Esempi ce ne sono tanti. Un episodio importante avvenne nelle campagne di Pignataro Interamna nei primi mesi del 1944. A darne testimonianza fu, nel giugno del 1999 lo stesso protagonista, un sottoufficiale della 15^ Divisione corazzata tedesca di stanza nella valle del Liri all’epoca dei fatti. Si tratta di Wilhelm Walter che nel dopoguerra visse gli ultimi anni della sua vita nella cittadina tedesca di Sulzbach – Rosenberg nell’alto Palatinato in Baviera.
Questo il suo racconto: «Ero un sottoufficiale della 15^ Divisione corazzata dell’esercito tedesco, all’inizio del 1944, dopo innumerevoli ripiegamenti sul fronte di Cassino, ci trovavamo alcune centinaia di metri a nord di Pignataro Interamna. Durante un giro di ricognizione prima dell’alba fui sorpreso da una sparatoria. Rimasi illeso, ma non molto lontano udii i lamenti di un italiano.
Il mio pensiero fu: uno spione! Per quanto ne sapevamo tutta la popolazione nella zona del fronte era stata evacuata. Appena vidi l’uomo fuggire, lo inseguii finché non si fermò dietro mio ordine.
Era leggermente ferito ad una mano ma non abbisognava di cure. Era un contadino della zona che aveva abbandonato la sua casa e si era rifugiato in un ricovero sotterraneo con tutta la sua famiglia. Avevano voluto evitare l’evacuazione forzata verso il nord e, soprattutto, avevano la speranza che il fronte passasse presto per poter tornare subito a casa. Seguii l’uomo ed entrai nella grotta [il ricovero sotterraneo dove si era rifugiata la famiglia Siciliani si trovava non molto lontano dalla loro abituale dimora, in via Fontanarosa, presso la masseria Fargnoli – Calderone. Il bunker con le postazioni militari tedesche che difendeva un tratto della linea Gustav si trovava nella zona del “vallone”, masseria De Monaco – Palmieri, a circa 200 mt in linea d’aria dalla grotta (ndr)].
Rimasi scosso da quello che vidi. Le pareti ed il pavimento erano di terra, c’erano la madre con una neonata e i nonni, tutti avvolti dalle coperte. La luce era generata da una debole lampada ad olio, e c’erano alcuni generi di prima necessità, un crocifisso ed una raffigurazione della Madonna. Mi guardarono con occhi spaventati. Avevo sì portato dietro sano e salvo il loro padre, ma cosa sarebbe successo ora? La mia idea era quella di portarli in una zona sicura in direzione di Frosinone ma loro mi scongiurarono di lasciarli dov’erano. Avrebbero prestato attenzione a non farsi scoprire; di giorno non sarebbero usciti allo scoperto ed avrebbero evitato tutto ciò che li avrebbe potuti danneggiare. Mi sembravano così degni di fede che cominciai a pensare ad una soluzione. Tornato alla mia postazione ne parlai solo al mio superiore e concordammo di non rivelare nulla. Nel plotone, però, ne parlammo liberamente e mi fu facile raccogliere delle offerte per i miei protetti. Tutte le volte che mi era possibile, sgattaiolavo verso la grotta e spesso portavo qualcosa per lenire la loro pena. A volte portavo del cibo caldo, tal’altra una lattina di Alter Mann [“uomo vecchio”, che nel gergo militare indicava la carne di manzo in conserva (ndr)], oppure del pane e del burro. Un paio di volte portai loro anche qualcosa di ciò che ci era distribuito nel cosiddetto «pacchetto per i combattenti del fronte», come le molte ambite scatole di latta con la schokakola.
Dopo la guerra, Antonio Siciliani mi raccontò che il trattamento fraterno dei soldati tedeschi lo aveva assimilato ad un miracolo. Quanto raccontato finora non sarebbe stato degno di nota se non fosse stato per un particolare. Molto preoccupati, i genitori mi dissero che la loro bambina di cinque settimane, nata il 2 gennaio 1944, con una forte tosse, non era stata battezzata. In considerazione del grosso pericolo dovuto alla guerra ed alla sua tosse persistente, convinsi i genitori a farla battezzare d’emergenza da me. Spiegai loro il sacramento del battesimo come liberazione dal peccato e incorporazione nella Chiesa e che, se si è in pericolo di vita, chiunque, anche un laico, può battezzare.
I genitori, devoti, acconsentirono confortati ed il giorno dopo battezzai la bimba. Il nome potei sceglierlo io: Anna, il nome di mia moglie, con cui sono sposato da 48 anni. Quando oggi mi domando perché la preoccupazione per una famiglia rimasta volontariamente nel caos del fronte mi procurasse tanta felicità, mi viene in mente il loro calore umano.
Mi faceva bene sapere che nelle vicinanze c’erano persone che non ci erano nemiche, che non ci reputavano semplici soldati responsabili della loro pena e che stimavano il nostro adempimento del dovere. Avvertivo anche la preoccupazione nei miei confronti quando tardavo a venire a trovarli.
Improvvisamente la nostra unità fu trasferita nottetempo e così il contatto con la famiglia di Pignataro s’interruppe senza arrivederci. Non ricordavo più né il cognome né l’indirizzo, ma alla parola «Cassino» mi ritornava sempre in mente la famiglia nella grotta di terra, anche dopo la guerra. E la vita, talvolta, è strana ed il destino ci mette lo zampino. Infatti, nell’ottobre 1950, in occasione dell’anno Santo, io e mia moglie venimmo a Roma. Passammo una bella vacanza presso un amico a Ripi. Parlando, il discorso cadde sulla mia figlioccia di cui, però, non sapevo più nulla. Il mio amico pregò suo fratello Nino di accompagnarmi con la motocicletta a Pignataro per chiedere informazioni direttamente sul posto. Il risultato fu straordinario. Sulla cartina mi sovvenne il nome di «Fontanarosa» e ricordavo che ci passavamo durante i trasporti notturni in armi. Andammo in questo posto e vi trovammo diverse donne a lavare i panni [nel dopoguerra nella zona era stato costruito un lavatoio comunale (ndr)]. Appena accennai al caso, tutti compresero giacché nella zona era molto noto. Seguì un chiamare di casa in casa e mi fu descritta la strada per arrivare dai Siciliani. Quando arrivammo con la motocicletta, tutta la famiglia ci venne incontro: il papà Antonio, la madre Antonietta, i nonni, ed Anna con il suo vestito della festa messo in fretta e furia. Nel frattempo aveva compiuto sette anni. Da allora feci parte della parentela. La cosa fu rafforzata con abbracci calorosi e da allora ci chiamammo tutti compare e padrino. Da allora i contatti non si sono più interrotti e ci siamo rivisti varie volte. Nel settembre del ’92 sono stato ospite di Anna per una settimana. I suoi genitori riposano purtroppo già da qualche anno nel cimitero di Pignataro. Devono aver raccontato varie volte la storia ai propri bambini, giacché essi saprebbero raccontarla pari pari come ho fatto io adesso». E bisogna dire, a distanza di tanto tempo, che il signor Wilhelm Walter bene fece a mettere su carta le sue vicissitudini di guerra e questa bella pagina di umanità in un tempo particolarmente difficile.
Questa storia ci induce a pensare che anche nei momenti più bui non bisogna perdere la forza e il coraggio di pensare al bene!
A distanza di ottanta anni dagli eventi bellici che incendiarono l’Europa con la follia nazifascista, c’è chi sente il bisogno di chiedere scusa per quanto accaduto. È il caso della giornalista tedesca Laura Ewert nipote del colonnello della Wermacht scesa dalla Germania ad Arezzo dove in San Polo, periferia della città, fu consumata una strage di civili ad opera del 274° Reggimento comandato dal Colonnello Wolf Ewert. La giornalista è venuta in questi luoghi per rendere omaggio alle vittime e chiedere scusa per i misfatti perpetrati dal suo antenato.
Iniziativa analoga della giornalista italiana Barbara Serra direttrice della emittente televisiva inglese Sky News che in un documentario Fascism in the Family ripercorre il passato fascista dell’Italia e i legami del nonno podestà in Sardegna con entrature nelle stanze naziste in Germania.
Sono testimonianze e iniziative importanti anche se prese a livello individuale.
Quello che è più importante e decisivo è la cultura della convivenza pacifica tra i popoli. E questa può germogliare solo se si sviluppa un grande movimento di memoria condivisa tale da porre ostacoli insormontabili ai mali che incendiarono l’Europa e il mondo nel secolo scorso.
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